Durante il workshop dedicato al cinema di Martin Scorsese, abbiamo proposto ai partecipanti di scrivere una loro analisi su un elemento emblematico del cinema di questo grande regista: ecco i lavori che hanno meritato la pubblicazione!
STARRING: NEW YORK as NEW YORK
di Valentina Angius
Una delle tante caratteristiche che hanno reso Martin Scorsese un grande regista è la sua direzione degli attori; ma se altri registi sono stati altrettanto abili nel dirigere Robert De Niro e Daniel Day-Lewis è più difficile trovare colleghi che siano riusciti a dirigere New York, dandole una vita e una storia che viene incarnata dai personaggi stessi dei suoi film.
Scorsese porta sul grande schermo New York molte volte nel corso della sua carriera, e spesso le fa cambiare veste ma sotto sotto è sempre la stessa. A cominciare da Mean Streets, passando per Gangs of New York, fino ad arrivare a The Wolf of Wall Street. La città simbolo degli Stati Uniti, e di tutto ciò che l’America rappresenta nell’immaginario occidentale, è quasi sempre teatro di violenza più o meno esplicita, di strade di perdizione che i protagonisti intraprendono; ma perché? Perché il cinema di Martin Scorsese non ci restituisce un’America che ci permetta di sognare? In parte la risposta è senza dubbio di interpretazione autobiografica, ma la migliore spiegazione ce la dà nel 2002 con Gangs of New York: New York è nata nel sangue, è stata fondata da gangster e clandestini. È’ una città con la violenza che le scorre nelle vene. Una città nata sotto questi presupposti quale possibilità di redenzione può dare ai suoi abitanti? Quando Amsterdam, alla fine del film, dice “Per il tempo a venire, sarebbe stato come se nessuno di noi fosse mai esistito” da una parte ha ragione, pensare oggi ai padri fondatori di New York come gangster sembra un’assurdità, ma dall’altra parte l’intera filmografia di Scorsese sembra gridare che quelle persone hanno fatto di New York ciò che è ora, e che quegli avvenimenti permeano tutt’ora le vie e i palazzi della città, vengono trasmessi a chi la vive: non c’è spazio per l’innocenza a New York.
I viaggi per le strade di New York di Taxi Driver e di Al di là della vita sono viaggi all’interno dei personaggi stessi, la vita/non vita che brulica su quei marciapiedi è la vita/non vita che si portano dentro, che li disgusta (“Un giorno o l'altro verrà un altro diluvio universale e ripulirà le strade una volta per sempre”).
Emblematica è l’inquadratura finale di The Departed: non siamo più a New York, siamo a Boston, e un topo cammina su un davanzale davanti alla Massachusetts State House. Cambia la città ma il messaggio è sempre lo stesso: non è la politica a governare, il primo piano spetta a qualcuno che viene dalle fogne, che vive nascosto e che ci dà anche un po’ i brividi.
Se proviamo a guardare sotto questa prospettiva anche The Wolf of Wall Street ci rendiamo conto che dopotutto non è così diverso dai più classici e celebri film di gangster: anche Jordan Belfort è un truffatore, ha rovinato decine di vite, ha mentito e distrutto un matrimonio con una donna bellissima, solo che lo ha fatto da un piano alto di un grattacielo, non più scendendo le scale verso un ristorante interrato come in Goodfellas. Quello che vediamo oggi è un mondo gangster diverso solo perché è ridicolo, grottesco; al personaggio di Di Caprio non viene accordata la stessa dignità di altri criminali interpretati da De Niro e Joe Pesci.
È con The Irishman che Scorsese chiude (forse non definitivamente dato che la porta viene lasciata un po’ aperta) l’epoca del cinema gangster, non tanto perché il genere cinematografico sia ormai passato di moda, ma perché è finita un’epoca. Permane nel sangue di New York la violenza e la disonestà, ma hanno perso il fascino di una volta. Forse perché ora avviene tutto alla luce del sole? O forse perché ormai ci siamo talmente abituati a queste storie che non notiamo più il marcio che c’è dietro? Ora New York ci abbaglia, con tutti quegli specchi che hanno sostituito i mattoni, ora è troppo bella per credere che sotto nasconda qualcosa di brutto. Eppure Scorsese (e anche noi) guardiamo alla vecchia New York con un po’ di nostalgia, come ad un’attrice che all’inizio del secolo era ancorata alla realtà e ora, invece, ha iniziato a vantarsi un po’ troppo.
