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I 5 migliori film di Marco Ferreri

Estremo, radicale, scomodo: Marco Ferreri ha segnato profondamente la storia del cinema nazionale, affrontando i lati oscuri di un'Italia preda delle proprie derive consumistiche e rifiutando, sempre e comunque, qualsiasi forma di compromesso. Scelte coerenti con una personalità spigolosa, che però sono state pagate con la mai adeguata valorizzazione di un autore unico nel suo genere, capace di vere e proprie rivoluzioni artistiche. In occasione della sua nascita (11 maggio 1928), ecco una top 5 dei suoi indimenticabili titoli.


5) L'udienza (1972)



Impossibilitato a mettere in scena Il processo di Franz Kafka per questioni di diritti, Marco Ferreri sceglie di rappresentare l'assurdo che irrompe con prepotenza nel quotidiano tramite l'odissea di un giovane sprovveduto, alle prese con le meschinità e le piccinerie tipicamente clericali (e nazionali). La tentacolare burocrazia che permea il film (i continui e abortiti tentativi, da parte di Amedeo, di realizzare quella che è un'ossessione totalizzante) mira a metaforizzare le contraddizioni politiche e sociali di un Paese in crisi irreversibile, in cui l'alienazione e la compulsione sembrano gli unici mezzi per sfuggire a meccanismi castranti e raggelanti.


4) Il seme dell'uomo (1969)



Ferreri, anche sceneggiatore con Sergio Bazzini, dirige un dramma fantascientifico sull'annientamento della società moderna, condannata al riciclo storico e all'inevitabile Apocalisse. Un'opera che si avvicina all'arte concettuale, pregna di astrazioni e simbolismi, in cui l'ostinazione a ricreare un microcosmo feticista, il clima allucinato e onirico (esaltato dai dialoghi surreali e dalla fotografia aliena di Mario Vulpiani) e la disumanizzazione imperante («Oggi le scelte spettano ai cervelli elettronici, che non hanno i dubbi e le esitazioni di un uomo») preludono al crollo artistico, religioso e soprattutto morale. Nichilista, disperato, necessario.


3) La donna scimmia (1964)



Ferreri si ispira a un fatto realmente accaduto (una messicana affetta da ipertricosi vissuta nell'Ottocento) per tratteggiare un dramma cinico e corrosivo sulla totale assenza di morale nella società moderna. La prospettiva autoriale e quella spettatoriale coincidono con lo sguardo smarrito della protagonista (interpretata da una straordinaria Annie Girardot), figura fragile, sottomessa e inconsapevole simbolo delle brutture riservate al genere femminile, disposta a tutto pur di cullare l'illusione di un sentimento. Un film tragico, provocatorio e angosciante, privo di qualsivoglia catarsi, ma costruttivo e necessario nella sua programmatica crudeltà.


2) Dillinger è morto (1969)



Una delle opere più anomale e coraggiose di Marco Ferreri, che si lancia anticonvenzionalmente nei territori del simbolismo e della piena rarefazione stilistica (la quasi totale assenza di dialoghi, la presenza di oggetti significanti all'interno delle inquadrature) per definire in maniera concreta e disturbante il concetto di alienazione. Un'opera definitiva e disturbante, summa dei cardini ferreriani e in netto anticipo sui tempi nel tratteggiare limiti e contraddizioni di un desolante contesto sociale. Strepitosa interpretazione di Michel Piccoli.


1) La grande abbuffata (1973)



Agghiacciante e disperato apologo sulla deriva consumistica dell'uomo contemporaneo, immolato al culto del superfluo e destinato a spegnersi dopo una vita consacrata all'inettitudine. Ferreri elegge a veicolo significante l'allegoria (a partire dai quattro protagonisti, topoi di ossessioni carnali e ideologiche), riducendo al minimo la narrazione attraverso una giustapposizione di sequenze-simbolo e tratteggiando una quotidianità esemplificata nelle azioni più elementari (mangiare, dormire, copulare, defecare). Ciò che emerge è un ritratto nerissimo e spietato sulle idiosincrasie tipicamente borghesi, detonazione di un annientamento (sociale e morale) tanto temuto quanto inevitabile. Fischi e sputi al Festival di Cannes, dove fu presentato in concorso.


 

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