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longtake Film Festival 2024: tutti i vincitori!
Si è conclusa una splendida e per noi già indimenticabile 6ª edizione di longtake Film Festival, che ha avuto luogo a Il Cinemino dal 29 novembre al 1 dicembre.

Tre giorni intensi, con otto lungometraggi proiettati, numerosi corti, tanti ospiti e talk dedicati al cinema contemporaneo: la sala che ha ospitato proiezioni ed eventi è sempre state piena e non possiamo che ringraziare di cuore, per l’ampia affluenza e la sentita partecipazione, tutte le persone che hanno partecipato e sono venute a trovarci.

Il film che il pubblico ha decretato come vincitore del nostro concorso è stato Retratos fantasmas di Kleber Mendonça Filho, ma vogliamo ricordare anche gli altri quattro titoli in competizione: Le occasioni dell’amore di Stéphane Brizé, Nobody Leaves Alive di André Ristum, L’incidente di Giuseppe Garau e Wildcat di Ethan Hawke.

Quest’anno, però, per la prima volta, all’interno di longtake Film Festival c’è stata anche la competizione del concorso di cortometraggi Mosaico, realizzato in collaborazione con Filmeeting, che ha visto trionfare Spectrum di Franz Padula.

Nell'ambito del nostro Festival, come da tradizione, c’è stato il Concorso di critica cinematografica dedicato a Marco Valerio, diviso nelle sezioni under 30 e over 30.

La prima sezione ha visto la vittoria di Fiorenza De Gregorio, mentre il secondo premio è andato ex aequo a Letizia Piredda e Mirta Tealdi.

L’organizzazione del Festival tiene a ringraziare il Comune di Milano per il patrocinio e il contributo al Festival e tutti i partner di questa edizione: OrangeMedia Group, Sourcemate, Circonvalla Film, Giffoni Innovation Hub, Filmeeting, Noam Faenza Film Festival e Air3 – Associazione Italiana Registi e i media partner di questa edizione: Cinefacts, ArteSettima e Cinelapsus.

Ecco le recensioni vincitrici:

Starsi vicino alla fine del mondo: How to Save a Dead Friend di Marusya Syroechkovskaya 
di Fiorenza De Gregorio

Quartiere di Butovo, Mosca. Una serie di palazzoni indistinguibili, i balconi accatastati, imbiancati dalla neve: sembrano stringersi tra loro, alla ricerca di un po’ di calore, di tregua dal freddo che preme per entrare. Un disperato bisogno di sollievo, più volte avvertito nel lungometraggio d’esordio di Marusya Syroechkovskaya, presentato a Cannes 2022. Quasi interamente costituito da riprese personali, il documentario racconta la relazione della regista con Kimi Morev, compagno di vita al di là di ogni definizione. È con il funerale di Kimi che si apre la narrazione di How to Save a Dead Friend, per poi riportarci a tanti anni prima, all’inizio di tutto. 
Why is the bedroom so cold? You’ve turned away on your side… le parole dei Joy Division spiccano sul muro della camera di Marusya, mentre Kurt Cobain, ispirazione e presagio, è ovunque nella casa. Lei è un’adolescente tipica della “Federazione della Depressione”, cioè la Russia autoritaria che abbandona i suoi abitanti, inasprendone l’isolamento. Membro di una generazione perduta dedita al suicidio, usa lamette e musica grunge come palliativo. Kimi, conosciuto proprio ad un concerto, diverrà per lei un punto di riferimento ed un motivo di sopravvivenza. 
Il rapporto tra i due giovani, però, non è semplice: dal colpo di fulmine al matrimonio, poi l’inizio dei problemi, il divorzio e la dipendenza. La fuga in America di lei e il ritorno a Butovo, doloroso coronamento di un legame autentico, che da quel momento non smetterà di rafforzarsi, nemmeno al culmine dell’autodistruzione di Kimi. 
I due protagonisti creano un microcosmo autosufficiente, fatto di droga e lacrime, ma anche da due gattini e una macchina da presa. Fin da quando le viene regalata, Marusya manifesta un naturale istinto alla ripresa. Usa la camera come strumento di approccio alla realtà: scudo, per proteggersi da essa, ma anche lente, per cercare di comprenderla, di coglierne il non detto. Nasce così uno stile registico dinamico ma mai frenetico, unito ad un montaggio multisensoriale e non necessariamente cronologico. La ripetitività delle riprese, unica pecca, è spezzata da varie sperimentazioni grafiche, come le slideshow in stile riviste teen anni 2000, o l’uso tragicomico delle immagini stock. 
Culmine poetico è la scena della sonificazione, l’atto digitale di trasformare le immagini in musica. “Se c’è vita dopo la morte, deve essere questa, dove rimani per sempre tra i pixel”, dice la regista. Le sue dita accarezzano una foto di Kimi, a delinearne un ritratto sonoro che trascende i limiti fisici. È espressione d’amore pura; assistiamo ad una metamorfosi, all’ascesa di Kimi al di là della sua forma carnale in decadenza, al di là del futuro perduto di cui non sarà mai protagonista. 
La sensazione, verso la fine del film, è che il mondo stia finendo. Non il mondo esterno: la triste periferia di Butovo continuerà ad esistere, così come il regime che la opprime da lontano, avvicinandosi solo attraverso lo schermo di una tv. È la fine del mondo perché quello in cui Kimi e Marusya sanno stare a galla è uno in cui vivono entrambi. In cui condividono gli stessi spazi, attraversano lo stesso tempo. 
L’ultima immagine è nuovamente della periferia sovietica, che l’orizzonte ingoia e divide inesorabilmente. Il quartiere si piega su se stesso, in uno spettacolare auto-annientamento. Infine, una nuova vita: Marusya entra nei trent’anni senza Kimi al suo fianco. Le resta la sua arte per custodirne, dolcemente, la memoria. 