COMBATTERE PER L’IDENTITA’
di Marco Ceriotti
Perché combattere per l’identità? A che scopo? Quale identità?
Due meravigliosi finali cinematografici possono fornire degli spunti per interrogativi come questi, che da sempre trascendono il tempo. A sinistra l’ending di Gangs of New York, a destra quello di Fight Club; due pellicole completamente diverse, ma che già dal titolo rievocano idee di scontri. Le gang, ci racconta Martin Scorsese, gettano le basi della società dalle fondamenta e la violenza si rivela un passaggio necessario per la creazione del Nuovo Mondo. Il Fight Club è qualcosa di cui non bisogna mai parlare, ma i combattimenti che vi si svolgono sono un sintomo altamente distruttivo, che diverrà globale ed evolverà in una vasta rete di attacchi allo scopo di raderlo al suolo, quel Nuovo Mondo.
In entrambe le inquadrature un uomo e una donna contemplano di spalle una veduta destinata a cambiare; non conosciamo le loro espressioni, ma possiamo solo immaginare quanto contraddittori siano i sentimenti che questi (anti)eroi provano in quel momento. Da una parte la sconvolgente devastazione in atto a New York, che nel lungo termine si trasformerà nella costruzione di palazzi e architetture modernissime, che vediamo apparire gradualmente e cronologicamente nell’ultima inquadratura fissa. Dall’altra parte i grattacieli già presenti vengono fatti implodere da Fincher e Palahniuk nel giro di pochi secondi, determinando il crollo di una nazione, il default assoluto, la tabula rasa del sistema economico.
Commento di queste immagini già di per sé ipnotiche sono rispettivamente due canzoni che raccontano, descrivono e vivono questo momento con parole e musica: a sancire il futuro risveglio americano, gli U2 con The hands that built America, attraverso la quale delineano un sogno di speranza e rinascita, senza dimenticare chi ha iniziato l’opera di tutto ciò che verrà. Qui la ricerca dell’identità segue una direzione precisa verso un futuro nuovo che non deve però dimenticare il passato. A contemplare il crollo dello status quo, invece, i Pixies si/ci chiedono Where is my mind?, ballata alternative rock ad oggi inscindibile dal capolavoro di Fincher, didascalia musicale della totale frammentazione identitaria attraversata dal protagonista tramite l’incontro con Tyler Durden.
Jenny e Marla sono le rispettive compagne dei protagonisti, coloro che avviano la propria ricerca identitaria. Se Amsterdam Vallon richiama il ricordo del padre di fronte alla sua tomba (in realtà da sempre vivido per guidarlo verso l’uccisione di Bill), Edward Norton deve eliminare quello di Tyler Durden per poter acquisire la piena identità di se stesso. Jenny e Marla sono quindi vittime della guerra identitaria personale dei loro uomini.
Ma l’identità deve perdurare affinché i posteri ricordino: se da un lato Amsterdam avanza esplicitamente il dubbio che tutto il sangue versato venga presto dimenticato, dall’altro la cancellazione del debito americano potrebbe forse essere attribuita a Tyler Durden, o forse a chiunque faccia parte del Fight Club, membri ormai del tutto spersonalizzati che gridano senza capire la frase “il suo nome è Robert Paulsen”.
