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Marco Bellocchio – Quando il cinema politico unisce metafisica e psicanalisi

Nel cinema di Marco Bellocchio la politica ha sempre occupato un ruolo centrale, fungendo da istanza primaria, quasi da pulsione psicanalitica assimilabile a un discorso tanto personale quanto collettivo, che nella poetica bellocchiana è facilmente accomunabile alla nozione di familiare. La rivolta del sessantotto contro le istituzioni e la resistenza alla repressione dei codici borghesi rappresentano da sempre per Bellocchio una forma di iconoclastia irrinunciabile, che negli anni ha però mutato forma, intavolando percorsi di trasfigurazione, palingensi, silenziamento e amplificazione dei contrasti, dialogo col proprio tempo. La singolarità della politica, col regista de I pugni in tasca, va oltre la militanza pura e semplice (dall'adesione generica alla sinistra alla militanza nell'Unione Comunisti Italiani, gruppo d'ispirazione maoista), per farsi messa in discussione più radicale dei nuclei fondamentali dell'identità.

In tempi più recenti Bellocchio si è candidato, nel 2006, alle elezioni politiche per la Camera dei deputati nella lista della Rosa nel Pugno, costituita da radicali e socialisti, allontanandosi dalle sue storiche posizioni comuniste, mentre negli anni successivi ha più volte manifestato la propria vicinanza ai radicali. Il suo cinema, tuttavia, è ovviamente la lente più nitida e stratificata per metterne a fuoco la visione politica e in attesa di Esterno, Notte, nuova serie incentrata sul rapimento di Aldo Moro, già affrontato da Bellocchio nel suo capolavoro della maturità Buongiorno, notte, vale la pena ripercorrere e mettere a fuoco le parentesi più deliberatamente politiche dalla filmografia del regista piacentino. 

LA CINA È VICINA (1967)


La Cina è vicina, opera seconda di Bellocchio, è probabilmente il suo primo tentativo istituzionale, seppur non il più nitido e riuscito, di film permeato da una forte visione politica, dopo il film di diploma al Centro Sperimentale, d'ambientazione sindacalista, Ginepro fatto uomo. Nel lungometraggio il giovane Carlo (Paolo Graziosi), ragioniere iscritto al PSU, seduce la sorella di Vittorio Gordini Malvezzi (Glauco Mauri), professore di scuola media di origini nobiliari, pronto a diventare assessore. Quest'ultimo, a sua volta, comincia una relazione con l'ex fidanzata di Carlo (doppio sposalizio in vista, e finale amaro in arrivo). Zoppiccante tentativo di esplorare le contraddizioni del sistema politico italiano e delle sue emanazioni bizzarre nelle sedi di provincia, unite a una intricata vicenda di amori e gravidanze che ben poco ha a che spartire con la forza del precedente I pugni in tasca (1965), è un film in cui il grottesco si fa macchiettistico, la caricatura non è mai ficcante ma sempre compiaciuta e grossolana e i richiami alla politica appaiono, oggi più che allora, pretestuosi, didascalici e poco incisivi. Si salvano, tuttavia, le prove di Glauco Mauri e Paolo Graziosi, e il tragicomico passaggio finale altamente metaforico con cani e gatti all'attacco di ogni retorica. Ha spiegato Bellocchio stesso a proposito del titolo: "Era uno slogan scritto in quegli anni dai gruppuscoli maoisti, uno slogan che mi aveva riferito mio fratello. Lo adorai subito come titolo, perché creava quella distanza siderale che volevo rappresentare nel mio film, che raccontava di una politica piccola e provinciale. Era, insomma, una cosa comica, provocatoria e grottesca, un modo per dire che ci poteva essere una ventata rivoluzionaria che poteva spazzare via i parassiti politici di allora".

IL POPOLO CALABRESE HA RIALZATO LA TESTA (1969)




Analogamente trascurabile è il successivo episodio di Amore e rabbia firmato da Bellocchio, in cui il regista piacentino e alcuni studenti dell'università di Roma discutono di lotta di classe e movimento studentesco, mentre maggiormente radicato in un indagine antropologica di più ampio respiro è il successivo Il popolo calabrese ha rialzato la testa, in cui la lotta per le occupazioni dei domicili popolari a Paola (Calabria) è al centro del documentario di prodotto e fortemente voluto dall'Associazione Marxisti-Leninisti Italiani. Nonostante l'ingerenza di una cappa ideologica impegnativa, il film è un dignitoso documento militante e impegnato in grado di raccontare con serietà e precisione il tema in questione, anticipatore di alcuni drammi vincolati al Mezzogiorno (la disoccupazione su tutti). Il risultato è piuttosto semplice e scolastico, ma “impreziosito” dalle testimonianze raccolte dal regista durante incontri, interviste e riunioni, oltre che dal bianco e nero della fotografia di Dimitri Nicolau.

SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA (1972)



 
Successivamente, col film interpretato da Gian Maria Volonté Sbatti il mostro in prima pagina, l'indagine di Bellocchio si sposta con forza più luciferina e spericolata verso l'indagine delle connessioni tra l'informazione, il giornalismo, e la politica. Nella Milano degli anni di piombo, la redazione di un quotidiano d'impianto borghese e vicino alla destra, Il Giornale, tenta di strumentalizzare l'omicidio di una giovane per distruggere mediaticamente un esponente della sinistra extraparlamentare. Il caporedattore Giancarlo Bizanti (Gian Maria Volonté) segue il caso con particolare attenzione. Più passano gli anni, più Sbatti il mostro in prima pagina rivela di avere anticipato tendenze malsane nella gestione dell'informazione italiana. Alla sua uscita fu feroce e spietato documento di un'epoca in continuo smottamento; oggi funziona come grimaldello per comprendere come la nostra epoca non sia mai riuscita davvero a liberarsi di meccanismi e trappole mentali derivate da quegli anni di tensione. Un progetto che Bellocchio ereditò dallo sceneggiatore Sergio Donati, chiamando poi il giornalista e critico cinematografico Goffredo Fofi a riscrivere il copione. Il risultato è altalenante e diseguale, meno incisivo di quanto sarebbe lecito attendersi, ma capace di regalare almeno due momenti memorabili: l'interrogatorio a Laura Betti davanti ai compagni di partito e la spazzatura che accompagna lo scorrere del Naviglio sul finale, limaccioso e avvilente. Esemplare come sempre Gian Maria Volonté, ambiguo e mefistofelico, strepitoso quando analizza il significato recondito dei titoli dei giornali. Sergio Donati, insoddisfatto del risultato finale, rielaborò il soggetto per il film Il mostro (1977) di Luigi Zampa. Nelle immagini di repertorio del comizio del Msi si può riconoscere il futuro ministro Ignazio La Russa. Il Giornale del film è fittizio e non ha nulla a che vedere con l'omonimo quotidiano fondato da Indro Montanelli due anni più tardi.
 
 MATTI DA SLEGARE (1975)




Matti da slegare, firmato da Bellocchio con Silvano Agosti, Stefano Rulli e Sandro Petraglia, è una delle pagine politiche più rilevanti della carriera di Bellocchio, nell'accezione più alta, e dunque anche sociale, del termine. A seguito delle teorie di Franco Basaglia, che avrebbe dato il nome alla legge del 1978, inerente alla chiusura dei manicomi e alla regolamentazione del trattamento sanitario obbligatorio, i quattro autori si interrogano sulle effettive possibilità di inserimento nella società degli ex internati. Per valorizzare la loro indagine danno la parola a pazienti già dimessi e personalità vicine ai centri che la legge Basaglia avrebbe poi contribuito a “svuotare”: nel caso specifico, l'Istituto di Colorno (Parma). Portatore di una sensibilità non comune, e di una grande umanità che si riversa inquadratura dopo inquadratura, Matti da slegare è un esempio di incredibile delicatezza e, al contempo, di passione militante nell'accezione più libera e ossigenata possibile. Senza riservarsi troppe indulgenze, il film racconta soavemente (pur mantenendo un piglio deciso e organicamente strutturato) alcuni episodi di incredibile durezza. Il tutto condensato nella malinconica festa del finale, tra fumi di sigaretta e canzoni da osteria. Un prodotto coraggioso, appassionato e sentito che riflette in maniera intelligente sulla condizione dei malati mentali come persone da slegare dai vincoli castranti e da reinserire attivamente, nei limiti del possibile, all'interno della comunità. Il film è dunque profondamente umano e umanista, mettendo in discussione le certezze della scienza e della medicina (gli psichiatri vengono rappresentati sostanzialmente come uomini di potere, tutori dell'ordine simili a poliziotti), riuscendo a conciliare con sorprendente equilibrio vis polemica e tenerezza nell'illustrare un'umanità abbandonata a se stessa. Inizialmente girato in 16 mm con il titolo Nessuno o tutti (dalla durata di 3 ore), è stato poi trasferito a 35 mm e ridotto a poco più di due ore.
 
BUONGIORNO, NOTTE (2003)



 
Italia, anni di piombo. Durante il IV governo Andreotti, Aldo Moro (Roberto Herlitzka) viene sequestrato dalle Brigate Rosse. Nell'animo di uno dei sequestratori, la giovane Chiara (Maya Sansa), iniziano a farsi spazio conflitti interiori e scrupoli di coscienza. Tutto il contrario dell'integerrimo e spietato Mariano (Luigi Lo Cascio), sicuro di sé e determinato. Ispirandosi, seppur vagamente, al libro Il prigioniero di Anna Laura Braghetti, carceriera di Moro, Bellocchio firma una delle pellicole più potenti della sua carriera, senza il fine di voler svelare nuovi risvolti di una pagina nera della cronaca nostrana, ma optando, invece, per fornire una sua personale rilettura in chiave stilizzata e libera. È un'opera coraggiosa e decisamente fuori dagli schemi, creativamente fertilissima e spiazzante, abile nell'attraversare con il sogno e il gioco delle ipotesi uno dei momenti più infelici della storia (politica) italiana. Intenso e dolente, intimista e profondamente attento alla cura dei dettagli (con una particolare attenzione per i primi piani e per i piccoli gesti quotidiani apparentemente di poca importanza ma, di fatto, rivelatori di stati d'animo inquieti e autocensurati), è uno dei film più interessanti e toccanti del cinema italiano d'inizio nuovo millennio. Strepitosa la colonna sonora, che vede alternarsi Franz Schubert, Giuseppe Verdi, Jacques Offenbach e i Pink Floyd. Premio a Venezia per la miglior sceneggiatura e coda velenosa di polemiche per la mancata vittoria del Leone d'oro. Grande successo di pubblico. Il titolo è ispirato ai versi di un celebre componimento di Emily Dickinson (nella traduzione di Nicola Gardini).

