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Master MICA - Analisi de "La grande bellezza"

Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!

LA GRANDE BELLEZZA
di Sara Di Nardo

Co-scritto e diretto da Paolo Sorrentino, “La Grande Bellezza” è il sesto lungometraggio del regista partenopeo, che dopo “L’Uomo in più” (2001), “Le conseguenze dell’amore” (2004) e “Il Divo” (2008) torna a collaborare con Toni Servillo. Presentato al Festival di Cannes e uscito nelle sale italiane nel maggio del 2013, “La Grande Bellezza” ottiene una distribuzione internazionale, a cui fanno seguito importanti riconoscimenti in tutto il mondo. Nei mesi a seguire, infatti, il film fa incetta di premi, vincendo nove David Di Donatello, cinque Nastri D’Argento e il Bafta, il Golden Globe e l’Oscar come miglior film straniero.

Quest’elaborato ha una duplice finalità. Da un lato, vuole indagare il motivo per cui “La Grande Bellezza” può essere considerato un valido esempio della contemporaneità. Per far ciò verrà esplorato il tema della crisi d’identità e si rifletterà su due realtà della società odierna: la Chiesa Cattolica e la classe borghese, di cui Sorrentino critica volgarità e ipocrisia. Dall’altro, attraverso l’interpretazione di alcune scene e simbolismi e il supporto di citazioni e dialoghi del film, l’analisi mira a raccontare il viaggio del protagonista: seguendo Jep (Toni Servillo) nelle sue esperienze e riflessioni, verrà osservato per intero il percorso che dalla crisi iniziale lo condurrà verso una rinascita finale. 

MONDANITÀ 
Uno sguardo sulla classe borghese
Fin da subito, lo squallore della mondanità borghese viene messo in contrapposizione con la bellezza del territorio romano. Il film si apre sul Gianicolo: è mattina, non c’è quasi nessuno a parte un gruppo di turisti e qualche sporadico abitante della città. La macchina da presa si muove tra gli spazzi dell’Acqua Paola, accompagnata dai rumori del paesaggio circostante e dal canto soave di un gruppo di coriste. Stanno intonando un brano in yiddish, le cui note riecheggiano nell’ambiente. A cantare è la sezione femminile del “Torino Vocalensemble”, specializzato in un repertorio contemporaneo e per questo scelto da Sorrentino per interpretare “I Lie” di David Lang. La calma piacevole di queste immagini è bruscamente interrotta dal primo piano di una donna che urla. Questa volta è notte fonda e ci troviamo su una terrazza, ma il posto è stracolmo di persone che si muovono a ritmo di musica da discoteca. Dell’eleganza della scena precedente non resta nulla. Al contrario, ciò che colpisce è la volgarità dell’ambiente e di chi lo anima.

In questo contesto incontriamo per la prima volta Jep: è la sera del suo 65esimo compleanno, che festeggia fino all’alba ballando tra conoscenti e sconosciuti. Lo straordinario successo dell’unico libro che ha scritto lo ha catapultato fin da giovane nel «vortice della mondanità», dal quale non è più uscito. Ricco, annoiato e demotivato, Jep trascorre le sue giornate tra feste notturne, incontri occasionali e incarichi lavorativi. Sono solo due gli indizi che anticipano l’importanza del viaggio che dovrà affrontare: al mattino ascolta l’audiolibro de “Il Fu Mattia Pascal” di Pirandello, un romanzo che fa della crisi d’identità la sua tematica centrale; in più, prima di addormentarsi, Jep vede il mare sul soffitto della sua camera. 

Il protagonista è conosciuto da tutti e conosce tante persone; con nessuno, però, ha un legame significativo. Quelli con cui interagisce vivono d’apparenza e ipocrisia: Orietta scatta quotidianamente foto a se stessa, vantandosi dei complimenti ricevuti su Facebook; Lello ostenta la solidità del suo matrimonio ma frequenta spesso prostitute; e Stefania critica Jep, il suo romanzo e il fatto che non abbia figli né famiglia. Come tutti sanno, però, suo marito ha una relazione con un altro uomo, lei è una madre assente e i suoi undici libri sono pressoché sconosciuti. Le feste a casa di Jep sono il momento di massima pretenziosità, dove i partecipanti hanno modo di osteggiare la loro finta statura intellettuale. Si parla di sentimenti pirandelliani, della scena jazz etiope, di marxismo e collettivismo: grandi discorsi per fingersi superiori e impressionare gli altri. 

