Stanley Kubrick, nato il 26 luglio 1928, è stato un regista geniale, capace di anticipare il futuro con la sua visione aperta e distopica tanto del mondo quando del mezzo cinematografico, oltre a essere l'autore di alcune tra le sequenze più memorabili e d'impatto dell'intera storia del cinema.
RAPINA A MANO ARMATA (1956) - Il dialogo tra George e Sherry
Tratto dal romanzo Clean Break di Lionel White, si tratta del terzo lungometraggio di Stanley Kubrick e in assoluto della sua prima opera davvero importante. Il regista scrisse la sceneggiatura facendosi aiutare da Jim Thompson (noto autore di romanzi noir), che si occupò dei dialoghi: scandito da una voce narrante che detta perfettamente i tempi dell'azione, Rapina a mano armata più che un “semplice” film di genere è un'operazione dalla struttura narrativa sperimentale e innovativa, tanto che si potrebbe definirla una pellicola postmoderna ante litteram. Il ritmo è incessante, la confezione di altissima fattura, ma ciò che colpisce di più è il grande spessore psicologico che Kubrick ha dato a ognuno dei suoi personaggi: notevole, in particolare, la descrizione del rapporto coniugale tra il timido cassiere George, interpretato dal grande caratterista Elisha Cook Jr., e la moglie Sherry, femme fatale che metterà i bastoni tra le ruote all'intera operazione (trovate di seguito un loro dialogo, affilato e vertiginoso, tra rimpianti ed elementi torbidi: una sorta di macabro gioco delle parti, tra voyeurismo e detection). Dopo l'uscita di questo film, la critica americana iniziò a considerare Kubrick (che all'epoca aveva solo ventotto anni) uno dei più importanti registi in circolazione e Orson Welles lo definì un “gigante”.
ORIZZONTI DI GLORIA (1957) - Un canto d'innocenza tra le macerie
Tra i più importanti film antimilitaristi americani del ventesimo secolo, Orizzonti di gloria prende spunto dall'omonimo romanzo di Humphrey Cobb: Stanley Kubrick, al suo quarto lungometraggio, torna a cimentarsi col genere bellico (dopo il suo esordio, Paura e desiderio, del 1953) con una consapevolezza tecnica e una maturità stilistica decisamente superiori a quelle dimostrate nella sua opera prima. Grazie all'elegante fotografia in bianco e nero di Georg Kraus, il regista trasmette magnificamente l'atmosfera claustrofobica e inquietante delle trincee, riuscendo a catapultare lo spettatore in mezzo al terreno fangoso e agli spari. La guerra, assurda e incomprensibile, viene vista come un universo dominato dalle differenze di classe e di potere militare: i soldati semplici muoiono, mentre i superiori lottano per conservare il proprio posto. Struggente sequenza finale, in cui i militari francesi ascoltano una ragazza tedesca cantare in una locanda e si commuovono: una scena citatissima in cui si passa repentinamente, ma con dolcezza chirurgica, dallo sberleffo al vagheggiamento malinconico, con un flebile, sussurrato eppure nitidissimo canto di speranza.
LOLITA (1962) - «You Must See the Garden»
Tratto dal noto romanzo omonimo di Vladimir Nabokov, che scrisse anche la sceneggiatura del film, Lolita è una delle opere più “classiche” che siano state dirette da Stanley Kubrick. Più che l'aspetto visivo contano i dialoghi e l'introspezione psicologica nella mente di un uomo sedotto da (per usare le sue parole) un “misto di infantilismo e volgarità”. La sua passione si trasformerà gradualmente in un'ossessione vera e propria ed è questo l'elemento a cui il regista ha dato maggiore spazio. Intelligentemente, la vicenda si apre con la conclusione, mentre l'intera narrazione altro non è che un lungo flashback: una scelta tesa a catturare ancor di più l'attenzione del pubblico, e simile a quelle che Kubrick aveva già realizzato con Il bacio dell'assassino (1955) e Rapina a mano armata (1956). L'atmosfera al contempo torbida e fatata è tutta in questa celeberrima sequenza, nella quale la tensione erotica è strisciante e palpabile e di vellutato c'è solo il tema musicale di sottofondo e il modo in cui la fotografia accarezza i contorni del corpo di Sue Lyon e ne sfuma ed elimina i confini, trasportandolo in una dimensione perlacea e quasi disincarnata, prima di limiti fisici, a suo modo mitologica. A chiudere la sequenza è un suo primo piano, tanto memorabile quanto inequivocabile.