VINCERE (2009)




La sarta Ida Dalser (Giovanna Mezzogiorno) viene sedotta da Benito Mussolini (Filippo Timi) molti anni prima della marcia su Roma e partorisce un figlio, Benito Albino. Follemente innamorata del futuro dittatore (che poi sposerà Rachele Guidi), la Dalser viene però brutalmente respinta e rinchiusa in manicomio. Vincere di Marco Bellocchio equivale a un giro sulle montagne russe: la tragica vicenda di Ida Dalser viene scomposta dal regista di Bobbio con un tale gorgoglio emozionale da non poter lasciare la minima traccia di indifferenza, nel bene e nel male. Il film scorre come un potentissimo flusso di sentimenti, che l'autore è abile a gestire (quasi sempre) con piglio sicuro e saggia severità, spalmando la vicenda negli anni in cui si consuma il dolore di questa sartina di Sopramonte, folgorata dall'amore per Benito Mussolini (interpretato da un intenso e convincente Filippo Timi), un socialista che grida dimenandosi come fosse Errol Flynn con l'animo di Napoleone. Il Duce arriva di notte come il diavolo, gli occhi vitrei e ambiziosi fendono l'aria della notte e spogliano la sua damina per poi lasciarla gravida al suo destino di manicomi e atrocità, ribadendo il potere iconoclasta e allucinatorio dello sguardo di Bellocchio nel raffigurare la politica e i suoi simboli incarnati. E Benito Albino, il figliolo illegittimo, si fa bastardo ed egualmente proiezione in piccolo dei bollori deliranti del padre: «Sono Benito Mussolini anche se adesso non mi chiamo più Mussolini», erede indiscusso della veemente rabbia materna.

MARX PUÒ ASPETTARE (2021)




Nel 2016 Marco Bellocchio si ritrova, insieme ai suoi fratelli rimasti in vita, con rispettivi figli e nipoti, per festeggiare varie ricorrenze. Ne nasce un documentario che diventerà qualcosa di diverso da quanto preventivato: un film su Camillo, il fratello gemello di Marco, morto suicida a 29 anni nel dicembre del 1968. È semplicemente impressionante vedere come in questo documentario,  tornino a esserci tutti i temi tipici del cinema di Bellocchio di finzione; dal rapporto con la figura materna (per il quale torniamo addirittura al suo magnifico esordio, I pugni in tasca) alla panoramica sul nucleo famigliare (L’ora di religione o Sorelle) fino al tema della perdita, del lutto e della separazione, da sempre un argomento molto presente nel cinema del regista di Bobbio (si pensi anche a Bella addormentata, per fare un esempio). In questo lungometraggio dal taglio intimo e famigliare c’è tantissimo cinema, che si annida non soltanto davanti all’occhio della macchina da presa, ma all’interno delle memorie dei volti sulla scena, capaci di trasmettere un’empatia che fa sentire allo spettatore la presenza di Camillo come se fosse ancora tra loro e… tra noi. La sensazione è infatti quella che, anche per chi guarda con attenzione la pellicola, si parli di un caro defunto, tanta è la partecipazione emotiva all’interno del documentario. È anche un film di fantasmi, dal sapore testamentario, in cui riflettere su colpe e dolori, attraverso una sorta di seduta di autoanalisi di coscienza di grande profondità. Brutale e poetico, il film genera sensazioni fortissime fino al bellissimo finale, capace di dare un ulteriore guizzo alla visione e di trasporre l’intera operazione su un piano ancora più bellocchiano (e non soltanto perché si tratta di un epilogo girato nel cruciale Ponte Gobbo della natia Bobbio). La dimensione politica del film è tutta già nel titolo, come dichiarato dallo stesso Bellocchio, un azzardo all'insegna del rifiuto struggente dell'impegno politico in favore di una toccante meditazione esistenziale postuma: «La morte di Camillo cade in un anno “rivoluzionario”, il 1968. L’anno della contestazione, della libertà sessuale, del maggio francese, dell’invasione della Cecoslovacchia, ma tutte queste rivoluzioni passarono accanto alla vita di Camillo, non lo interessarono. “Marx può aspettare” mi disse l’ultima volta che ci incontrammo...».

Davide Stanzione

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