Il tanto criticato The Midnight Sky, settimo film da regista di George Clooney uscito a dicembre 2020 su Netflix, è - a guardarlo bene senza fermarsi alle apparenze - un film coraggioso, particolarmente complesso nella struttura, perfettamente coerente con l’universo filmico del suo autore, ad oggi uno dei più influenti e importanti cineasti moderni che pur essendo interno all’enstablishment hollywoodiano nello stesso momento riesce ad essere voce fuori dal coro, sempre e comunque in linea con il suo pensiero. Ma soprattutto, un film delicato ed emozionante, che si inserisce un sotto-genere (il kammerspiel sci-fi) le cui regole stiamo per definire e che ha prodotto alcune tra le opere più significative e belle di tutta la fantascienza moderna.
Letteralmente, kammerispiel è la recitazione da camera, termine ispirato alla musica da camera (kammermusik) perché ne condivide la vocazione da rappresentazione per pochi, in ambienti raccolti, in piccole dimensioni, dove la distanza tra pubblico e attori è ridotta, privilegiando l’analisi intimista e psicologica. Al cinema, il kammerspiel è stato una delle tre correnti principali del cinema tedesco pre-hitleriano (insieme alla nuova oggettività e all’espressionismo), ponendo quindi un forte accento sul primo piano e sulla percezione delle sfumature nelle emozioni dei protagonisti. Sulla carta e in teoria, quindi, un genere quanto mai distante dalla fantascienza con le sue opere piene di spazi sconfinati e predilezione per l’azione.
Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio del decennio successivo sono però usciti sugli schermi due film di lungometraggio, 2001 A SPACE ODISSEY e SOLARIS (rispettivamente di Stanley Kubrick e Andreji Tarkovskij) che hanno mostrato come il cinema potesse guardare al futuro per guardare, in realtà, nelle profondità del presente e dell’essere umano: paradossalmente, il contrasto tra la messa in scena -la grandiosità dello spazio- e il nucleo della storia -una ricerca nella memoria- creavano un cortocircuito bellissimo ed incandescente, pronto ad aprire la strada ad un nuovo tipo di fantascienza che incontrava la filosofia.
Entrambi i film vengono da due romanzi, ed entrambi creano degli archetipi fondamentali, attraverso la fusione tra forma e concetto, utilizzando l’ignoto spazio profondo come uno specchio (oscuro) in cui l’uomo vede sé stesso: un riflesso però non donato, ma costruito e concesso dalle ambizioni e fatiche dei protagonisti.
Nella fattispecie, poi, la cosiddetta fantascienza filosofica è diventata un vero e proprio sotto-genere (basti pensare anche solo a BLADE RUNNER): mentre invece il capolavoro assoluto di Tarkovskij ha plasmato una protoforma di “sci-fi kammerspiel”, utilizzando una forma narrativa molto più astratta rispetto ad altri film. In SOLARIS il protagonista è la mente umana, madre dei fantasmi che infestano la stazione spaziale e il cui padre, il pianeta Solaris, rimarrà per sempre del tutto incomprensibile per via dei limiti della coscienza umana. Solaris è quindi l’annichilimento delle certezze umane, metaforizzando le incertezze e le paure dell’uomo perché l’ignoto non è solo all’esterno della comprensione.
Appare chiaro allora come inconsapevolmente il regista russo abbia utilizzato i canoni del cinema da camera (analisi intimista, pochi protagonisti, rigore nella struttura drammaturgica segnata da un’unità di azione, tempo e di luogo) trovando il modo per ambientare la sua storia nella vastità dello spazio. Lo sci-fi kammerspiel non sembra però essere stato considerato finora, a livello metodologico, un vero e proprio sottogenere, pure se negli anni si può ritrovare in prodotti importanti e di inedite altezze emotive, aggiungendo alle caratteristiche di sopra uno studio sulla famiglia e sulla sua assenza, inteso in senso allargato.
A partire dallo stesso remake di SOLARIS operato da Steven Soderbergh, che ha in qualche modo distorto la storia innestando le sue ossessioni autoriali; muovendosi per macrostorie, sono senza dubbio sci-fi kammerspiel MOON di Duncan Jones, AD ASTRA di James Gray, arrivando appunto al bellissimo e a torto incompreso THE MIDNIGHT SKY di Clooney.
