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Influenza delle arti visive all'interno dell'universo cinematografico
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa riflessione sul rapporto tra cinema e arti visive di Niccolò Marnati.


Per definire la dinamica degli scambi e delle interazioni tra cinema e pittura abbiamo a disposizione varie proposte di classificazione. Il critico cinematografico, nonché storico del cinema italiano, Giorgio Tinazzi ha individuato quattro possibili livelli nei quali può attivarsi tale relazione: a) di immagine; b) di costruzione dell’immagine; c) di articolazione dell’immagine; d) di autoriflessione dei linguaggi. Mentre il primo livello riguarda il puro e semplice riconoscimento delle somiglianze tra immagine pittorica ed immagine filmica, il secondo e il terzo chiamano in causa i metodi di costruzione e le articolazioni dell’immagine nella complessità di un testo (figurativo e narrativo). Il quarto rientra nella più vasta problematica della riflessione sulle strutture del linguaggio e della relazione tra linguaggi. I casi presi in considerazione che seguiranno, andranno a mostrare parallelismi tra film e opere d’arte, basandosi su un’analisi a partire dai livelli di relazione proposti da Tinazzi. 

Il primo esempio riguarda una ripresa della tecnica degli impressionisti utilizzata all’interno del film ‘’Il Corvo’’ di Alex Proyas (1994). Basato sull’omonimo fumetto di James O’Barr, il film racconta la storia di Eric Draven, un musicista rock la cui anima, inquieta e tormentata torna dall’Aldilà per vendicare la propria morte, insieme allo stupro e all’omicidio della sua fidanzata Shelly Webster. Durante le riprese, l’attore protagonista Brandon Lee, all’età di soli 28 anni, morì a seguito di un ferimento accidentale causato da un colpo di pistola e, a otto giorni dalla fine della produzione, le scene rimaste incomplete che dovevano essere interpretate da lui, vennero gestite riscrivendo la sceneggiatura, ma anche grazie ad una controfigura e a ricostruzioni digitali. Ciò che risalta immediatamente all’occhio all’interno del film del regista australiano è legato a come, sin dalle primissime sequenze, ci ritroviamo immersi in un contesto urbano dominato dalla pioggia e dall’oscurità. Tale leitmotiv ambientale, accompagnerà lo spettatore fino al termine della pellicola in maniera quasi ossessiva, come se ci trovassimo in una sorta di bolla dove sembra non esistere alcuna nozione legata al tempo. Riflettendo su questa scelta stilistica, non è affatto fuorviante richiamare alla mente un’operazione artistica compiuta dai pittori impressionisti francesi circa un secolo prima che ‘’Il corvo’’ vedesse la luce. Partendo da quanto appena affermato, l’impressione, durante la maggior parte del film è quella di trovarci in una sorta di spazio atemporale. L’operazione compiuta da Proyas a livello cinematografico richiama la stessa operazione di stampo impressionista definita col termine di ‘’Impressione Retinica’’, così chiamata perché imita la prima impressione che la retina del nostro occhio assume di fronte ad uno scenario della realtà, nella quale viene bloccato un singolo istante temporale che viene così ‘’calcificato’’ in eterno. Durante la visione, infatti, non abbiamo mai una quadra completa dell’ambiente circostante dove si svolge l’azione, ma singoli frammenti che ci permettono di capire l’essenziale di ciò che sta accadendo, abbandonando ogni contorno nell’oscurità e nella pioggia incessante. Il colore ed i contrasti chiaroscurali costituiscono una chiave fondamentale all’interno della lettura visiva del film. Proprio su questo piano, è importante ricordare come la pittura veneziana cinquecentesca fu capostipite di tale soluzione tecnico-stilistica. Pittori come Giorgione, Tiziano Vecellio e Sebastiano Del Piombo inaugurarono una nuova stagione all’interno del periodo moderno dell’arte tanto da dare origine ad una tendenza che avrebbe fatto valere la sua eredità nel corso dei secoli. Tale tecnica nell’utilizzo del colore viene ripresa, e potremmo altresì dire reinterpretata, da Pierre Bonnard nella sua opera ‘’Rue Tholozé’’ (1897). La rappresentazione della via situata in Montmartre dall’attico del pittore in una sera di pioggia, presenta un interessante parallelismo con diverse inquadrature panoramiche del paesaggio urbano all’interno del film. L’ambiente di matrice impressionista che ci viene presentato durante la funesta ‘’Notte del Diavolo’’ viene concepito a partire dalla dominante psicologica dell’azione ed è come se diventasse la rappresentazione visiva e materiale di un vero e proprio stato d’animo. Tale utilizzo impressionista dell’ambiente può essere ritrovato in gran parte della storia del cinema, in autori e, anche, stili molto diversi fra loro: basti pensare al Grand Hotel di Amarcord (Federico Fellini, 1973), alle piogge torrenziali dei film di Kurosawa del dopoguerra, o a quella che accompagna lo straziante addio fra i protagonisti di Cast Away (Robert Zemeckis, 2000).

