Sembra esserci una parentela e un’incredibile conformità fra le composizioni musicali di Tenet e quelle della Trilogia del cavaliere oscuro di Nolan. Ma vale anche per Inception e Interstellar, dove c’è sempre Hans Zimmer, da Batman Begins in avanti, eccetto per The Prestige dove torna lo storico David Julyan.
È lui, è ovvio. È Zimmer, viene da pensare subito, già dai primi minuti dell’ultima temeraria follia del regista britannico.
Certamente si tratta del suo fedelissimo collaboratore candidato undici volte all’Oscar, vincitore di una statuetta; magari nuovamente nel sodalizio con James Newton Howard? È la cosa più ovvia per chi è attento alla scelta musicale del più genialoide e forsennato dei professionisti, come fosse scontato, appunto, vista la consonanza di suoni tortuosi, intricati e quasi sadici in una corsa dissennata e furiosa che lascia turbati e stupiti per qualcosa che non ci è dato intendere.
Si gode infatti di un disorientamento acutissimo praticamente impossibile da afferrare.
Lamette da barba su corde da pianoforte erano state usate nella produzione di alcune celebri tracce del pipistrello più contemplato dopo quello di Burton; questa volta invece è tutto più elettrico, ma con la stessa eredità tachicardica.
Costruzione della trepidazione; espansione fosca e feroce dello stato di tensione. Ha vinto ancora Nolan, anche se in un modo pressoché del tutto indecifrabile, che lascia esterrefatti e incapaci di pensare lucidamente.
Tenet si apre quasi con un omaggio a Il cavaliere oscuro: ticchettii metallici, violini laceranti, suoni che generano un crescendo di inquietudine, risonanze cardiache e frastuoni palpitanti di un oblio imminente e inimitabile.
Non c’è nessuna parentela, non c’è traccia del genio di Hans, eppure Ludwig Göransson – compositore e direttore d’orchestra svedese, vincitore di un Oscar per Black Panther nel 2019 – ricorda lo storico compositore tedesco e strettissimo collaboratore di Nolan in modo sbalorditivo. A proposito, si dice che Zimmer in quel periodo fosse impegnato nella produzione di Dune (2020, Denis Villeneuve).
Si tratta di un meccanismo musicale narrativo senza il quale non sarebbe stato possibile architettare una così elevata abilità di tensione, edificata in modo tanto denso e incrollabile da sovrastare, a tratti, tutto il resto. I suoni arrivano quasi prima delle immagini: non solo le acclamano e le potenziano, ma le dominano. E incombe per due ore e mezza di film una costruzione acustica che fa del suono il delegato fondamentale, massimo e indispensabile portavoce dell’ultima fatica di Christopher Nolan.
S’inserisce, all’interno di una colonna sonora irrinunciabile, anche Travis Scott – noto rapper statunitense – con la sua The Plan prodotta da WondaGurl e Göransson, che attacca in modo veemente con un richiamo primitivo e allo stesso tempo progressista.
Il passo della pellicola è regolato dal carattere e l’indole di un incessante esultanza di implacabili percussioni e vibrazioni violente come schiaffi. Ruggiti e fruscii dall’animo e dalla costituzione ancestrale.
Una lunga marcia di spionaggio che non dà tregua alla mente e al corpo, dove si avverte il volume dei suoni echeggiare nelle tempie e nella cassa toracica. Fa girare la testa. Forse Ludwig aveva intuito la necessità di coinvolgere il corpo dentro un esperimento spericolato e maniacale come questo. È un condensato di ritmi elettronici di carattere oscuro che sembrano non avere precedenti se non per la stimata sonorità che celebra e riecheggia l’estro del regista visionario.
È la musica che sta dietro alla narrazione o è la narrazione che sta dietro alla musica? La seconda ipotesi forse. Oppure una equilibra e pareggia l’altra, entrambe filano senza indugiare e avanzano senza prendere fiato fra i detriti di una guerra imminente.
Hilary Tiscione