Fa quasi pena durante la prima corsa.
Sembra uno che scappa mentre insegue le persone che fugge.
Arthur Fleck debutta correndo.
Fa effetto e tenerezza. Scarno, con il volto tirato dall’assenza di fiato. Fleck che quasi viene investito da una macchina, Fleck con la bocca spalancata e le gambe leggere che per come corrono filano lente, Fleck che sembra malato e coperto di ridicolo. Fleck che urla a vuoto e scivola. Continua a correre. Ce la mette tutta e lo ferma un cartello di legno spaccato in faccia.
Si stoppa la prima corsa.
Per terra mentre mugugna con le mani giunte fra le gambe, fa pena al mondo per l’empietà dell’umano. Viene da toccarsi lo stomaco come fa il clown un momento dopo.
Cammina. Sale i gradini. Cammina ancora verso casa.
Sono spostamenti diluiti, fiacchi. Collaudi corporei. Missioni carnali. Esercitazioni del corpo. Prende a calci un cassonetto con il vigore dei nervi scoppiati.
Poi Arthur Fleck corre ancora.
Nella seconda corsa invece scappa. Corre su per le scale della metropolitana di Gotham con il sangue che cola dal naso e la pistola scarica in mano.
Adesso scappa un Fleck dipinto con i gomiti quasi slogati tanto arrivano in alto, con un sacchetto in mano che pare non sbilanciarlo. Sembra dargli simmetria con la strada. Non scivola più. Danza. Muove un ballo lento di autodifesa. Fluttua il guerriero. È in un processo di cognizione. In un bagno buio, Fleck volteggia solo.
Sale e scende. Scende le scale ripide del posto in cui lavora, sale le scale lugubri del posto in cui si esibisce. Arthur scende, Arthur sale.
E corre. Corre ancora. Per scappare lontano dalla casa di Thomas Wayne.
Corre ancora con in mano il fascicolo rubato all’assistente amministrativo dell’ospedale dove era stata rinchiusa sua madre. Divora il corridoio di un reparto come se non avesse fine, corre giù per le scale dell’ospedale dove si arresta la quarta corsa.
Oscilla convertito nella sorte ultima di una corsa nuova. Scende la scala rimessa dal fato definitivo dell’affermazione. Il trionfo euforico senza più pena.
Muore Fleck. S’innalza l’Eroe.
Joker balla.
Il prototipo a colori ride giusto.
Corre ancora di una corsa primordiale.
Un’altra auto lo investe, ma si rialza e corre. Corre. Corre. Corre. Corre ancora su per le scale, insistono i tamburi nell’ossessione della corsa superba, gloriosa.
È un propagarsi di movimenti che non indugiano più, è la corsa violenta dell’indole. È l’incessante manovra della fonte. La provenienza mobile della disperazione. Non si incarcera più la genialità dell’ispirazione. La pulsione fondamentale del ribaltamento.
Corre anche il treno. Corrono gli aguzzini. Corrono le vittime. Corre la città. Corre il sottosuolo. Cammina svelto il semidio senza più pose. La maschera avanza senza più Maschere. E Phoenix corre. Volteggia. Piroetta. Ride.
Hilary Tiscione