Apriamo quindi la ricognizione con il SOLARIS di Soderbergh, dove il protagonista assoluto (insieme a Natascha McElhone) è proprio Clooney: un film che conserva la sua forza e la sua attualità, al di là di ogni sterile confronto limitato a mostrare le differenze, incentrato più che altro sulla forza perturbante di un presente caratterizzato dall’ipertrofia delle immagini.
Prima ancora che un film, nel libro Solaris è uno spazio creatore di immagini e di corpi: grandissima e geniale intuizione di Lem che anche nel film di Soderbergh agisce come dispositivo produttore di cinema. Proprio per questo, non ha senso mettere a confronto i due film tratti dalla stessa opera letteraria, in quanto è fondamentale (solo) mostrare le modalità con cui il pianeta -e quindi il film- diventa un meccanismo creatore di immagini, di cinema e di sguardo. In questo senso, appare naturale e perfettamente coerente la scelta di Soderbergh alla regia: autore camaleontico che ha fatto della non-linearità la sua linea autoriale, riuscendo a raccontare immagini sempre diverse all’interno di un audiovisivo immerso nella coazione a ripetere, sempre con una nuova proposta di visione per sottolineare con forza il potere delle immagini e quindi, facendo un percorso a rebours, della memoria.
Per questi motivi, tutto SOLARIS di Soderbergh è attraversato dall’inquietudine della visione che infrange le barriere tra reale e irreale con la prepotenza della forza perturbante del presente caratterizzato dall’ipertrofia delle immagini. E per molti versi, MOON di Duncan Jones è perfettamente in linea con questo movimento.
Se nel film del regista di LET’S THEM ALL TALK l’astronauta Clooney vedeva ciò che non era reale ma desiderava lo fosse, nell’opera prima del figlio di David Bowie c’è Sam (un incredibile Sam Rockwell, già protagonista dell’esordio di Clooney dietro la macchina da presa, CONFESSION OF A DANGEROUS MIND) in completa solitudine in una base lunare che comincia ad avere allucinazioni al termine di un’operazione andata male, creando un altro sé con cui confrontarsi.
MOON, oltre ad essere un esordio sorprendente, ripete la formula difficilissima messa in scena da Cronenberg nel suo DEAD RINGERS: un attore per due ruoli in scena fino alla fine, in una prova recitativa di livelli sopraffini. E’ così che la trama, sfruttando tematiche propriamente fantascientifiche, riesce a dipingere un maestoso e toccante ritratto dell’umanità e di come questa possa andare in frantumi. Il desiderio di tornare a casa, il desiderio degli affetti più intimi: “all’apparir del vero tu misera cadesti”, e tutte le speranze crollano di fronte allo scorrere ineluttabile degli eventi. Il turbamento interiore si evidenzia nello sdoppiamento del personaggio, un unico uomo diviso a metà, incapace di comprendere quanto sta accadendo o forze incapace di accettarlo, immerso in scenografie tendenti all’asettico cromatismo bianco-nero che riecheggiano paure claustrofobiche: come in ALIEN, come in SOLARIS, con un unico uomo a fronteggiare i mostri della mente. La casa per Sam vuol dire poter toccare il calore dell’altro, sentire la pelle della moglie e il viso della figlia, avvertirne i contorno: significa vedere invece che immaginare.
L’amore è un illusione? I sentimenti sono proiezioni, stimoli indotti, riproducibili come copie?
La freddezza del computer senziente GERTY è un contraltare alla sensibilità di Sam, per mettere in evidenza il contrato uomo/macchina fondandolo sull’elaborazione, sull’espressione dei sentimenti, nucleo ribollente intorno al quale ruota MOON.
Pur se con più personaggi in scena, anche lo splendido (anche questo, incompreso da molti nella sua enormità emotiva ed umana) AD ASTRA di Gray mette in scena un monologo interiore, una preghiera pagana per mezzo del protagonista Roy (Brad Pitt), astronauta razionale figlio di un pioniere dei viaggi nello spazio scomparso venti anni prima, forse autore di alcune scariche di energie che mettono in Roy il dubbio sulla presunta morte del genitore.