IL DOTTOR STRANAMORE, OVVERO: COME IMPARAI A NON PREOCCUPARMI E AD AMARE LA BOMBA (1964) - Ordigno fine di mondo
In piena Guerra Fredda, soltanto (il genio di) Stanley Kubrick poteva avere l'idea di realizzare una pellicola tanto grottesca e sarcastica su uno dei periodi più delicati della Storia del ventesimo secolo. L'ispirazione viene da un romanzo (serissimo) di Peter George, Red Alert, che il regista trasformò in una commedia nera a tutti gli effetti: un'intuizione acutissima e in grado, allo stesso tempo, di riflettere e di sdrammatizzare sulla minaccia atomica. Per il suo ultimo lavoro in bianco e nero, Kubrick ha puntato su una sceneggiatura scandita da tempi perfetti e da dialoghi irresistibili, che vertono attorno al temibile “ordigno di fine di mondo”. Peter Sellers, all'apice del suo eclettismo, interpreta ben tre ruoli, di cui il più memorabile è proprio quello del dottore ex-nazista che dà il titolo al film, che in questa scena trova il suo apice più sfrenato, mellifluo, esilarante e nevrotico. Essendo il film con ogni probabilità la miglior commedia nera mai fatta se ne potrebbero citare come minimo un'altra dozzina: nella sequenza che segue, nella versione italiana, un plauso va anche allo straordinario doppiaggio di Oreste Lionello.
2001: ODISSEA NELLO SPAZIO (1968) - L'osso, l'astronave e uno stacco di montaggio che abbraccia l'intera evoluzione umana
Quando, nell'aprile del 1968, 2001: Odissea nello spazio fece le sue prime apparizioni sul grande schermo, tutto il cinema precedente (di fantascienza e non solo) sembrava invecchiato improvvisamente. Scandito in quattro parti, il film è un inarrivabile saggio filosofico sui rapporti tra essere umano e tecnologia, sulla violenza come arma di sopravvivenza e sull'evoluzione dell'uomo: evidenti i rimandi a Nietzsche, richiamato esplicitamente dalla riflessione sull'Übermensch (l'“oltreuomo”) e dal poema sinfonico di Richard Strauss, Così parlò Zarathustra (ispirato a un'opera del filosofo tedesco), sulle cui note le astronavi sembrano danzare armoniosamente. Prendendo spunto dal racconto La sentinella (1948) di Arthur C. Clarke, che collaborò alla stesura della sceneggiatura, Stanley Kubrick realizza un memorabile concerto audiovisivo, composto da movimenti di straordinaria geometria (l'osso scagliato dalla scimmia che, in un solo fotogramma, si trasforma in un'astronave), da sequenze sperimentali degne di un trip allucinogeno (il viaggio interstellare in Giove e oltre l'infinito) e scene ipnotiche e sublimi (l'arrivo alla stazione orbitante al ritmo del Danubio Blu di Johann Strauss figlio). La sequenza più importante, però, è proprio lo stacco di montaggio capitale dell'osso tramutato in astronave: un singolo cut da far tremare i polsi, che da solo – e in un singolo istante – concretizza e contemporaneamente l'elide, nascondendola nelle sue spire invisibili, l'intera evoluzione del genere umano.
ARANCIA MECCANICA (1971) - Arrovellandoci il Gulliver...
Basterebbe soltanto la prima sequenza per capire la straordinaria portata narrativa ed espressiva di Arancia meccanica: dallo sguardo in primo piano di Alex, che si rivolge direttamente agli spettatori, la macchina da presa indietreggia per mostrarci la scenografia, pop e depravata, del Korova Milk Bar, mentre il protagonista introduce se stesso e i suoi compagni al pubblico. Un'indimenticabile sinfonia sulla (ultra)violenza insita nella mente umana, la pellicola è una spietata parabola sul libero arbitrio che contiene un forte dilemma morale (è meglio imprigionare una persona o trasformarla in una robotica “arancia meccanica”?) già presente nell'omonimo romanzo di Anthony Burgess da cui il film prende ispirazione, sovvertendone e cambiandone di segno però il finale in maniera folgorante e geniale.
