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Il cinema di Spike Lee in 10 sequenze fondamentali
Regista, sceneggiatore, produttore e attore statunitense, figlio di un bassista jazz, Bill, e di Jacqueline, insegnante d’arte, morta nel 1977, colei che gli dà il soprannome “Spike” (il nome completo del regista è Shelton Jackson Lee), Spike Lee cresce a Brooklyn, si iscrive a un college di Atlanta frequentato da soli afroamericani e inizia a girare i primi corti mentre frequenta la Tisch School of the Arts di New York. Negli anni diventerà, forte di una carriera di precoce impatto, il regista afroamericano più noto di tutti i tempi e una voce peculiare della sua generazione. Il suo penultimo film, BlacKkKlansman (2018), presentato al Festival di Cannes, vince il Grand Prix speciale della giuria per poi ottenere, nel 2019, l’Oscar alla miglior sceneggiatura non originale, il primo Academy Award in assoluto per il regista. Lo scorso 12 giugno è arrivato su Netflix il suo ultimo film, Da 5 Bloods - Come fratelli

Di seguito vi proponiamo 10 sequenze imprescindibili, e non di rado rappresentative del suo stile e della matrice del suo cinema.

1. LOLA DARLING (She's Gonna Have It, 1986) - « Set this Bitch on Fire!»

Spike Lee confeziona un'anti-favola dove a trionfare non è il lieto fine, sancito da una tradizione culturale e morale distante dalle esigenze concrete delle persone, ma il desiderio di libertà, di indipendenza morale e sociale di una donna e l'esigenza di avere il controllo sulla propria vita e sul proprio corpo. Il cinema afroamericano fa scalpore, conquista una nuova ribalta e nuova estetica, si emancipa dai canoni della blaxploitation. E Lee dà voce per la prima volta, nel suo esordio, a un talento decisamente sregolato e incendiario (questa scena, incendiaria, lo è alla lettera). 



2. FA' LA COSA GIUSTA (Do the Right Thing, 1989) - Prince, Bruce Springsteen e gli stereotipi razziali 

Spike Lee, poco più che trentenne, filma nel suo quartiere quello che resta probabilmente il vertice insuperato della sua carriera: affresco corale, fotografia spietata della facilità dell'odio e dell'impossibilità della convivenza, del rispetto reciproco e della comprensione in America. Film vivissimo e insieme amaramente impotente, come impotente è il personaggio di Mookie (interpretato dallo stesso Lee), unico impiegato nero della pizzeria e semplicemente incapace, o per meglio dire impossibilitato, ad aiutare la sua comunità nel superare il conflitto. In questa scena c'è tanto della veemenza del cinema di Lee, da sempre avvezzo allo schiaffo, alla frontalità, alla coscienza di rottura. Il dialogo tra il Pino di John Turturro e il personaggio del regista dapprima muove dalla polarità tra Prince e Michael Jackson, e poi lascia spazio, cullato dal jazz di Bill Lee (padre del regista) a quei brevi monologhi in camera che dicono tantissimo sugli stereotipi razzisti parlando direttamente con lo spettatore, interpellato senza filtri e mezzi termini. 

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3. JUNGLE FEVER (1991) - Un nero, una bianca, la polizia e un grosso malinteso

Spike Lee sceglie la tematica sentimentale come ulteriore campo in cui indagare le tensioni razziali che attraversano la società americana. Preconcetti, stereotipi, religiosità fondamentalista (la moralistica maschera del “buon reverendo” Purify, interpretato da Ossie Davis, che dedica al figlio tossico e a quello in crisi matrimoniale lo stesso tranciante giudizio), gelosie, ghettizzazione, difficoltà di andare oltre l'esempio dei padri. Questa scena è drammaticamente attuale, alla luce di quanto avvenuto negli ultimi giorni a Minneapolis e nelle ultime ore ad Atlanta: un uomo nero e una donna bianca scherzano sulla carrozzerria di un auto, la polizia - nonostante sia il compagno della donna - lo prende per uno stupratore. Segue una colluttazione frenetica sormontata da una pallida luce bianca, tanto fioca quanto accecante, incapace di sublimare tante insensatezza. Come suggerisce qualcuno nei commenti del canale Youtube Movieclips, forse il film è datato: oggi, in questa situazione, il cittadino di colore verrebbe trucidato dopo 10 secondi netti. 



4. MALCOLM X (1992) - «They're Brothers of Brothers Johnson»

Pindarico nelle ambizioni, esaltato da una straordinaria interpretazione di Denzel Washington e da una raffinata cura formale: un titolo ancora notevolissimo nel panorama di un genere sempre più in espansione come il biopic e un prezioso punto di riferimento per la comprensione di una delle figure chiave del Novecento americano, attivista per i diritti degli afroamericani, durissimo accusatore dell'America bianca. In questa scena c'è tutto il tenore lirico dell'operazione di Spike Lee, la sua schiettezza dialettica e il suo spessore al contempo epico e civile: tanto nel modo di Malcolm X di rapportarsi alle autorità e alla polizia, quanto nella valorizzazione di una coralità di individui a partire da un singolo totem, in una marcia inesorabile, condivisa e avvolgente. 



5. CLOCKERS (1995) - «Do you understand me?»

Spike Lee eredita un progetto di Martin Scorsese (rimasto come produttore), adattando per lo schermo l'omonimo romanzo di Richard Price, che inizialmente non gradì la decisione del regista di privilegiare la storia dello spacciatore rispetto a quella del poliziotto che gli dà la caccia. Ma il giovane del ghetto, in bilico tra la tentazione della malavita e la speranza del cambiamento, è un personaggio pienamente nelle corde di Lee, che prende la sua storia ad esempio per un deciso atto d'accusa contro la violenza delle strade statunitensi, attaccando direttamente la cultura gangsta di molti afroamericani influenzati da certo rap di grande successo. Questa scena arriva un anno dopo Pulp Fiction, muove da premesse tarantiniane analoghe per forma e taglio ma pian piano, battuta dopo battuta, prende una piega molto più sottile, fatale e disperata. 