Pur se film di fantascienza, AD ASTRA è il film più umanista e trascendente di Gray: fortemente ancorato a canoni di genere (con le intuizioni visive di Hoyte Van Hoytema, il film reinventa l’iconografia classica come forse solo al SOLARIS di Soderbergh era riuscito nel cinema moderno), l’opera numero 7 del regista è una disperata confessione sul dolore dell’assenza dei padri, sul vuoto e sul bisogno di colmarlo, in una ricerca che è insieme fisica e spirituale. AD ASTRA, incredibilmente intenso, ermetico e chiuso quasi nella sua materica sofferenza, è un lunghissimo monologo interiore, una ricognizione sulla solitudine e sul dolore, sulla rinuncia alle utopie, che Pitt (coproduttore del film così come del precedente di Gray, THE LOST CITY OF Z) avrebbe potuto interpretare anche seduto su un divano di fronte ad uno psicoanalista. Perchè il figlio raggiunga il padre sulla Luna prega perché ha bisogno che Dio sia accanto a lui. È uno spazio bianco quello al cui interno il protagonista Roy si muove: uno spazio dove cercare la sua radice, per trovarlo e non trovarlo allo stesso momento -non c’è la certezza logica, sul finale, che Roy incontri davvero il padre e non sia solo la sua immaginazione: anche qua, l’immaginazione si sostituisce alla realtà-, perché la ricerca vuole solo colmare il vuoto del non averlo. È per questo che Gray, intelligentemente e con sensibilità, intercetta quel vuoto e ne fa materia da thriller esistenziale, adagia il dramma nella storia, facendo sì che il suo personaggio viaggi all’origine di sé stesso (come in 2001) per scoprire che la partenza e l’approdo sono sempre insieme dentro di noi, espandendo solo sé stessi nel tracciare la traiettoria.
E arriviamo a chiudere il cerchio con Clooney (anche noi, arrivando dove eravamo partiti), che con il suo THE MIDNIGHT SKY così come AD ASTRA usa il viaggio spaziale per riflettere sulla famiglia.
È lo stesso regista a dire di sé stesso “io sono un ibrido, riesco a vivere in entrambe le dimensioni”, parlando della circostanza che lo vuole volto e voce di quelle lezioni di politica che oggi più che mai sono necessarie a formare quella coscienza politica assente.
Fin dalla sua -citata- prima regia, l’ex dott. Ross è convinto dell’impronta formativa del cinema, in particolar modo dell’osservazione e comprensione del passato per capire il presente e costruire il futuro. Da DANGEROUS MIND fino a GOOD NIGHT AND GOOD LUCK e SUBURBICON, soprattutto con IDES OF MARCH, Clooney non urla la verità, ma parla con I propri nemici conservando glamour ed eleganza, sposando un sommesso messaggio ecologista ad una critica veemente contro lo status quo politico americano, contro ogni dittatura.
THE MIDNIGHT SKY è un film corposo, denso, stratificato: che si muove non senza alcune pesantezze su tre livelli narrativi i quali solo negli ultimissimi dieci minuti dell’opera (lunga quasi due ore densissime) si riallacciano diventando un’unica storia. Una storia tratta dal libro LA DISTANZA TRA LE STELLE di Lily Brooks-Dalton e che fin dal titolo letterario mette in chiaro che il discorso è sulle distanze. Personali, prima che e più che geografiche.
Dopo l’apocalisse, raccontata a posteriori dall’unico uomo rimasto letteralmente sulla faccia della Terra, c’è solo la desolazione spenta di un paesaggio che non sembra avere confini con una ricostruzione immaginata. E se il solco narrativo traccia un legame nascosto, dimenticato, sofferto, doloroso tra padri e figli, la struttura è quella di un tipico servivo: ma è qui che emerge prepotente la natura e la statura di Clooney autore, una natura mimetica e intimamente postmoderna, un cinema che continuamente adatta il suo sguardo e la messa in scena all’immaginario di riferimento (anche come attore: GRAVITY -fantascienza-, SYRIANA -spy story-, HAIL, CESAR! -commedia nera e grottesca-, MONEY MONSTER (dramma), UP IN THE AIR -commedia romantica-). Certo, Clooney non è tanto un narratore ma un teorico, ed è per questo che MIDNIGHT SKY a volte si incarta, a volte si inceppa, a volte inciampa in una narrazione spesso lacunosa sul ritmo: ma è lucidissimo nel suo dolore, essenziale nei suoi sentimenti, sofferto fino al pianto nel raccontare il vuoto della famiglia dentro al suo tempo. Anche perché dopotutto, dall’apparire della bambina Iris, va letto come un racconto, e per questo poco coerente, disastrato, allucinato, lacunoso, di un padre alla ricerca della figlia, un viaggio dentro l’amplificazione dei sentimenti dei genitori che diventa un urlo, silenzioso e assordante, di solitudine. Nello spazio, dove nessuno può sentirti gridare.
GianLorenzo Franzì