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Jean-Paul Belmondo, il guascone dal cuore d'oro del cinema francese
Maestro di charme, versatilità e brillantezza di spirito, Jean-Paul Belmondo (9 aprile 1933 – 6 settembre 2021) è stato uno dei volti più amati del cinema francese di ogni tempo, un riferimento assoluto che ha cointribuito a innovare la Settima arte grazie a interpretazioni modernissime e fuori da ogni convenzione.

«Mi piaceva quest’idea di totale libertà, l’improvvisazione, il fatto che non ci fosse una vera sceneggiatura con le battute precise da imparare a memoria e che io potessi lasciarmi andare all’istinto, come veniva. Il giorno prima delle riprese ho chiesto a Godard se almeno avesse un’idea di quello che voleva fare. Mi ha dato una risposta che mi ha riempito di entusiasmo: “No”» (a proposito di Fino all'ultimo respiro)


Andiamo a ripercorrere i film che l'hanno reso un'icona immortale, con una classifica che è parte della storia del cinema.

5) La viaccia (1961)



Fine Ottocento. Stefano Casamonti (Pietro Germi) manda suo figlio Amerigo (Jean-Paul Belmondo) a studiare a Firenze da suo fratello Ferdinando (Paul Frankeur). Quest'ultimo è vittima di una salute malferma, e Stefano spera così di ingraziarselo per questioni ereditarie. Ma, una volta arrivato in città, Amerigo s'innamora di una prostituta, Bianca (Claudia Cardinale), mandando all'aria i piani paterni.

Adattamento del romanzo omonimo di Mario Pratesi, sceneggiato per il grande schermo da Pratolini, Festa Campanile e Franciosa. Nonostante l'importante nome letterario di riferimento, Mauro Bolognini ne fa un'opera personale e simile, per tematiche e poetica, ad alcuni suoi lavori precedenti come Giovani mariti (1958), La notte brava (1959) o La giornata balorda (1960). Attraverso un minuzioso studio sui personaggi, il regista approfondisce le psicologie dei diversi protagonisti, a partire da Stefano, un ragazzo che interrompe l'eterna tradizione contadina dei Casamonti, creando scompiglio in famiglia. In un mondo, quello dei padri, dove contano soltanto il possesso e la proprietà, il giovane rompe le regole e s'interessa unicamente ai sentimenti, innamorandosi di una prostituta e, per giunta, di città. Con straordinario rigore formale, Bolognini firma così uno dei suoi film più profondi, intensi, raffinati. Meraviglioso il lavoro del direttore della fotografia Leonida Barboni, magnifici i costumi di Piero Tosi e impeccabili le scenografie di Flavio Mogherini. Trovare dei difetti è quasi impossibile, anche perché gli attori sono tutti bravissimi.

4) Lo spione (1962)



Dopo aver ucciso l'ex complice Gilbert Varnove (René Lefèvre), Maurice Faugel (Serge Reggiani) organizza l'ultimo colpo della sua carriera in una ricca villa. Ma le cose non vanno come previsto e, messo alla strette, si trova costretto a uccidere un ispettore di polizia. Maurice è convinto che qualcuno l'abbia tradito e i sospetti principali ricadono sull'amico Silien (Jean-Paul Belmondo). Ma la vicenda è più complicata di quanto non appaia.

Un noir che guarda al cinema americano ma in cui Jean-Pierre Melville riesce a mantenere un'impronta personale, unendo allo scavo psicologico e alla dimensione più intimista una buona tensione spettacolare, solo in apparenza convenzionale. L'azione è sapientemente centellinata e i colpi di scena non mancano, ma il regista è principalmente interessato a raccontare, più che la risoluzione dell'intreccio giallo, l'amicizia virile come unica forza capace di sostenere dei perdenti destinati alla sconfitta che vedono vanificati tutti i loro sforzi per cercare di cogliere in contropiede un destino beffardo e si trovano a dover agire in un mondo che ha rigettato ogni sentimentalismo, ammantato da un costante clima di sospetto e inquietudine. Melville sa restituire con maestria un'atmosfera ambigua e perturbante in cui il tradimento, il senso di giustizia personale, la sopraffazione e il desiderio di vendetta inficiano qualsiasi rapporto umano e portano a un'aridità d'animo tanto soffusa quanto potente e lacerante. Il cineasta francese sa sfruttare al meglio i dettagli, l'uso degli spazi, il valore simbolico degli oggetti (il cappello di Silien, la sovrabbondanza di specchi, un semplice impermeabile), l'attenzione all'illuminazione e alle ombre dando così forma visiva alla malinconia e consapevole precarietà dei suoi personaggi, condannati in partenza alla morte o, peggio, alla solitudine. Gran prova di Belmondo, ma Reggiani non è da meno.

3) La mia droga si chiama Julie (1969)



Louis (Jean-Paul Belmondo) attende lo sbarco della sua promessa sposa Julie (Catherine Deneuve), che non ha mai visto poiché i due si sono conosciuti tramite un'inserzione matrimoniale. La Julie Roussel che sbarca, però, non assomiglia affatto a quella vista in fotografia: ciononostante, l'uomo ne rimane talmente abbagliato che l'indomani decide lo stesso, come da accordi, di sposarla. Ma ben presto la verità verrà a galla.

