Uscito negli Stati Uniti il giorno di Natale del 1963, La spada nella roccia è l’ultimo classico Disney a uscire prima della morte di Walt Disney e l’ultimo a beneficiare della supervisione in vita del genio americano. In molti in Italia, dove il film è particolarmente amato, si erano chiesti perché non fosse disponibile su Disney+ e vi è finalmente arrivato all’inizio di aprile, consentendoci di rivederlo e di tornare ad apprezzarne la grandezza espressiva e lo slancio creativo. A partire dai titoli di testa, accompagnati dalla voce narrante di Emilio Cigoli nella versione nostrana, ai quali fa seguito un gusto immediatamente lussureggiante per le scenografie, come testimoniato dall’ambiente lacustre in cui è immerso il personaggio di Merlino.
La spada nella roccia racconta del biondo orfanello Artù, detto Semola, che viene schiavizzato dal padre adottivo e dal fratellastro Caio, un bietolone che si allena per vincere il torneo cavalleresco che decreterà il nuovo reale inglese. Con l'aiuto dello svampito mago Merlino e del furbo, ma stizzoso, gufo Anacleto, Semola si troverà a raggiungere risultati impensabili per un ragazzo della sua età (il doppiaggio italiano, rispetto all’originale, ne amplifica l’infantilità, spingendo indietro dal punto di vista anagrafico il suo coming of age e lavorando nel solco dello stupore).
Ispirato al romanzo omonimo di T.H. White, pubblicato nel 1938 e rielaborazione dell’infanzia di Re Artù della Materia di Bretagna, il 18esimo classico Disney - un numero che sa, un po’ involontariamente, di maturità e di chiusura di un cerchio - è una funambolica giostra di invenzioni che all’epoca non convinse tutti proprio per via della frammentarietà ostentata, e uscire tra La carica dei 101 e Il libro della giungla in tal senso probabilmente non aiutò. Anche se, col senno di poi, è proprio quest’aspetto a determinarne il fascino e l’unicità: l’assenza di una scansione tripartita (i consueti tre atti) permette al flusso di eventi di proporsi con un andamento più sperimentale e alle sequenze di avventura di nutrirsi dello spazio circostante con un’articolazione pienamente cinematografica, che non rinuncia a giochi di luce e ombra, a un’ampia valorizzazione dell’orizzontalità e della verticalità degli spazi e alla pura estetica del movimento.
Le sequenze di trasfigurazione, con i protagonisti tramutati di volta in volta in pesci, scoiattoli e uccelli, hanno il merito di riflettere sul confine labile tra umanità e animalità. Se pensiamo al fatto che Anacleto non vorrebbe assolutamente diventare un uomo (tanto che Merlino lo minaccia di trasformarlo in umano), appare chiaro quanto La spada nella roccia guardi alla natura e al regno delle creature selvagge come serbatoio di soluzioni e modelli narrativi, psicologici e comportamentali, in relazione allo “strano tramestio" dell’amore, quello del dolce corteggiamento tra roditori, e a tanto altro. Per di più in un tempo, quel “confuso e arretrato Medioevo”, in cui l’individuo era schiacciato da forza oscure e indomabili tanto da affidarsi agli strascichi più minacciosi e insondabili del soprannaturale (Merlino, non a caso, ricorda a Semola a un certo punto che la magia non potrà risolvere tutti i suoi problemi, sebbene possa tornare utile per intasare di una miriade oggetti una sola valigia e lavare montagne di piatti in autonomia).
La spada nella roccia, tra le altre cose, era anche un film che guardava al futuro dalla prospettiva del remoto passato in cui è ambientato, osando darlo per scontato (non poco, se pensiamo ai tempi che stiamo vivendo). Rendeva anche in questo caso più sottili del previsto le linee di demarcazione tra razionalità e irrazionalità e rivolgeva il proprio sguardo al versante profetico e divinatorio della magia e dei suoi risvolti. Merlino arriva a somigliare a una sorta di Archimede pitagorico, che da un lato si spinge verso il soprannaturale, definendo Semola “uno spiritaccio che si butta a capofitto” in tutto ciò che trova lungo il suo cammino, e dall’altro dà per acquisiti gli aeroplani, i treni, le catene di montaggio, i missili, il sistema di diffusione delle notizie, il superamento del terrapiattismo, la scoperta dell'America e perfino delle ipotetiche vacanze alla Bermuda, alle quali si allude in un epilogo che fa da folgorante colpo di coda e segue il duello a piente tinte fantasy con l’indimenticabile Maga Magò: un esempio cristallino di raziocinio asciutto e performante, superiore a ogni variopinta, astrusa e barocca malvagità.