Gli appuntamenti mondani a cui Jep partecipa esemplificano la vacuità della classe borghese, che inquina la bellezza della Roma odierna con la volgarità del suo stile di vita. Ad esempio, una sera Jep si ritrova a Palazzo Brancaccio per osservare l’operato di Alfio Bracco, un chirurgo estetico che accoglie un’infinita quantità di pazienti addebitando 700 euro per ogni iniezione. Con Ramona, invece, prende parte a un evento nei pressi di Villa Medici, durante il quale ammira la bizzarra esibizione di Carmelina. Carmelina è una bambina prodigio, il cui talento è stato trasformato in un vero e proprio business. Non può giocare con i suoi amici perché deve dipingere; non può essere una semplice bambina perché non lo è più. Durante lo spettacolo l’opera d’arte prende vita dalla rabbia di Carmelina: i presenti la osservano in contemplazione e a nessuno sembra importare che dipinga piangendo. «Ma che piangere, che stai dicendo», dice Jep a Ramona. «Quella ragazzina guadagna milioni». 

Il funerale è il momento mondano per eccellenza. A specificarlo è lo stesso Jep, che ne spiega le dinamiche durante una riflessione interiore a cui lo spettatore ha pieno accesso. 

«A un funerale, non bisogna mai dimenticarlo, si va in scena».

Seduto davanti l’enorme statua del Marforio, il protagonista fa intendere che non c’è nulla di sincero né spontaneo in un evento di questo genere. Fondamentale, invece, è la performance degli invitati, che devono dar prova del loro (finto) dispiacere senza scadere in una becera ostentazione. Per far ciò, mentre osserva i completi di volta in volta sfoggiati da Ramona, Jep illustra le regole da seguire. L’attenzione riservata ai dettagli estetici è indice della superficialità con cui si approcciano all’evento. In occasione del funerale di Andrea, il figlio della sua amica Viola, Jep segue alla lettera le istruzioni date in precedenza: una volta che gli invitati si sono seduti, si avvicina alla madre per farle le condoglianze. Le sussurra all’orecchio una frase costruita per l’occasione e si apposta in un angolo, «lontano ma ben visibile al pubblico», per raccogliersi in un momento di “privata” commozione. Provenendo come da un’altra dimensione, la luce che dall’alto gli illumina il volto sembra porlo sotto i riflettori. A questo punto, Jep non è nient’altro che un attore: il funerale diventa il palcoscenico; gli invitati sono la sua platea.

Il discorso sulla mondanità si fa ancora più significativo in una delle scene più fugaci del film. Il protagonista passeggia per Via Veneto, strada storica di Roma, e s’imbatte per caso nell’attrice Fanny Ardant. Non ci sono dialoghi importanti: i due si sorridono e Jep ne resta incantato. Si tratta di uno scambio breve ma dalla delicatezza disarmante, accentuata ancor di più dalle note di “The Beatitudes” in sottofondo. Questo, tuttavia, è anche il momento in cui “La Grande Bellezza” incontra “La Dolce Vita” (1960): Sorrentino usa Via Veneto per omaggiare il film e Federico Fellini, una delle sue più grandi influenze cinematografiche.  

D’altronde, in diverse occasioni “La Grande Bellezza” sembra echeggiare La Dolce Vita. Marcello, giornalista come Jep, si muove da una festa all’altra, trascorrendo il suo tempo con attrici, paparazzi, prostitute e persone benestanti dell’alta borghesia. Se la Via Veneto di Sorrentino è deserta e silenziosa, quella di Fellini brulica di luci, persone e rumori. Nel periodo tra le due guerre, infatti, la famosa strada romana si è affermata come ‘cuore mondano e intellettuale’. Non a caso, in un primo momento il produttore Giuseppe Amato insisteva che il titolo del film fosse “Via Veneto”. Tra caffè aperti d’estate fino a tarda notte e i suoi illustri frequentatori (Ennio Flaiano è solo uno dei tanti nomi), ‘si è creata così l’abitudine dei romani di frequentare nottetempo la strada illuminatissima per godersi il ponentino, vedere da vicino le celebrità e assistere alle corride che intraprendono con i fotografi’. 