Se all’interno de ‘’Il Corvo’’ le componenti dominanti a livello visivo sono date dall’oscurità e dai contrasti chiaroscurali, diverso è il discorso per ‘’Annientamento’’ di Alex Garland (2018), dove ci troviamo dinanzi a forti richiami di matrice espressionista. La pellicola è l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Jeff VanderMeer e racconta la storia di quattro scienziate (un’antropologa, una topografa, una biologa e una psicologa) che vengono inviate dall’agenzia governativa Southern Reach all’interno della disabitata Area X. Sono la dodicesima spedizione in quel territorio: i componenti delle undici spedizioni precedenti o sono spariti durante la missione, o sono morti di cancro poco dopo essere tornati. Tra questi ultimi anche il marito della biologa, del tutto incapace – come gli altri compagni tornati a casa – di spiegare cosa si nasconda nell’Area X e come siano riusciti a far ritorno da essa. In questo frangente Alex Garland presenta l’Area X utilizzando un tipo di illuminazione diffusa che dà vita ad una rappresentazione omogenea dello spazio, delineando chiaramente una cornice narrativa dal forte carattere idilliaco. Interessante è notare come il bagliore all’interno della zona disabitata reinventi forme e colori esattamente come un prisma che filtra i colori dati dai raggi di luce. Il risultato a livello visivo richiama l’operazione compiuta dai pittori espressionisti in una rivoluzione del linguaggio che contrapponeva all’oggettività dell’impressionismo la sua soggettività infondata. Il moto espressionista rappresenta la realtà dall’interno verso l’esterno. Ciò che proviene da dentro (quindi dall’anima e dal cuore) viene proiettato nella realtà, senza alcun tipo di mediazione e portando ad uno stravolgimento completo nella rappresentazione del mondo e delle sue forme. La pittura espressionista porta così ad una sorta di ribellione dello spirito contro la materia ed introducendo il concetto di ‘’occhio dell’anima’’ dove l’occhio interno spirituale si sostituisce a quello esterno analitico. Lo stravolgimento di forme e colori del bagliore in ‘’Annientamento’’ ci trasporta così in una realtà eterea ed onirica che sembra essere concepita e tracciata secondo l’occhio dell’anima espressionista. Proprio questo effetto nella rappresentazione, abbinato ad un utilizzo ultra-vivido del colore, dà vita ad un risultato che, così come all’interno de ‘’Il Corvo’’, ci svincola dai pilastri temporali della realtà. Come già affermato, anche il colore costituisce una componente fondamentale e trainate all’interno del film. L’intera opera è un mosaico di colori che si dispongono in sintonia quasi poetica. Il pittore olandese Jacobus Van Looy ci offre un effetto visivo parallelo nella sua opera ‘’Lupines’’ (1900). In questo caso, ci troviamo di fronte ad un lavoro che riprende l’esempio di maestri come Van Gogh per quanto riguarda la componente paesaggistica, anche se, nel caso di Van Looy, vi è maggiore attenzione nella rappresentazione realistica degli elementi. Tuttavia, risulta evidente, ad una prima osservazione, come la componente che risalti in maggior misura sia, anche in questo caso, il colore. Ciò è principalmente dovuto al forte contrasto cromatico tra i fiori blu elettrico in primo piano e quelli dalle tonalità più scure in secondo, con l’atmosfera crepuscolare del dipinto che tende ad accentuare in maniera ancora più significativa tale contrasto.