ANDARE ALTROVE PER VENIRSI INCONTRO
di Lucia Cirillo
Sembra quasi di assistere ad uno sdoppiamento. Forse non è neppure voluto, eppure è molto forte il dubbio che in quel breve e divertito scambio di battute tra due donne che - finalmente – si intendono ci sia una complicità tale da renderle così simili anche nei lineamenti. In “Alice non abita più qui” sono tanti gli “scherzi” da cineasta smaliziato che Scorsese pare disseminare come in un gioco divertito e poetico, quasi a sottolineare che anche in un film apparentemente lontano dalle sue corde ci sia in realtà un’idea molto coerente di un preciso modo di intendere il cinema. Fin troppo facile sarebbe ragionare sullo stesso incipit, quando la piccola Alice, in uno scenario da western classico, si sovrappone alla voce della cantante dei titoli di testa dicendo che lei è più brava, per poi catapultarci in tutt’altro contesto, genere, ritmo…in un gioco metacinematografico a cui il regista avrebbe abituato il pubblico anche con le sue pellicole più iconiche.
Alice è figlia di un tempo che non la rappresenta, donna brillante e simpatica ma plasmata troppo presto da una provincia che le ha inculcato valori che hanno svilito la sua personalità, adeguandosi ad una società costruita sul concetto che gli uomini fossero legittimati ad esercitare la propria virilità con autoritarismo e violenza. Presto costretta al nomadismo per mantenere un figlio undicenne, buffo e maldestro quasi quanto lei, farà di questo suo “peregrinare” tra i luoghi dell’America ben lontani dallo scintillio delle metropoli, un percorso di affrancamento e di catarsi. In questo inatteso percorso di scoperta di sé riuscirà a fare anche di più: imparerà la consolazione del “venirsi incontro”. È proprio questa la più forte suggestione di quel primo piano sul volto di due donne che fino ad allora non si erano proprio piaciute. Alice e la “pittoresca” collega di lavoro Flo, superate le incomprensioni di approccio, stabiliranno quella rara e magica intesa che si realizza davvero soltanto quando si è affrontato lo stesso tipo di dolore. Confrontare il proprio personalissimo vissuto è un buon modo di alleggerirlo, farci pace, provare a dipanarlo con strumenti nuovi. Due profili che sorridono rivolti al sole, accomunati da espressioni identiche, anche il rossetto è lo stesso, le palpebre chiuse ma che esprimono un benessere rilassato e pacificato. Soltanto alla fine della loro buffa conversazione, grazie alla quale consolidano la loro “sorellanza” tra battute sull’importanza di una scollatura profonda per fare più mance e maschi ideali che esistono soltanto negli sceneggiati (“Bea starà guardando “Sono tutti miei figli” ora”), l’inquadratura si allargherà per mostrare il luogo in cui effettivamente si trovano le due donne: il retro dell’angusto diner nel quale entrambe lavorano. Fino a quel momento si sarebbe pensato ad una spiaggia assolata, tanto era potente la sensazione che si trovassero in un luogo adeguato a rappresentare quella felice condizione.
Venirsi incontro, piuttosto che continuare a fuggire. Il viaggio soprattutto come ridefinizione della propria meta. La comprensione di sé può qualche voler dire non desiderare più di ritornare nel proprio luogo d’origine, ma trovare il luogo in cui darsi delle nuove possibilità, andare incontro all’amore che ha deciso di accogliere questa nuova condizione. Vuol dire avere anche il coraggio di fermarsi. Ancora una volta, stavolta nella toilette del diner, Alice lo capirà grazie a Flo.
PRETEND IT’S A CITY (FRAN LEBOWITZ - UNA VITA A NEW YORK)
di Silvia Guzzo
Pretend It’s a City (Fran Lebowitz - una vita a New York, il titolo italiano) è una docu-serie firmata Martin Scorsese: uscita in Italia a gennaio 2021 e presente su Netflix, ha come protagonista la scrittrice e intellettuale Fran Lebowitz, amica storica del regista. Sebbene non ricordino esattamente quando e come si sono conosciuti, Scorsese e Lebowitz sono certi di aver trascorso molte serate mondane insieme, immergendosi in lunghe conversazioni e tenendosi compagnia durante svariati party galanti. E infatti, il piacere che ‘Marty’ (così Fran Lebowitz si riferisce al regista italoamericano) prova nel discorrere con Fran si può evincere dai due documentari che egli ha dedicato all’amica e scrittrice: non solo Pretend it’s a City, ma anche Public Speaking, tradotto in italiano come La parola a Fran Lebowitz, risalente al 2010 e realizzato per conto di HBO. In effetti, Pretend it’s a City riprende più o meno da dove si era interrotto Public Speaking: ritroviamo Lebowitz sempre pronta a dire la sua durante le conferenze e Scorsese intento a porgerle domande e a ridere a crepapelle ascoltando le sue risposte.