BARRY LYNDON (1975) - Lady Lyndon
Tratto dal romanzo di William Makepeace Thackeray, è l'opera più “letteraria” firmata da Stanley Kubrick. Da sempre il regista newyorkese ha utilizzato, con grande spessore drammaturgico, la voce narrante, ma mai prima di Barry Lyndon le aveva dato un tale valore espressivo: questa scandisce, con tempi perfetti, la complessa storia del protagonista, arrivando anche a giudicarlo, deriderlo, rincuorarlo. Per realizzare quest'opera monumentale e ipnotica, Kubrick e il suo direttore della fotografia, John Alcott, hanno preso spunto dalle pitture paesaggistiche e dalle stampe del secolo di riferimento, mentre per l'illuminazione sono state utilizzate soltanto luci naturali, candele o lampade a olio, rendendo necessario l'uso di obiettivi fotografici Zeiss utilizzati sui satelliti Nasa. Questa scena con protagonista Lady Lyndon (Marisa Berenson), una ricca contessa rimasta vedova che acconsente a sposare il protagonista, uomo discutibile che attraversa miseramente il Settecento senza particolari meriti, e a dargli il suo nome, è un cristallino esempio di perfezionismo formale, di cristallina e sovrumane impassibilità nel lavorare su immagini e musica per cogliere al loro interno, inesorabilmente e miseramente, lo spirito di un tempo e del tempo.
SHINING (1980) - Here's Johnny!
Tratto da uno dei primi romanzi di Stephen King, riplasmato mirabilmente da Stanley Kubrick, Shining è un angosciante e sublime viaggio negli abissi della mente umana. Dopo aver lavorato con il cinema di guerra (Orizzonti di gloria, del 1957), con la fantascienza (2001: Odissea nello spazio, del 1968) e con il film storico (Barry Lyndon, del 1975), Kubrick affonda la sua cinepresa nel genere horror, rinnovandolo e portandolo a una vetta di spessore drammaturgico e narrativo mai raggiunta in precedenza. I claustrofobici corridoi dell'Overlook Hotel riflettono la struttura del cervello umano, la graduale discesa nella follia del protagonista, che si trova sperduto in un labirinto di orrori, loop temporali e paranoie da cui non potrà più uscire. Se le sequenze memorabili non si contano e questa scena è entrata di diritto nella storia del cinema: Jack Nicholson che distrugge una porta con l'accetta è un omaggio a un momento de Il carretto fantasma, del 1921, di Victor Sjӧstrӧm; sessant'anni dopo, Kubrick utilizza questo vecchio spunto per sintetizzare il più agghiacciante esempio di brutalità e follia familiare mai apparso sul grande schermo. Con una sontuosa dialettica tra interno ed esterno, tesissima e da pelle d'oca, destinata a rimanere marchiata a fuoco nelle viscere dello spettatore.
FULL METAL JACKET (1987) - "Qui vige l'uguglianza!"
Mostrare la “follia della guerra” (del Vietnam, in particolare) non è certo una tematica di primo pelo nel 1987: Stanley Kubrick riesce però a costruire una grande riflessione sull'argomento, posticipando l'azione sui campi di battaglia per focalizzarsi inizialmente sugli alienanti metodi d'addestramento, resi iconici dal sergente Hartman, interpretato da un ex istruttore dei marine. Prendendo spunto dal romanzo Nato per uccidere di Gustav Hasford, il regista priva i personaggi della propria identità (evidente in questo senso la scelta di utilizzare dei soprannomi), li trasforma in anonima carne da macello pronta a sfogare i propri istinti primordiali e, in seguito, a morire.
EYES WIDE SHUT (1999) - «Scopare.»
Stanley Kubrick aveva acquistato i diritti di Doppio sogno (racconto scritto da Arthur Schnitzler nel 1926) alla fine degli anni Sessanta: trent'anni dopo, ha deciso di proporne la sua versione per il grande schermo nel film che rappresenterà l'ultimo tassello dello straordinario mosaico che ha composto la sua inarrivabile carriera. Eyes Wide Shut è un film-indagine sul sesso e i rapporti coniugali: a danzare insieme, in questo sublime balletto, sono l'amore e la morte, Eros e Thanatos, che arrivano a mescolarsi fino a scambiarsi i ruoli. Per un regista che più di ogni altro ha raccontato i punti nodali e i massimi sistemi del Novecento, associando a ogni suo film una monumentalità tematica ed estetico-filosofico e una dimensione del godimento e dell'attesa senza precedenti, è ironico e paradossale, ma solo fino a un certo punto (e ridure la battuta a un colossale sberleffo d'autore sarebbe ingeneroso), che il suo ultimo film si chiuda con un semplicissimo, laconico, brutale «Scopare».