Davide Stanzione
La spada nella roccia racconta del biondo orfanello Artù, detto Semola, che viene schiavizzato dal padre adottivo e dal fratellastro Caio, un bietolone che si allena per vincere il torneo cavalleresco che decreterà il nuovo reale inglese. Con l'aiuto dello svampito mago Merlino e del furbo, ma stizzoso, gufo Anacleto, Semola si troverà a raggiungere risultati impensabili per un ragazzo della sua età (il doppiaggio italiano, rispetto all’originale, ne amplifica l’infantilità, spingendo indietro dal punto di vista anagrafico il suo coming of age e lavorando nel solco dello stupore).
Ispirato al romanzo omonimo di T.H. White, pubblicato nel 1938 e rielaborazione dell’infanzia di Re Artù della Materia di Bretagna, il 18esimo classico Disney - un numero che sa, un po’ involontariamente, di maturità e di chiusura di un cerchio - è una funambolica giostra di invenzioni che all’epoca non convinse tutti proprio per via della frammentarietà ostentata, e uscire tra La carica dei 101 e Il libro della giungla in tal senso probabilmente non aiutò. Anche se, col senno di poi, è proprio quest’aspetto a determinarne il fascino e l’unicità: l’assenza di una scansione tripartita (i consueti tre atti) permette al flusso di eventi di proporsi con un andamento più sperimentale e alle sequenze di avventura di nutrirsi dello spazio circostante con un’articolazione pienamente cinematografica, che non rinuncia a giochi di luce e ombra, a un’ampia valorizzazione dell’orizzontalità e della verticalità degli spazi e alla pura estetica del movimento.
Le sequenze di trasfigurazione, con i protagonisti tramutati di volta in volta in pesci, scoiattoli e uccelli, hanno il merito di riflettere sul confine labile tra umanità e animalità. Se pensiamo al fatto che Anacleto non vorrebbe assolutamente diventare un uomo (tanto che Merlino lo minaccia di trasformarlo in umano), appare chiaro quanto La spada nella roccia guardi alla natura e al regno delle creature selvagge come serbatoio di soluzioni e modelli narrativi, psicologici e comportamentali, in relazione allo “strano tramestio" dell’amore, quello del dolce corteggiamento tra roditori, e a tanto altro. Per di più in un tempo, quel “confuso e arretrato Medioevo”, in cui l’individuo era schiacciato da forza oscure e indomabili tanto da affidarsi agli strascichi più minacciosi e insondabili del soprannaturale (Merlino, non a caso, ricorda a Semola a un certo punto che la magia non potrà risolvere tutti i suoi problemi, sebbene possa tornare utile per intasare di una miriade oggetti una sola valigia e lavare montagne di piatti in autonomia).
La spada nella roccia, tra le altre cose, era anche un film che guardava al futuro dalla prospettiva del remoto passato in cui è ambientato, osando darlo per scontato (non poco, se pensiamo ai tempi che stiamo vivendo). Rendeva anche in questo caso più sottili del previsto le linee di demarcazione tra razionalità e irrazionalità e rivolgeva il proprio sguardo al versante profetico e divinatorio della magia e dei suoi risvolti. Merlino arriva a somigliare a una sorta di Archimede pitagorico, che da un lato si spinge verso il soprannaturale, definendo Semola “uno spiritaccio che si butta a capofitto” in tutto ciò che trova lungo il suo cammino, e dall’altro dà per acquisiti gli aeroplani, i treni, le catene di montaggio, i missili, il sistema di diffusione delle notizie, il superamento del terrapiattismo, la scoperta dell'America e perfino delle ipotetiche vacanze alla Bermuda, alle quali si allude in un epilogo che fa da folgorante colpo di coda e segue il duello a piente tinte fantasy con l’indimenticabile Maga Magò: un esempio cristallino di raziocinio asciutto e performante, superiore a ogni variopinta, astrusa e barocca malvagità.
Davide Stanzione