«Sono 126 miglia per Chicago. Abbiamo il serbatoio pieno, mezzo pacchetto di sigarette, è buio e portiamo tutti e due gli occhiali da sole.»
Era il 1973 quando un autore misconosciuto, reduce da anni di gavetta e frequentazione dei set cinematografici, fece il suo debutto sul grande schermo con un piccolo film anomalo e parodico: Slok. L'autore era John Landis. Un exploit a tutto tondo: Landis è regista, sceneggiatore e interprete e mostra in embrione quelle che saranno le caratteristiche fondanti della sua poetica futura: una comicità demenziale, satirica e surreale inserita in una sorta di bizzarro esperimento goliardico all'insegna del citazionismo cinematografico spinto. Ma ciò che importa è l'anarchia di fondo, tratto distintivo anche e soprattutto per le opere a venire: uno scimmione preistorico, presunto anello di congiunzione fra uomo e primate, semina panico e morte in una cittadina della provincia americana. La cellula impazzita che crea il caos.
Un piccolo progetto indicativo, quindi, ma tutto sommato irrilevante (Landis, anni dopo, lo avrebbe definito addirittura terribile): è il 1978 a rappresentare la svolta per il regista che, creato un sodalizio (sfortunatamente troppo breve) destinato a rimanere nella storia con John Belushi, dirige Animal House. «Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare»: viene così inaugurato il filone del college movie, destinato ai fasti negli anni Ottanta, e ancora una volta emerge la rappresentazione dell'anarchia mirata a sconvolgere l'ordine precostituito. Gli sgangherati Delta Tau-Chi contro i boriosi Omega Theta-Phi: la sequenza finale, da antologia, è un urlo di libertà e goliardia veicolate da una delirante rivolta.
L'aura cult inizia ad avvolgere Landis, che per una reale consacrazione deve però aspettare il 1980, anno di The Blues Brothers. Nati in seno al programma televisivo Saturday Night Live, i fratelli Blues (Belushi e Dan Aykroyd) sono due emarginati rigettati dalla società che non hanno nulla da perdere: tema caro a Landis, il quale trasforma la coppia nel simbolo di una ribellione condotta a suon di musica e incidenti stradali. Emblematica è la sequenza conclusiva, con Joliet Jake ed Elwood imprigionati e impegnati in un'esibizione canora che scalda gli animi dei detenuti: la rivolta carceraria come inno gioioso al ribaltamento dei valori sociali canonicamente intesi.
Nel 1983, dopo aver realizzato il videoclip Thriller con Michael Jackson, Landis gira Una poltrona per due, commedia oliata alla perfezione nei suoi meccanismi comici e assunta negli anni a cult natalizio per eccellenza. Apparentemente lontana dai temi feticcio delle opere precedenti, il film si rivela in realtà una metafora da manuale sul riscatto dei losers tradizionalmente scansati dalla società-bene; e come il caos giunge improvviso nella vita perfetta di Louis Winthorpe (Aykroyd), broker rovinato da una "scommessa sociale" fatta dai propri capi e sostituito nelle sue mansioni dal vagabondo Billy Ray Valentine (Eddie Murphy), così il caos travolge gli avidi responsabili dello scambio, un caos consapevole e guidato dall'alleanza tra diverse classi sociali.
È il 1985, anno di Tutto in una notte, probabilmente tra i film più sottovalutati di Landis: un viaggio rocambolesco intrapreso dal mite ingegnere Ed Okin (Jeff Goldblum) che, tradito dalla moglie e provato da un lavoro alienante, vede la propria placida esistenza stravolta dall'incontro con Diana (Michelle Pfeiffer), contrabbandiera di diamanti inseguita da quattro killer iraniani. Ancora una volta l'anarchia pronta a sconvolgere l'ordine precostituito, lo scardinamento delle regole come risveglio dal torpore di una vita dormiente; il tutto in una cornice da action-movie tout court, naturalmente intriso di grottesco e senso dell'umorismo.
Cinque titoli legati da un fil rouge irriverente e catartico, seguiti da successi più o meno meritati (Il principe cerca moglie), progetti su commissione (Oscar – Un fidanzato per due figlie) e tonfi dolorosi (Blues Brothers – Il mito continua).
Hit it.
Sara Barbieri