"Il disprezzo" di Jean-Luc Godard: le vostre analisi
21/12/2022
Al termine del webinar dedicato all'analisi de Il disprezzo di Jean-Luc Godard abbiamo chiesto ai partecipanti di scrivere un'analisi relativa al film. Ecco le più interessanti:

 

Da “Il disprezzo” di Alberto Moravia a “Le mépris” di Jean-Luc Godard

di Alessandro B.

 

“Le mépris”, tratto dal romanzo “Il disprezzo”, pubblicato da Alberto Moravia nel 1954, è uno dei film più classici, lineari ed accessibili al grande pubblico nella sterminata produzione di Jean-Luc Godard, una grande produzione internazionale ricca di star ed ambientazioni seducenti. Le due opere sono state oggetto di minuziose analisi ed approfondimenti nel corso dei decenni sia singolarmente che in modo comparato, qui ci limitiamo a riprendere alcuni spunti che ci sembrano ancora stimolanti ed attuali.

“Il disprezzo” narra la crisi coniugale tra Riccardo Molteni, sceneggiatore cinematografico, e sua moglie Emilia, bella e svogliata, nella Roma borghese degli anni Cinquanta. I sentimenti della donna mutano inesorabilmente fino a trasformarsi in un feroce disprezzo che sembra inspiegabile agli occhi del marito e la stessa Emilia non riesce a dare una chiara motivazione del suo cambiamento. Assieme all'infelicità della coppia, sono almeno due gli argomenti centrali del romanzo, la descrizione di come l'industria cinematografica sia ormai piegata alle esigenze del mercato, abbandonando ogni pretesa artistica e l'Odissea che non rappresenta solo un pretesto narrativo, ma che diventa lo specchio in cui il protagonista si riflette per cercare di comprendere meglio le proprie difficoltà.

Questi tre temi sono intrecciati tra loro e l'aspetto più interessante per il lettore contemporaneo appassionato della Settima Arte sta nella realizzazione da parte di Moravia di un vero e proprio saggio sull'adattamento cinematografico, partendo da uno dei testi più noti dell'intero patrimonio culturale di tutti i tempi; lunghe pagine sono infatti dedicate al confronto sulla sceneggiatura dell'Odissea tra le diverse visioni delle figure emblematiche che concorrono alla realizzazione di un film: il produttore, il regista e lo sceneggiatore.

Il produttore vorrebbe una versione kolossal e spettacolare: "Omero ha messo nell'Odissea giganti, prodigi, tempeste, maghe, mostri...e io voglio che mettiate nel film giganti, prodigi, tempeste, maghe, mostri". Moravia si diverte a mettergli in bocca una violenta critica al neorealismo: "Il film neorealistico è deprimente, pessimistico, grigio... rappresenta l'Italia come un paese di straccioni... insiste troppo sui lati negativi della vita... un film che ricorda alla gente le sue difficoltà invece di aiutarla a sormontarle".

Il regista vorrebbe invece trasformare l'Odissea in una vicenda psicoanalitica, un moderno dramma moralistico che riassume così: "Punto primo: Penelope disprezza Ulisse per non avere reagito da uomo, da marito e da re contro l'indiscrezione dei Proci... Punto secondo: questo disprezzo provoca la partenza di Ulisse per la guerra di Troia... Punto terzo: Ulisse inconsciamente ritarda finché può il proprio ritorno... Punto quarto: per riavere la stima e l'amore di Penelope Ulisse uccide i Proci".

Lo sceneggiatore resta in una posizione intermedia, indecisa, dubbiosa, dando ragione ora all'uno ora all'altro, e proponendo una terza strada che non risulta mai troppo chiara, anche se si appassiona citando L'Ulysses di James Joyce e l'Inferno di Dante, proponendo Ulisse come figura emblematica della civiltà occidentale, ma alla fine rinuncia sia per le sue vicende personali, sia perché considera questo lavoro riduttivo rispetto alle sue ambizioni letterarie.

Moravia fornisce una dettagliata ed impietosa descrizione del lavoro di sceneggiatore di cui riportiamo solo poche righe: "La sceneggiatura è dramma, mimica, tecnica cinematografica, messa in scena e regia... Lo sceneggiatore è l'uomo che rimane sempre nell'ombra, che si svena del suo miglior sangue per il successo di altri ma che non vedrà mai il proprio nome sui cartelloni pubblicitari dove sono invece indicati quelli del regista, degli attori e del produttore... Lo sceneggiatore deve contentarsi di lavorare per il denaro che riceve, il quale finisce per diventare il vero e solo scopo del suo lavoro... passando da una sceneggiatura all'altra, da una commedia ad un dramma, senza interruzione, senza pause...".

Godard compie una vertiginosa “mise en abyme” di questo soggetto e, caso unico tra tutte le sue opere di ispirazione letteraria, resta sostanzialmente fedele al testo di partenza, conservandone la trama, le situazioni, i personaggi e molti dialoghi, ma riuscendo a trasformarlo in qualcosa di nuovo e personale, complesso e stratificato, dal formidabile impatto visivo, mettendo in scena quattro personaggi credibili e ben delineati che si dibattono tra modernità e classicità, un tema che sarà sempre centrale in tutta la sua controversa ed articolata produzione.

Michel Piccoli riesce a dare al personaggio di Paul la giusta ambiguità tra l'intellettuale al servizio del padrone e l'artista colto ed ambizioso; è un uomo del suo tempo che cerca di sopravvivere tra malintesi, equivoci e compromessi e di capire meglio la crisi affettiva che lo ha colpito inaspettatamente.

