Una mattina mi sono alzato…
La banda di atracadores più famosa del piccolo schermo è tornata, decisa a portare a termine (?) un’esplosiva guerra innescata nel finale della terza stagione. Prima di rivelare quali “sorprese” ci hanno riservato gli ultimi otto episodi, però, facciamo un breve recap.
Concluso con successo l’epocale colpo alla Zecca di Madrid, il Professore e i suoi compagni trovano rifugio nei più disparati paradisi terrestri, al sicuro dal CNI e dall’Interpol. O almeno così pare: intercettato nel tentativo di contattare la sua Tokyo, il giovane Rio viene arrestato e sottoposto a terribili torture. Alla banda non resta che un’unica opzione, ovvero riunirsi ed escogitare un nuovo colpo impossibile: quale scelta migliore di un atraco che chiami su di sé l’attenzione di tutti i media e servirsene per negoziare la liberazione del compagno?
Adeguandoci al ritmo narrativo delle ultime due stagioni, “arricchite” da un’infinita serie di flashback, facciamo un ulteriore passo indietro. Siamo in Italia, in un incantevole monastero fiorentino: qui, cinque anni prima del colpo alla Zecca, il compianto Berlino progetta insieme all’amico Martín, alias Palermo, un colpo altrettanto rischioso, se non inverosimile, ovvero una rapina alla Banca Centrale di Spagna.
Raccogliendo il testimone del fratello e omaggiandone la memoria, il Professore fa squadra con Palermo e mette in atto il piano: al suo fianco, i fedeli atracadores Tokyo, Helsinki, Nairobi e Denver, ai quali si aggiungono le new entry Bogotà, Marsiglia aka Jaime Lannister versione animalista, Stoccolma/Mónica Gaztambide e Lisbona/ex ispettore Raquel Murrillo, entrambe passate dall’altro lato della barricata per amore. A dare del filo da torcere alla banda c’è invece Alicia Sierra, impavida ispettrice in dolce attesa che, da torturatrice senza scrupoli, si trasforma in negoziatrice temibile e crudele.
Un carro blindato dato alle fiamme, l’apparente esecuzione di Lisbona, Nairobi tra la vita e la morte dopo aver subito i colpi dei cecchini: tra un “Aikido” e un “bum bum ciao”, la terza stagione (copia carbone fiacca e kitsch delle due precedenti) si chiude in pompa magna con lo scatenarsi di una guerra irreversibile.
Ed eccoci infine giunti a La Casa di Carta Parte 4: ci siamo sorbiti, ops, goduti gli ultimi otto episodi in un giorno e mezzo. E non tanto perché fossimo incondizionatamente rapiti dalla visione, tutt’altro: non vedevamo l’ora di liberarcene. Ora, non è assolutamente nostra intenzione fare i bastian contrari e i “criticoni” intellettuali nei confronti del fenomeno mediatico “La Casa di Carta”: abbiamo sinceramente apprezzato il ciclo della Zecca, riconoscendovi un dignitoso prodotto pop capace di mescolare adeguatamente atmosfere da heist movie e da telenovela. Ciò che teneva viva l’attenzione, infatti, era la sottile linea rossa tra possibile e impossibile, tra strategia e casualità, tra assurdo e minuziosità pragmatica. Ma a partire dalla terza stagione (e ancor di più nell’ultima appena uscita) si percepisce in maniera lampante una stanchezza narrativa che un prodotto così nuovo non dovrebbe permettersi.
Completamente schiave del fan service, le ultime gesta antieroiche della banda ci spingono a una prima, categorica conclusione: La Casa di Carta doveva chiudere i battenti post colpo alla Zecca di Madrid. Così facendo, avrebbe tutelato la propria immagine di icona pop della resistencia al capitalismo (ripagato con la sua stessa moneta, nel vero senso del termine) e si sarebbe risparmiata una deriva involontariamente tragicomica. Peccato che Netflix ci abbia messo lo zampino: il clamoroso successo della serie (originariamente distribuita sul canale spagnolo Antena 3) non è sfuggito al colosso streaming, il quale ne ha acquisito produzione e distribuzione con l'intento di dare "nuova vita" al prodotto e trasformarlo in un fenomeno mediatico mondiale. Piano andato parzialmente a buon fine, come testimoniano le foto che seguono, ma dal punto di vista strettamente stilistico-narrativo riteniamo che il "salvataggio" abbia fatto più danni che riparazioni.