La serie è strutturata in una sola stagione, divisa in sette episodi di circa mezz’ora l’uno. Ogni episodio è dedicato a una diversa tematica, racchiusa nel titolo, che a sua volta fa riferimento a un dipartimento della città di New York o «a cose che potessero sembrarlo», come afferma la stessa Lebowitz in un’intervista rilasciata a Rolling Stone. Già guardando la locandina, infatti, è possibile individuare l’altra protagonista indiscussa della docu-serie, ossia la città di New York, raccontata attraverso gli occhi di Fran: il disegno che compone la locandina ritrae infatti la sagoma della scrittrice statunitense, all’interno dei cui occhiali si possono scorgere i profili dei grattacieli della Grande Mela. La serie è in effetti un omaggio di Scorsese non solo a un’amica di vecchia data, ma anche alla sua città, e le due si delineano l’un l’altra: le parole di Fran fanno scoprire allo spettatore molte cose su New York, mentre la città incarna l’anima e il carattere della scrittrice. Si potrebbe forse dire che, agli occhi del regista, Lebowitz costituisce una sorta di personificazione della città di New York, della sua storia e dei grandi personaggi che ne hanno fatto parte. Motivo ricorrente dei monologhi di Fran è infatti il modo in cui la città è cambiata negli anni, come sono cambiati i suoi abitanti e le loro abitudini. L’amicizia della scrittrice con personaggi di spicco di New York, come Andy Wharol e Charles Mingus, permettono di dare ricchezza alla ricostruzione del passato della città stessa, ricordando le personalità artistiche che l’hanno abitata e hanno contribuito alla sua trasformazione culturale.
Benché Scorsese abbia dichiarato che il suo intento nella realizzazione dei documentari fosse quello di «raccontare una storia in modo diverso», differenziandola dai suoi film, in Pretend Its’a City è possibile rintracciare moltissimi tratti tipici del cinema dell’autore. Per prima cosa, è impossibile non notare la colonna sonora che accompagna la narrazione: in particolare, le molteplici scene che mostrano la scrittrice statunitense che cammina nelle strade affollate di New York si caratterizzano per i motivi musicali che contribuiscono a delineare la personalità della protagonista. Una colonna sonora molto curata e variegata quindi, in vero stile Scorsese. Non mancano poi le molteplici inquadrature dall’alto, tanto care al regista, soprattutto nella ripresa del modellino della città di New York conservato al Queens Museum (il Panorama of the City of New York) che compare in quasi tutti gli episodi, e attorno al quale si aggira Fran, sempre intenta a dire la sua su qualsiasi argomento. Neppure il tema religioso risulta assente da questa serie: si parla infatti delle origini ebraiche della protagonista che, seppur atea, non manca di ricordare una serie di aneddoti relativi alla religiosità dei genitori: uno fra tutti, il divertente racconto di un dialogo tra la Lebowitz bambina e sua madre, in cui le due discutono del dovere di baciare i libri sacri che cadono per terra. Molteplici sono poi i riferimenti ai film del regista italoamericano: dall’ovvio New York, New York, a Taxi Driver (la stessa Lebowitz infatti per un periodo è stata autista di taxi nella Grande Mela), passando per Fuori orario (di cui viene proiettata una scena nell’episodio dedicato ai trasporti) e Toro Scatenato (nell’episodio sullo sport si vede un dialogo tra la Lebowitz e Spike Lee, in cui i due parlano di pugilato e Fran afferma che a suo parere questo sport dovrebbe essere illegale, perché lo è il combattimento tra galli e, in fondo, che cosa differenzia queste due pratiche da un punto di vista morale?). Vi è un rimando persino a Hugo Cabret: è infatti presente una scena in cui la Lebowitz fa capolino da un grande orologio, proprio come accade al protagonista della pellicola per bambini del regista. Nella docu-serie appaiono poi alcune scene di The Wolf of Wall Street e del suo dietro le quinte: la Lebowitz ha infatti preso parte al film nei panni del giudice che presiede il processo al protagonista, Leonardo di Caprio, e ai suoi compagni truffaldini. Nella serie Scorsese mette inoltre a frutto la grande conoscenza che ha della settima arte: le parole di Fran sono spesso accompagnate da immagini di celebri film del passato. In effetti, Scorsese e la Lebowitz condividono l’amore per il cinema: i due hanno guardato insieme innumerevoli film e la scrittrice ha persino lavorato come critica cinematografica tenendo una rubrica intitolata Il meglio del peggio, in cui recensiva lungometraggi di serie B. Tra questi le è anche capitato di recensire un’opera dello stesso ‘Marty’, il film America 1929 - Sterminateli senza pietà!, che per altro le è piaciuto molto.