Il ruolo del regista tedesco è affidato a Fritz Lang, che interpreta se stesso, ritornato in Europa dopo il periodo hollywoodiano; attraverso il suo occhio e la sua storia il cinema assume un ruolo di coscienza superiore che osserva e giudica, una vera e propria "politique des auteurs” in presa diretta e significativamente Godard si ritaglia la parte marginale di suo assistente in due brevi sequenze.

L'interpretazione atletica e muscolare del produttore fornita da Jack Palance risulta volutamente in una caricatura, quella dell'uomo ricco ed ignorante che quando sente parlare di cultura tira fuori il libretto degli assegni, confonde greci e romani, si eccita quando vede una giovane donna nuda, non accetta rifiuti e pretende che tutti siano al suo servizio.

Brigitte Bardot era già un'icona del cinema contemporaneo ed apprezzata dagli autori della Nouvelle Vague, che però non potevano permettersela, qui appare come una statua classica da ammirare, una spettatrice quasi muta da svestire e rivestire con abiti colorati, destinata però a fare la fine dell'agnello sacrificale.

Tra i tanti riferimenti metacinematografici che costellano il film rimane centrale quello dell'adattamento dell'Odissea, anche se le tre posizioni sono espresse diversamente dal libro e sono concentrate soprattutto in due sequenze, quella nella saletta di proiezione di Cinecittà dove campeggia la citazione di Louis Lumière "Il cinema è un'invenzione senza avvenire", e quella nel cinema romano dove deve essere proiettato Viaggio in Italia, altro film sulla crisi coniugale girato fra le testimonianze della classicità mediterranea, molto ammirato dai giovani critici dei Cahiers du Cinéma. Tornando all'adattamento, Godard non sceglie tra i diversi punti di vista, li considera tutti come possibili, sembra accettare l'eventualità di due o più interpretazioni dell'opera di Omero. L'Odissea è una tragedia ed il destino degli uomini è scritto in anticipo da forze superiori ed anche “Il disprezzo/Le mépris” sembra seguire questo percorso come testimonia il tragico epilogo di libro e film, anche se nel libro muore solo la donna.



ll disprezzo. Quando il cinema diventa pretesto (auto)critico

di Lucia Cirillo

 

Che senso ha per un film come “Il disprezzo” avventurarsi in un dibattito classico finalizzato all’esegesi di un’opera che rompe ogni possibile schema predefinito per la sua comprensione? Eppure la tentazione sarebbe quasi automatica se si pensa che si sta parlando di un film tratto dal romanzo di uno scrittore noto come Moravia, interpretato dai più osannati divi del momento accanto a veri e propri monumenti della storia del cinema come Fritz Lang. Un film che richiama la grandezza dell’epoca classica e che, oltretutto, ha come pilastro narrativo portante proprio il cinema stesso. Gli ingredienti ci sono tutti per pensare al più classico dei prodotti di cinema, se non fosse che questo film, dai presupposti così apparentemente prevedibili, si fa pretesto per contenere, e rivendicare, la negazione di tutto il cinema fino ad allora conosciuto…passando per il cinema stesso.

Un’operazione, questa, definibile certo paradossale e che poteva realizzare solo il massimo esponente della Nouvelle Vague, il più provocatorio, il più riluttante all’adesione acritica verso formule rigidamente codificate del raccontare attraverso il cinema. 

Ne “Il disprezzo” ogni inquadratura, ogni scelta cromatica, tutto quanto viene detto (e ancor di più ciò che viene taciuto), le tante lingue adottate a dettare la misura della (in)comprensione sia tra i protagonisti che per noi spettatori, le scelte di montaggio, persino (e forse soprattutto) la vasta aneddotica sui retroscena del film (strane dinamiche volutamente fomentate e pianificate tra mogli, nuovi fidanzati, ex amanti…dei vari componenti della troupe) che pare entrare a pieno titolo nelle atmosfere restituite dal film…tutto questo assieme, racconta di un atto di ribellione al mondo che si sta abitando, a quello spazio magico eppure maledetto che è il cinema, col quale si è drammaticamente interrotto un canale comunicativo fondamentale: il modo di raccontare le storie prescindendo dal loro contenuto.

“Il disprezzo” è un film anomalo e ipnotico, nel quale si alternano la fascinazione per un’opera ancora oggi fortemente innovativa e la sensazione per lo spettatore di vedersi costretto a maneggiare il meccanismo oscuro di una narrazione che cerca la sua strada con ogni strumento a disposizione.

In questo film non rimane più nulla di quello che il regista ritiene superfluo affinché un messaggio passi e sia percepito dallo spettatore: protagonisti, sceneggiatori, produttori...via via scompaiono assecondando la saturazione del proprio ruolo ben prima che l’opera possa dirsi conclusa. Ciò che è essenziale, perché il cinema possa compiersi e non semplicemente “compiacersi” di se stesso, è solo un luogo in grado di restituire emozioni e un occhio (quello del regista) pronto a catturarlo, nel “silenzio” di un mondo che non ha più bisogno d’altro per raccontarsi.

Il tempo che intercorre tra ciò che è “superfluo” e la “frammentazione” dello stesso fino al suo completo annullamento, è il cinema di Godard: un atto politico coincidente con la vita stessa.

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