Jules e Jim – Il tourbillon dei sentimenti come atto di libertà
20/01/2022
«M'hai detto: ti amo.
Ti dissi: aspetta.
Stavo per dirti: eccomi.
Tu m'hai detto: vattene.»
Quando si parla di amore e dell'infinito corollario di emozioni che gravitano attorno ad esso, viene naturale pensare al cinema francese. E quando si parla di cinema francese, viene naturale pensare a François Truffaut, regista, sceneggiatore, attore, produttore e critico cinematografico che definire imprescindibile, nella storia della Settima arte, suona quasi riduttivo. Tra i tanti meriti di Truffaut, c'è quello di essere sempre riuscito a rinnovare, nella forma e nel contenuto, una poetica profondamente coerente con se stessa, che in mano ad altri, con buona probabilità, si sarebbe esaurita nel giro di una manciata di pellicole.
In un periodo, il passaggio tra gli anni '50 e gli anni '60, in cui in Francia avveniva la più radicale frattura mai avvenuta all'interno della storia del cinema (escludendo il passaggio dal muto al sonoro) grazie alle folgoranti opere d'esordio di Jean-Luc Godard (Fino all'ultimo respiro) e dello stesso Truffaut (I quattrocento colpi), il potere "eversivo" della macchina da presa aveva raggiunto (e scandalizzato) i salotti buoni d'Europa e d'oltreoceano, segnando quella rivoluzione 24 fotogrammi al secondo che ha dato il via al cinema moderno.

Ma, per quanto si possa presupporre che il contesto in cui nasce un'opera d'arte sia pronto per ogni forma di annullamento delle convenzioni precostituite in funzione di un moto di cambiamento socio-culturale strutturale, nella realtà dei fatti non è così. Se ci si ferma per un attimo a riflettere, balza subito alla mente come l'amore, non necessariamente legato al sesso, sia da sempre considerato un argomento taboo, barricato dietro a forme di pensiero desuete, per non dire arcaiche (ancora oggi, nel 2022!).
E Jules e Jim è uno degli esempi più limpidi e cristallini di abbattimento di ogni forma di pregiudizio sulle dinamiche che governano il sentimento amoroso. Uno scardinamento del rapporto di coppia tradizionale che ha segnato due epoche distinte: da una parte c'è l'inizio del '900, epoca in cui è ambientato il romanzo autobiografico (pubblicato nel 1953) dello scrittore francese Henri-Pierre Roché, dall'altra l'inizio degli anni '60, momento in cui la materia letteraria prende forma sul grande schermo grazie al genio di Truffaut. Per quanto sia una scossa tellurica la cui potenza si avverte ancora oggi, la "rivoluzione" operata dal regista parigino è quanto di più lontano ci possa essere da un atto di violenza.
Sulla base di una visione del mondo ammantata di struggente umanità, Truffaut mette in morbide immagini, in bianco e nero, il ménage à trois più famoso della storia del cinema. Un inno alla vita e alla morte, frutto dell'amore incondizionato di Truffaut per il cinema. Due giovani di nazionalità diverse, il francese Jim (Henri Serre) e l'austriaco Jules (Oskar Werner), stringono una profonda amicizia con la giovane e attraente Catherine (Jeanne Moreau): un incontro destinato a concludersi tragicamente, dopo un ventennio di memorabili emozioni condivise.
Una storyline semplice in cui i personaggi danno vita a un poema bucolico che accarezza la tragedia con un naturalismo di abbagliante bellezza, mettendo in contatto le esistenze di una donna e due uomini quasi in una bolla al di là dello spazio e del tempo, nonostante l'ombra della guerra abbia un peso specifico non trascurabile. E questa atemporalità è proprio uno degli elementi che rende il film ancora così attuale. Nel vortice della vita, Catherine, Jules e Jim si conoscono e si riconoscono, e il tourbillon dei sentimenti sembra galleggiare nell'illusione che tutto possa andare per il meglio.
Tra Parigi, la Costa Azzurra e l'Alsazia, scorre una storia che intreccia amore e amicizia, senza preoccuparsi di separare i due sentimenti. Temi forti affrontati con una leggerezza pura e aerea, secondo uno stile che diventerà il tratto distintivo dell'idea di cinema di François Truffaut. La scelta del regista di non trarre un giudizio morale del comportamento dei personaggi, ritenuto oltraggioso all'epoca dell'uscita del film, scatenò le ire di molti che chiesero l'intervento della censura.
Accarezzata dalla macchina da presa, Jeanne Moreau diventa un simbolo di libertà e anticonformismo che attraversa di corsa il film, irrequieta ma consapevole di fare un salto nella storia dell'immaginario collettivo. La sua femminilità angelicata, resa eterea dagli abiti Belle Époque, si alterna alla divertita reinterpretazione del ruolo della donna, un gioioso oggetto del desiderio venato di malinconia con baffi finti e berretto da galeotto. Tutto è gioco, tutto è sofferenza.
«La vita era come una strana vacanza. Mai Jules e Jim avevano giocato una partita a domino così importante. Il tempo passava. La felicità si racconta male perché non ha parole, ma si consuma e nessuno se ne accorge».
Davide Dubinelli