6. S.O.S. SUMMER OF SAM - PANICO A NEW YORK (Summer of Sam, 1999) - Dancing Queen

Summer of Sam viene ricordato come il primo film di Spike Lee non espressamente legato alla comunità afroamericana. Ma il modo in cui racconta la storia vera del killer e la psicosi che invade la piccola enclave italoamericana nel Bronx, così come la sua attenzione topografica e lucidissima alle dinamiche di gruppo, rimangono invariati. Questa, ad esempio, pur essendo un crudo litigio di coppia senza esclusione di colpi, è una delle sue scene romantiche più riuscite e memorabili, capace di valorizzare meravigliosamente il talento di Mira Sorvino e John Leguizamo e di utilizzare in modo sornione e anti-frastico, ma ugualmente struggente, le note di Dancing Queen degli Abba. Con tanto di plongée a cambiare la prospettiva e l'umore della scena a metà, e di sapiente cambio di guida (e di genere). 



7. LA 25ª ORA (25th Hour, 2002) - Fuck you

Dal romanzo omonimo di David Benioff, anche sceneggiatore, un dramma sul mito americano del ripartire da zero, mirabilmente diretto da Spike Lee. La venticinquesima ora del titolo, così evocativo e misterioso, è un simbolo tangibile, il miraggio della seconda possibilità, la metafora degli Stati Uniti pronti a restituire un po' di quello che l'uomo (con le sue mani) si è negato, affossandosi attraverso un esercizio lucido e autodistruttivo del proprio libero arbitrio, in una variante rovesciata e capovolta di segno del sogno americano e del self made man. Forse il film più incisivo di Lee, con almeno tre sequenze da antologia: il dialogo tra i due amici di Monty di fronte al cratere di Ground Zero («Cosa abbiamo fatto per impedirgli di rovinarsi?»); la topografica, totalizzante invettiva alla specchio di Brogan nei confronti di New York, che diventa consapevolezza del proprio personale fallimento (la trovate di seguito, e rimane una mappatura di NY e non solo vertiginosa e impressionante ancora oggi); il viaggio in auto con il padre verso il carcere, con l'esplicitazione del sogno di ricominciare e la consapevolezza che soltanto di sogno, appunto, si tratti. 

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8. INSIDE MAN (2006) - La liberazione degli ostaggi

Spike Lee si piega alle più stringenti maglie del cinema di genere, confezionando un solido e convincente caper movie ("film del colpo grosso") dagli elementi accuratamente organizzati: un protagonista carismatico, un caveau inaccessibile, un piano perfetto, un degno antagonista, una punizione da scontare. Per di più, è anche una notevole riflessione sulla crisi d'identità nell'America del post-11 settembre, in cui l'incapacità di riconoscere tra uomini onesti e criminali (brillante la trovata di vestire tutti nello stesso modo per confondere le acque) porta al panico e al caos. Come in questa scena di liberazione degli ostaggi, in cui Spike Lee si reinventa, tenendo alta comunque l'asticella della tensione dell'impegno civile, solido regista di genere. 

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9. CHI-RAQ (2016) - I titoli di testa: «And y'all mad cause I don't call it Chicago, but I don't live in no fuckin' Chicago, boy I live in Chi-Raq»

Mette le cose in chiaro fin dal prologo, Spike Lee con il suo Chi-Raq: una cartina stilizzata degli Stati Uniti d’America con tante miniature di armi giustapposte, a sostituire la riproduzione in scala dei singoli Stati e dei confini che li separano. Accanto a tale immagine dal provocatorio impatto, ecco entrare subito in campo il flow del brano Pray 4 My City di Nick Cannon, i cui versi eloquenti e sferzanti («And y'all mad cause I don't call it Chicago, but I don't live in no fuckin' Chicago, boy I live in Chi-Raq») spiegano cosa voglia dire, nell’America del 2015, essere afroamericani e vivere nelle pieghe vulnerabili di un tessuto urbano e nazionale che, con il tempo, ha interiorizzato sempre di più il proprio razzismo congenito e ampiamente sedimentato, inestirpabile anche in tempi di retorica black e negli anni del primo presidente di colore alla Casa Bianca.



10. BLACKKKLANSMAN (2018) - Il montaggio alternato del prefinale

Colorado, anni Settanta. L'agente di polizia Ron Stallworth (John David Washington) ha l'idea di infiltrarsi nel Ku Klux Klan locale. In quanto afroamericano, però, potrà condurre l'operazione solamente al telefono, mentre per le azioni concrete avrà bisogno di un collega bianco intenzionato a sostituirlo (Adam Driver). Sviluppando un intreccio elementare e sbrigativo, ciò che più sembra mancare all'appello è una componente comica degna di nota capace di sposare a dovere la pista poliziesca. Anche l'omaggio alla cultura pop e all'immaginario audiovisivo del decennio in cui il film è ambientato risultano un po' sterili e grossolani, proprio perché al regista di Atlanta sembra interessare esclusivamente il versante "politico", messo in scena attraverso alcune scelte di grande impatto che però sono in parte vanificate da momenti troppo enfatici. Ad ogni modo il montaggio alternato del prefinale, visibile qui sotto e in cui dal Ku Klux Klan di finzione si passa poi a un joint diviso tra Donald Trump e l'uso di filmati di repertorio (fino a rovesciare la bandiera americana, e farne obbligatoriamente una questione di bianco e di nero), è sicuramente un gran momento di cinema.

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