Guardando la serie risulta difficile ignorare le affinità tra la protagonista e un altro noto personaggio della scena intellettuale newyorkese: il regista e sceneggiatore Woody Allen. Entrambi ebrei di origine e amanti del cinema, della città di New York e del jazz, condividono perfino un umorismo molto simile: lievemente misantropi e cinici, non si abbandonano però mai a un completo nichilismo, scherzando e, alla fine, apprezzando le assurdità della vita e delle relazioni umane. Ma i riferimenti ad Allen non si limitano alle somiglianze con la protagonista: anche i titoli di coda della docu-serie ricordano gli iconici titoli alleniani, come pure la musica che li accompagna. Dopotutto, un prodotto cinematografico che pone al centro la città di New York difficilmente può ignorare il lavoro di un regista come Allen, che nella maggior parte delle sue pellicole ha lasciato ampio spazio alla città, spesso effettiva co-protagonista delle vicende. È quasi come se Scorsese avesse voluto omaggiare Woody Allen, senza però farvi mai esplicito riferimento: sarà forse dovuto alle polemiche che, negli ultimi tempi, hanno nuovamente colpito Allen?
In conclusione, un breve riferimento al montaggio della serie. Esso è certamente “visibile” e le immagini di film e trasmissioni televisive del passato si alternano costantemente alle parole di Fran, donandogli concretezza visiva. Il modo in cui è montata la serie restituisce l’intento di decostruzione narrativa con cui Scorsese decide di approcciarsi ai documentari: «Volevo fare qualcosa di differente e ho scoperto che con questi documentari potevo distruggere la forma. Smontiamo tutto e vediamo dove andiamo a parare. È come controllare un assolo jazz improvvisato o una coloratura in un’opera: vedi fino a che punto puoi divagare, per poi buttarti di nuovo nella storia», ha dichiarato il regista a Rolling Stone. E in effetti Scorsese ha realizzato una serie di documentari, che solitamente rimangono meno noti rispetto ai suoi film: tra i più recenti ricordiamo ad esempio, oltre ai due dedicati a Fran Lebowitz, Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story by Martin Scorsese, del 2019 e The 50 Year Argument, del 2010 e dedicato alla storia e all’influenza della rivista The New York Review of Books. Dovremmo forse prestare maggiore attenzione a questo genere di prodotti del regista italoamericano, in cui egli si permette di sperimentare tecniche inedite: essi infatti consentono di gettare una nuova luce sul suo modo di vivere e fare cinema. Pretend It’s a City può essere un buon punto di partenza.
SITOGRAFIA:
Fortuna che ci sono Fran Lebowitz e Martin Scorsese a insegnarci New York. E la vita, su Rolling Stone Italia, 24 gennaio 2021. URL consultato il 24 giugno 2021.
Alessandro Cavaggioni, Fran Lebowitz: una vita a New York - recensione della serie di Martin Scorsese, su Cinematographe.it, 23 gennaio 2021. URL consultato il 24 giugno 2021.