La luce iridescente ed il colore vivido costituiscono due chiavi fondamentali nell’interpretazione visiva all’interno del film di Garland così come, anche se in forma più realistica, in ‘’Melancholia’’ di Lars Von Trier (2011), dove il principale parallelismo può essere costruito prendendo sotto esame lo stile dei pittori preraffaeliti. Secondo capitolo della cosiddetta ‘’Trilogia della Depressione’’ dell’‘’Enfant Terrible’’ del cinema danese Lars Von Trier (iniziata con ‘’Antichrist’’, nel 2009, e conclusa con ‘’Nymphomaniac’’, nel 2013), Melancholia è un film diviso in due parti e ruota attorno al rapporto conflittuale, ma nello stesso momento estremamente intimo, tra due sorelle molto diverse tra loro, mentre la Terra è minacciata da una catastrofe per l’imminente collisione con il pianeta Melancholia. Lars Von Trier offre in questo lavoro diversi momenti dove i differenti punti di ripresa, in relazione ad angolazioni e dintorni rappresentati, sono l’esplicito segno della volontà di creare un effetto visivo che miri a conferire una particolare enfasi alla dimensione introspettiva del soggetto rappresentato. L’ambiente nel quale si districa la vicenda narrativa all’interno del film, è piuttosto circoscritto. Non a caso, l’azione non si sposterà mai dalla lussuosa villa sul mare o dagli acri dell’immenso parco circostante. Proprio per questa ragione, tale ambiente non si configura come un semplice contenitore ma, anzi, conferisce un contributo essenziale alla definizione dei personaggi che lo abitano. Ritornando al tema delle angolazioni, Lars Von Trier utilizza delle soluzioni accompagnate da piani sequenza dalla durata sufficiente a creare un’atmosfera romantica e sublime, compiendo una sorta di operazione pittorica sostituendo pennelli e tela con la macchina da presa. Inoltre, non bisogna dimenticare, come affermato in precedenza, del modo in cui l’ambiente circostante contribuisca in maniera netta alla creazione di tale aura, specialmente grazie ad un utilizzo della luce che mette in risalto vividamente i colori della natura sia in fase diurna che in fase notturna, tramite l’effetto della luce lunare. All’interno del film vi è un evidente parallelismo con l’opera dei pittori Preraffaeliti: la locandina, così come una delle scene introduttive, mostrano l’attrice Kirsten Dunst lasciarsi trasportare dal fiume proprio come Ofelia (aristocratica danese, personaggio dell’Amleto di Shakespeare) nel famoso dipinto omonimo di John Everett Millais (1852). Lars Von Trier riprende diversi elementi già presenti nell’opera del pittore inglese. Innanzitutto, vi è, in entrambi casi, un’importanza primaria dell’ambiente in cui i soggetti sono inseriti. La flora è infatti carica di un forte valore simbolico. Le specie floreali sono rappresentate in maniera dettagliata come citate all’interno della tragedia e sono atte a sottolineare l’infelicità e la malinconia nella vita della fanciulla. La rappresentazione nella pittura preraffaelita utilizza un panneggio delicato ed elegante, conferendo altresì una componente di notevole luminosità ed elaborazione nelle figure rappresentate, ispirandosi all’arte neoromantica. La forte allegoria e il simbolismo dei preraffaeliti sono elementi che ritornano all’interno di ‘’Melancholia’’ grazie ai quali, Lars Von Trier ci rappresenta il profondo stato di depressione nel quale verte la protagonista Justine. Un ulteriore tratto in comune con la pittura preraffaelita è dato dalla centralità della figura femminile, rappresentata secondo una sorta di criterio di bellezza ideale e posta in sontuosa armonia con l’ambiente e la natura circostante.

Se le analogie prese finora in considerazione si sono focalizzate principalmente su contrasti chiaroscurali e resa vivida del colore, è il momento di abbandonare tutto ciò per immergerci nel profondo gelo invernale ripreso come un vero e proprio stato d’animo all’interno della cinematografia di Andrej Tarkovskij, partendo da uno dei suoi capolavori: ‘’Stalker’’ (1979). Pur essendo un film la cui trama possa essere ascrivibile al genere fantascientifico, la struttura narrativa in ‘’Stalker’’, così come le tematiche affrontate, sono riconducibili al cinema d’autore. Il lento e profondo viaggio catartico all’interno della cosiddetta ‘’Zona’’, dove le tre diverse concezioni della vita dei protagonisti si scontrano e si mettono in discussione, trascende i dettami del film di genere. La pellicola fu girata tra Russia, Estonia e Tagikistan e fu presentata al festival cinematografico internazionale di Mosca nell’agosto del 1979 ed al festival di Cannes, in Francia, nel 1980, mentre uscì nelle sale italiane nel 1981. Approcciandoci ad un regista come Tarkovskij, ci troviamo dinanzi ad uno stile cinematografico di matrice