Girato in ordine cronologico, La mia droga si chiama Julie è un film a metà strada tra il thriller psicologico e il dramma sentimentale, capace di avvincere lo spettatore fin dalle sequenze iniziali che restituiscono con grande realismo quel conturbante alone di mistero che pervade la pellicola. In quest'opera, François Truffaut esplicita il tema della conoscenza, rappresentando la tensione erotica che si crea tra i due protagonisti con ardente palpito ma senza distruttività. La prima immagine del film, dopo i titoli di testa, è una citazione di La Marsigliese (1938) di Jean Renoir, che ha lo scopo di richiamare l'attenzione sul valore artistico della scrittura, anche in questo caso espressa con notevole profondità di sguardo. Notevole, anche se non eccelso, e curato in ogni dettaglio. Curiosità: La Siréne du Mississipi, il romanzo a cui Truffaut si è ispirato, compare in una delle prime sequenze di Baci rubati (1968): è il libro che Antoine Doinel è intento a leggere.

2) Il bandito delle 11 (1965)



Diversi anni dopo essersi lasciati, Ferdinand (Jean-Paul Belmondo) e Marianne (Anna Karina) si ritrovano e fuggono insieme: lui è stufo della sua vita borghese con moglie a carico; lei stanca di passare le sue giornate con una banda di criminali. La fiamma si riaccende ma non tutto andrà come previsto.

Concitato, sovversivo, indimenticabile. Il bandito delle 11 è una delle opere più importanti firmate Jean-Luc Godard: un film in cui ritorna, innanzitutto, il tema della fuga, che il regista aveva già trattato nel suo celebre esordio, Fino all'ultimo respiro (1960). È un'opera romantica, ma mai smielata che, in mezzo a inserti surreali e decise provocazioni audiovisive, mostra le difficoltà del vivere borghese e l'impossibilità di comunicazione all'interno della coppia moderna, argomento già trattato nel precedente Il disprezzo (1963). Lo si può infatti definire una summa di tutto ciò che Godard ha fatto fino a quel momento, ma mai come in questo caso il regista ha dato tanta importanza al colore e a una struttura frammentata e lucidamente sperimentale. Si cita la letteratura, la poesia, la pittura, il cinema (notevole cameo di Samuel Fuller), eppure di fronte a Il bandito delle 11 si ha la sensazione di un prodotto unico e forte di un'identità propria. In perenne crescita con il passare dei minuti, raggiunge l'apice nel memorabile finale in cui Jean-Paul Belmondo, dopo essersi dipinto il volto di blu, si lega intorno al capo una fila di candelotti di dinamite rossi e gialli. È uno dei suicidi più angoscianti dell'intera storia del cinema, perfetta conclusione esplosiva del primo periodo godardiano. Il titolo originale, Pierrot le fou, fa riferimento al nome con cui Marianne chiama il personaggio maschile.

1) Fino all'ultimo respiro (1960)



Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo), ladro di automobili, uccide un poliziotto e fugge fino a Parigi. Qui si mette alla ricerca di Patricia Franchini (Jean Seberg), una studentessa americana che aveva conosciuto qualche tempo prima e di cui si era innamorato. La ritrova, ma lei presto si stufa di lui e finirà per denunciarlo alla polizia.

Il manifesto della Nouvelle Vague, il capolavoro di Jean-Luc Godard, il (vero) capostipite del cinema moderno: è stato chiamato in tanti modi Fino all'ultimo respiro nel corso della storia del cinema, ma qualsiasi definizione, forse, non basta a renderne la portata epocale. Indubbiamente tra gli esordi più impressionanti di sempre, l'opera prima di Godard si avvale della collaborazione di François Truffaut (autore del soggetto), di una coppia di attori in stato di grazia (Belmondo-Seberg) e di un montaggio (Cécile Decugis) semplicemente memorabile. Mettendo in pratica le idee innovative che i “giovani turchi” (oltre a Godard e Truffaut, anche Claude Chabrol, Eric Rohmer e Jacques Rivette) promuovevano qualche anno prima sulle colonne dei Cahiers du Cinéma, il giovane regista costruisce un grande omaggio al cinema del passato (i riferimenti a Humphrey Bogart e al poliziesco americano) con uno sguardo, però, proiettato verso il futuro. Godard rivoluziona il linguaggio della Settima arte oltrepassando i convenzionali tabù del cinema classico hollywoodiano: i personaggi guardano direttamente in macchina arrivando persino a rivolgersi verbalmente allo spettatore («Se non vi piace il mare… se non vi piace la montagna… se non vi piace la città… andate a quel paese!»). I piani-sequenza si alternano ai jump-cut (dei veri e propri “salti” della pellicola), la pista visiva è frammentata mentre quella sonora prosegue tranquillamente, gli scavalcamenti di campo sono continui: Fino all'ultimo respiro è un manifesto, anche politico, che arriva a frantumare le regole fondamentali del montaggio contiguo e della narrazione cinematografica. È la miccia che ha portato all'esplosione di un “cinema nuovo”, che attraverserà tutti gli anni Sessanta in diverse nazioni di tutto il mondo. Girato tra le strade di Parigi, in pochi giorni e con un budget ridotto. Nel cast, è presente un autore che Godard amava: Jean-Pierre Melville, che veste i panni di Parvulesco. Il film ha vinto l'Orso d'argento per la miglior regia al Festival di Berlino.
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