Perfect Days: il cielo sopra Tokyo 
di Letizia Piredda

Con Ozu ho scoperto il paradiso della regia e quello che mi interessa in questo film è conservare lo spirito del suo cinema”. Wim Wenders 

Luce e ombra, questo il tema centrale del film. E l’ombra è una costante nella quotidianità di Hirayama, addetto alle pulizie dei bagni del quartiere di Shibuya a Tokyo, interpretato da un intenso Kōji Yakusho . Ombre che danzano sulle pareti dei gabinetti lucidati da Hirayama, ombre che ne abitano il sonno, una sorta di camera oscura dove la notte sviluppa le immagini impressionate sugli occhi dell’uomo durante il giorno. C’è un ampio spettro di discipline e tradizioni giapponesi su luce e ombra: basti pensare al Libro d’ombra di Jun’ichirō Tanizaki, ma soprattutto al cinema di Ozu, basato sull’estetica Zen, che celebra lo Yugen, uno strumento linguistico indispensabile per veicolare gli stati d’animo vissuti dai personaggi. Il suo significato è “leggermente scuro” e sta a indicare tutte le cose in penombra, come nella famosa scena del vaso in Tarda Primavera, qualcosa di impenetrabile, una segretezza che non si può manifestare pienamente. Dopo il bellissimo documentario Tokio-ga, Wenders affiancato dal co-sceneggiatore Takuma Takasaki, questa volta va oltre: si immerge nella tradizione culturale giapponese e ne sposa gli stilemi narrativi: il film poggia su una struttura a quattro atti chiamata Kishōtenketsu. Non c’è più un protagonista teso al raggiungimento di uno scopo, qui a prevalere è la concezione del non-fare, del flusso della natura, con le sue ripetizioni cicliche, come la vita di Hirayama che si ripete ogni giorno uguale, una concezione che accoglie il conflitto per disinnescarlo. Il protagonista è un eroe della vita ordinaria che ha un segreto: ha raggiunto una soddisfazione interna che lo fa vivere in pace con se stesso e con il mondo. Affronta ogni giorno il lavoro con un impegno, una passione e una cura ammirevoli, fino a costruirsi da solo degli arnesi speciali : i bagni pubblici per i giapponesi sono il simbolo dell’accoglienza e spesso sono costruiti da architetti famosi. Quello che colpisce del protagonista, è soprattutto la cura che mette non solo nel lavoro, ma anche verso le persone, verso la natura, verso il mondo. Nel tempo libero Hirayama si dedica alla lettura, alle foto e alla musica che ascolta sul suo furgone con audiocassette degli anni ’60; e la musica ha una valenza speciale, così importante per lui che, mentre giravano, hanno deciso, di inserire la musica sul set. Restiamo calamitati da questo personaggio, dalla sua vita semplice, dalla sua capacità di fare a meno delle cose e di vivere l’attimo presente, il qui e ora. Ogni giorno va su una panchina a mangiare il suo panino guardando in controluce i raggi solari che filtrano tra i rami degli alberi. Questo fenomeno è un altro elemento centrale nella cultura giapponese: il komorebi. Il komorebi è la luce che filtra tra le foglie degli alberi, un momento breve, ma intenso, che esprime uno stato d’animo, una sensazione che è sfuggente, come i raggi di sole che filtrano tra le foglie degli alberi. Lo vediamo di giorno il komorebi, ma anche di notte nei suoi sogni che riproducono lo stesso fenomeno ma in bianco e nero. E nella bellissima scena finale è lo stesso viso del protagonista che diventa un komorebi, con quella alternanza tra il luccichio del suo sorriso e la malinconia degli occhi al limite del pianto: un perfetto equilibrio tra luce e ombra, e questa è l’essenza della vita. 