poetica in relazione al senso definitivo di Poiesis, ovvero, creazione, produzione di conoscenza, l’azione che porta dal non-essere all’essere. Si tratta di un cinema a forti tinte realiste nella rappresentazione paesaggistica che tende altresì verso una marcata componente legata alla verità su sé stessi, della vita di un singolo, di un volto, di un gesto ecc. che tanto più è particolare, soggettiva, unica ed irripetibile, tanto più è universale, vicina all’assoluto e all’infinito. All’interno di Stalker, tratto dal romanzo di fantascienza ‘’Picnic sul ciglio della strada’’ dei fratelli Strugackij, ci troviamo di fronte ad una resa dello spazio dove si svolge la vicenda basata sulla componente soggettiva e quindi introspettiva dell’area catturata dalla macchina da presa. Elementi come ruscelli, radure, rottami o fabbriche abbandonate vengono rappresentati come se fossero visti per la prima volta assumendo così una forte carica di mistero che non si presenta così come semplice sfondo dove si svolge l’azione ma dialoga e tende ad amplificare lo stato d’animo dei personaggi. Tali componenti sono essenziali nel conferire alla Zona una forte carica di valore simbolico. Come affermato dal regista stesso, la Zona non rappresenterebbe nient’altro che una metafora della vita umana, nella quale, l’uomo o si spezza o resiste. Si potrebbe azzardare un paragone tra la Zona di Tarkovskij e l’Area X rappresentata in ‘’Annientamento’’ di Alex Garland, di cui si è precedentemente parlato, in quanto a metafore sulla condizione di esistenza dell’essere umano che diventano un tutt’uno con la componente spirituale e psicologica dei protagonisti. Ma se l’Area X di ‘’Annientamento’’ presentava tale aura grazie alla componente visiva data dal mosaico e dalle composizioni di colori vivide ed inusuali, la Zona fa della componente sonora il suo cavallo di battaglia. I silenzi, i rumori creati dalla natura e i monologhi di matrice filosofico esistenziale, accompagnati da minuziose inquadrature che si focalizzano sui contrasti chiaroscurali nei dettagli di ambientazione, conferiscono alla Zona una componente mistica che sembra creare l’impressione di ritrovarsi in una sorta di limbo, svincolato dalla realtà della vita e della morte. Da non dimenticare, il contributo dato dal compositore Eduard Artem’ev nella composizione della colonna sonora, anch’essa parte integrante della narrazione grazie alla sua atmosfera mistica ed ermetica. Uno degli aspetti maggiormente degni di nota durante lo scorrere delle immagini viene dato soprattutto dalla rigida atmosfera invernale tipica degli inverni russi. Come affermato da Tarkovskij stesso, la componente principale all’interno del suo cinema è quella temporale. Ne sono una prova i lunghi piani sequenza incentrati sui dettagli paesaggistici, durante i monologhi dei personaggi o la recitazione di versi appartenenti al padre poeta del regista, Arsenij. Proprio la sensazione di freddo e rigidità dell’inverno, tende a come a ‘’cristallizzare’’ nel tempo sguardi e panorami, conferendo ad essi un valore simbolico completamente nuovo. L’opera ‘’Gezicht op het Oosterpark in Amsterdam in de sneeuw’’ (1892) del pittore e fotografo olandese George Hendrik Breitner presenta delle analogie a tal proposito. L’inverno olandese del 1892 fu particolarmente rigido. Dallo studio dell’amico Witsen, Breitner poteva vedere il parco innevato Oosterpark (all’epoca in costruzione), localizzato in un nuovo distretto di Amsterdam. Le case alte, tipiche del tardo ‘1800, possono essere scorte all’orizzonte. Si dice che Breitner, sempre a corto di denaro, scambiò questo dipinto con una bicicletta piuttosto che venderlo attraverso il distributore col quale era sotto contratto all’epoca. Le principali similitudini tra film e dipinto sono date dalla resa, all’interno dell’opera di Breitner, della natura spoglia, del cielo grigio, del tipico clima rigido invernale e dal color mattone delle costruzioni che si possono osservare in lontananza. Il rimando, in questo frangente, è legato ad alcune sequenze che si possono osservare specialmente nella parte iniziale e finale del film al di fuori della Zona. Le fabbriche abbandonate immerse nel gelo dell’inverno russo, possono ricordare la rappresentazione urbana del dipinto, anche se, in quel caso, Breitner aveva rappresentato delle abitazioni. Anche la parte finale trova un forte riscontro col paesaggio spoglio dell’opera pittorica. Proprio questo senso di abbandono e desolazione conferisce una fortissima carica introspettiva in una delle ultime sequenze del film, nella quale ci troviamo di fronte ad un primo piano della figlia dello Stalker intenta a recitare la poesia ‘’Il desiderio della fiamma opaca’’ anch’essa scritta dal padre del regista. 