La serie non è nuova a trovate kitsch, sia chiaro (come dimenticare il ritorno di Tokyo alla Zecca in sella a una moto della polizia…), ma in questa quarta stagione le risoluzioni trash e le incongruenze narrative sfiorano indiscutibilmente il limite della sopportazione.
Buchi e scivoloni di sceneggiatura a parte, la medaglia d'oro dei difetti de La Casa di Carta va alla totale mancanza di un’evoluzione dei personaggi, ridotti a macchiette sempre, insopportabilmente, identiche a se stesse.
A completare il “podio delle pecche” due soluzioni narrative a nostro parere assolutamente evitabili. L’argento va ai continui, assillanti, indiscutibilmente fini a se stessi flashback che vedono come protagonista Berlino, caduto da eroe nel finale della seconda stagione (se la serie fosse stata rinnovata all’epoca il suo destino sarebbe stato differente, ne siamo certi). Ecco, in questo momento ci stiamo immaginando i tre sceneggiatori di Boris riuniti a un tavolo, vessati da Lopez (Antonio Catania) per aver eliminato anzitempo l’unico personaggio decente della serie: “Che facciamo? Dieci flashback a puntata? F1 Berlino parla italiano, F2 Berlino balla Guanatamera, F3 Berlino canta Ti amo di Umberto Tozzi. Il pubblico femminile apprezzerà”. In parte è vero, ma c'è un limite a tutto.
Medaglia di bronzo, infine, all’uscita di scena di uno dei personaggi principali: classica carta ritenuta vincente (???) da chi manca di idee e decide di smuovere le acque aggiungendo un po’ di "sano" drama.
La quarta stagione de La Casa di Carta chiude il sipario su un finale aperto, eppure ci troviamo ancora serrati dentro la Banca Centrale. Ma il colpo non doveva durare solo pochi giorni? Tutti noi sappiamo quanto le tempistiche siano fondamentali per il Professore…Ora, va bene la sospensione temporale data dalla finzione, ma cosa dobbiamo aspettarci dalla quinta stagione? Un altro tour de force scopiazzato a suon di colpi involontariamente trash?
Non ci resta che attendere (tutt’altro che) trepidanti. Nel frattempo, però, vogliamo regalarvi la nostra personale TOP 5 dei momenti più inconsapevolmente comici de La Casa di Carta Parte 4:
5) A piedi scalzi sul divano: mai chiacchierare a piedi nudi con la fidanzata del tuo amico, quest'ultimo potrebbe fraintendere. Specialmente se si chiama Denver.
4) Qualsiasi scena con Marsiglia
3) Maserati VS 600
2) Qualsiasi scena con Arturito Román
1) L'intervento chirurgico via Skype: avete presente quando criticavamo Grey’s Anatomy perché troppo inverosimile? Ecco, perlomeno in quel caso si trattava di medical drama. Stando a La Casa di Carta, invece, basta qualche lezione con El Profesor per acquisire la laurea accelerata in medicina e chirurgia: professionisti del settore prendete nota. Che dire? Al giorno d'oggi c'è chi si laurea online e chi invece preferisce estrarre pallottole in collegamento Madrid-Pakistan: non c'è dubbio che l’intervento chirurgico via Skype rappresenti la vetta trash di questa quarta stagione. La ciliegina sulla torta? A impugnare il bisturi c’è la nostra Tokyo, fresca di una sbronza epocale. Persino ad Helsinki servirebbero 24 ore di sonno filate per smaltirla: e invece no, Tokyo sminuzza polmoni. Terapia d’urto.
Viola Franchini