Estranei (All of Us Strangers) di Andrew Haigh
di Mirta Tealdi

Tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore giapponese Taichi Yamada, Estranei di Andrew Haigh è un film che da subito si insinua sotto la pelle e colpisce corde profonde. Un’opera complessa da analizzare, stratificata nei significati e nelle immagini, che si muove contemporaneamente su dati di realtà che si intrecciano, in un groviglio indissolubile, coi percorsi psichici e immaginifici del protagonista. Haigh lo dirige con rigore usando una messinscena tesa ad immergere lo spettatore in un’ atmosfera sospesa e onirica complici le musiche e la bellissima fotografia spesso sgranata e filtrata attraverso colori pervasivi con prevalenza di rossi e viola. 
Il film poggia felicemente sulla recitazione dei quattro attori principali tra cui spicca per struggente intensità la performance del protagonista, Andrew Scott. Ottima spalla Paul Mescal (già molto apprezzato nel film Aftersun di Charlotte Wells), la sensualità e disinvoltura del suo personaggio non riescono a mascherarne la solitudine.
Adam (Andrew Scott), uno scrittore di soggetti e fiction per la televisione, vive da solo in un appartamento di un palazzo di molti piani nella periferia londinese, le grandi finestre a vetrate gli fanno da schermo sul mondo circostante. Una sera suona l’allarme antincendio del palazzo e Adam esce dall’edificio. Guardando verso l’alto del palazzo semideserto si accorge che c’è un uomo (l’unico altro condomino a quanto pare) che lo osserva. Tornato nel suo appartamento dopo poco sente bussare alla porta. E’ Harry, (Paul Mescal ) l’uomo che lo osservava (visibilmente alterato), che sfrontatamente gli offre da bere, e non solo. Adam declina le offerte con un sorriso impacciato e chiude la porta.
Ma non in modo definitivo… 
Due sono i luoghi, simbolo della vita reale e di quella immaginaria di Adam: il proprio appartamento solitario, perso in un oceano di altri appartamenti vuoti, e la casa di famiglia, che ritrova dopo aver visto delle vecchie foto di quando era ragazzo. Tra questi due luoghi c’è il mezzo, il treno, che consente ad Adam di uscire ed entrare tra vero e immaginato, e che fa da trait-d’union tra i due elementi emozionali che lo travolgono: i suoi fantasmi e la nascente relazione con Harry. 
E’ come se, tutto venisse risucchiato in un buco nero (e la simbologia cosmica finale ne è il suggello) in un turbinio esistenziale tra mondo reale e irrealtà: solitudine, tenerezza, accudimento, sensualità, erotismo, dolore, disperazione, incapacità di lasciare andare e fare i conti con il passato, tutti gli elementi vorticano. Estranei è un intenso psico dramma che alla freddezza dell’analisi sostituisce il calore di uno sguardo partecipato e dolente, quello del protagonista davanti alle sue visioni. Il mondo in frantumi del doppio Adam (bambino e adulto) si riflette nello sguardo carico di dolore, che fa male guardare, ma che costruisce ponti di comprensione e perdono col passato. 
Un finale inaspettato rimette Adam a confronto con la morte (come un destino ineludibile), reale come il suo fetore. E ancora una volta Adam si rifugia nel suo colorato mondo onirico, abbracciato per un attimo di sogno, nel pulsare di una stella.
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