L’elemento dell’inverno che ‘’cristallizza’’ il tempo è riscontrabile in egual misura all’interno de ‘’Lo Specchio’’ (1975). Il film racconta i pensieri, le emozioni e i ricordi di Alekseij e del mondo che lo circonda da bambino, da adolescente e da adulto. Proprio l’Alekseij adulto si intravede solo a tratti, ma è presente come voce fuori campo in alcune scene che introducono dialoghi sostanziali. La struttura del film è discontinua e non cronologica, senza una trama convenzionale, e combina incidenti, sogni, ricordi e filmati di cinegiornali. Il film attraversa diversi archi temporali: l’anteguerra, la guerra e il dopoguerra ed è in gran parte ispirato alla vita del regista. Si tratta di un film dalle delineazioni, a tratti, assai criptiche, risultando, tuttavia, uno dei più profondi e affascinanti della storia del cinema. Così come in Stalker, gli elementi naturali come l’acqua svolgono un ruolo cruciale all’interno della narrazione: infatti, come nel film successivo, essa costituisce, nella sua componente di resa visiva e sonora, un elemento trainante all’interno del flusso onirico ed etereo dell’opera. Altro elemento di fondamentale importanza è l’utilizzo del fuoco: esso diverrà una componente simbolica assoluta nell’ultimo film di Tarkovskij ‘’Sacrificio’’ (1986). All’interno de ‘’Lo Specchio’’ esso si configura come una sorta di elemento mistico ed ermetico, sempre grazie alla surreale atmosfera creata grazie al gioco tra silenzi profondi e rumori della natura, per non dimenticare i versi onnipresenti del padre poeta Arsenij, recitati da una voce fuori campo durante lunghi piani sequenza incentrati su alberi e rovine. All’interno della rappresentazione del paesaggio nel film, vi è una particolare attenzione nella resa degli spazi, talvolta sconfinati. L’ambiente costituisce, anche in questo caso, un vero e proprio prolungamento visivo dello stato d’animo del personaggio, richiamando una sorta di moto spirituale di matrice romantica legato al titanismo e alla tensione provata dall’essere umano di fronte all’immensità della natura. Ogni dettaglio nelle espressioni e nei gesti, in relazione con l’ambiente immerso nel gelo del profondo inverno russo e nella natura rigogliosa, è reso in maniera tanto semplice quanto unica ed irripetibile e tende a spingere verso un’atmosfera di stampo metafisico. Tale effetto stilistico può essere altresì riscontrato nel secondo film di Tarkovskij ‘’Andrej Rublëv’’ (1966). Possiamo notare come in alcune delle scene dell’infanzia del protagonista, durante la stagione fredda, vi possano essere dei richiami alla rappresentazione dell’inverno nell’opera ‘’Cacciatori Nella Neve’’ di Pieter Bruegel Il Vecchio. Considerato come uno dei dipinti che meglio rappresenta a livello visivo l’essenza dell’inverno, ci viene presentata una scena che si svolge durante una giornata dal clima pungente in cui la neve ha coperto tutto il paesaggio. Possiamo notare un gruppo di cacciatori, in primo piano a sinistra, che si appresta a rientrare al villaggio dopo una battuta di caccia con dei cani al loro seguito e qualche uccello come preda. Un primo parallelismo possibile è costituito dall’attenzione nella rappresentazione delle attività umane in questo periodo dell’anno: nel dipinto possiamo vedere dei contadini impegnati nella macellazione di un maiale davanti ad una locanda mentre nel film possiamo vedere, in una delle sequenze che mostrano l’infanzia di Alekseij, i ragazzi impegnati nel tiro al bersaglio. Ma il tratto comune principale è riscontrabile nella resa dello spazio: l’osservatore è invitato a spaziare visualmente in direzione delle lontananze ghiacciate ed il cielo invernale, immergendosi in una silenziosa immobilità. I colori dominanti sono freddi, perfetti nella resa del gelo dell’atmosfera d’inverno e in entrambi i casi abbiamo una minuziosa attenzione nella resa dei dettagli quali i cacciatori ed il cotto delle abitazioni (nel quadro) e gli utensili per la caccia come i fucili (nel film). Lo Specchio rappresenta probabilmente uno dei punti d’apice nella filmografia di Tarkovskij. Non è avventato affermare come esso possa essere visto come una sorta di ricerca della verità e del ruolo dell’uomo e dell’arte all’interno del flusso della storia. Il regista confonde volutamente gli interpreti di questa storia ove lui si rispecchia, perché ciò che vuole trasmettere, in fondo, è il fatto di come le vite si ripetano le une nelle altre e tutto ciò che resta, alla fine, è la poesia, la musica della propria esistenza.


Niccolò Marnati
Maximal Interjector
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