Omaggiando il film che più di tutti denuncia la corruzione morale della classe borghese, “La Grande Bellezza” non fa altro che rafforzare la sua critica al vuoto interiore e all’ipocrisia dei personaggi che mette in scena. 

CHIESA CATTOLICA
Tra ipocrisia e fanatismo
Sorrentino non lascia nulla al caso. Infatti, nell’ultima parte del film pone la Chiesa Cattolica odierna al centro di una riflessione sull’apparenza. Prima dell’arrivo de “La Santa”, quando la critica si farà ancora più pungente, il regista presenta allo spettatore il Cardinale Bellucci: ex-esorcista e amante di banchetti sfarzosi e cucina raffinata. 

Fin da subito notiamo il suo forte attaccamento a tutto ciò che è materiale, lo stesso attaccamento che la Chiesa professa di ripudiare. Lo spettatore, infatti, troverà Bellucci in contesti sempre borghesi; lo ascolterà consigliare ricette pregiate e parlare di cibo; e lo vedrà lasciare casa di Jep in un’auto lussuosa con autista personale. Interessato ad avere una conversazione su fede e spiritualità, Jep non riuscirà mai a dialogare con lui: Bellucci preferirà dedicarsi alla ricerca di puzzole con gli altri ospiti del ricevimento. Il Cardinale è dunque emblema dell’intera casta clericale e dell’ipocrisia che le appartiene. 

Pochi momenti dopo veniamo informati dell’arrivo di Suor Maria, “La Santa” famosa in tutto il mondo. L’incontro con gli esponenti dei vari credi religiosi è un momento di massima venerazione: qualcuno sviene dopo averle baciato la mano; l’intera sala sospira sgomenta quando - per puro caso - le cade la scarpa a terra. Il suo personaggio è il pretesto per introdurre un ambiente grottesco e incline all’adorazione di simboli appositamente costruiti.

Riverita in tutto il mondo, Suor Maria è quasi sempre in balia del suo assistente, che parla per lei esaltandone grandezza e santità. Secondo le sue parole la suora lavora con gli ammalati tutti i giorni per 22 ore al giorno e «non cammina, corre», pur avendo quasi 104 anni. Mentre Suor Maria abbraccia la propria fede con coerenza e convinzione, chi la circonda sfrutta la sua fama per vivere nel privilegio. «La povertà non si racconta, si vive», afferma “La Santa” in uno dei pochi momenti in cui le è concesso parlare. Tuttavia, è trascinata in giro per il mondo malgrado l’età; a casa di Jep si cena con un banchetto abbondante nonostante lei possa nutrirsi di soli radicchi; il suo assistente la fa alloggiare all’Hassler, uno degli hotel più sfarzosi di Roma. 

Anche in questo caso si possono cogliere alcune somiglianze con “La Dolce Vita”. Nel suo film, infatti, Fellini porta all’estremo un episodio di apparizione della Vergine Maria, criticando aspramente il fanatismo religioso e la strumentalizzazione della fede. In questo caso, i protagonisti sono due bambini che sostengono di aver visto la Madonna. Ne “La Grande Bellezza” l’adorazione verso Suor Maria è sapientemente sfruttata dal suo assistente; ne “La Dolce Vita” è la famiglia stessa ad approfittare della fama dei due bambini, palesemente istruiti a mentire. Durante il momento del miracolo una folla di credenti e curiosi arriva sul posto. A questi si uniscono giornalisti e fotografi provenienti da tutto il mondo, che regalano all’evento pubblicità e attenzione mediatica. Come succede a Carmelina ne “La Grande Bellezza”, anche qui i bambini e il loro (presunto) talento sono in balia di un pubblico adulto. Ne “La Dolce Vita”, però, la situazione presto degenera. I fedeli che li circondano sembrano quasi posseduti: si inginocchiano, pregano, gridano, spingono. È fanatismo allo stato puro che – oggi come 60 anni fa – rende ciechi, irrazionali e pericolosi. 

Sorrentino stesso tornerà a riflettere sulle problematiche della Chiesa Cattolica odierna, offrendo una critica ancora più incisiva. Infatti, qualche anno dopo “La Grande Bellezza” si dedicherà alla realizzazione di due prodotti televisivi: “The Young Pope” (2016) e “The New Pope” (2020), attraverso i quali avrà modo di approfondire alcune delle tematiche già trattate nel film. Entrambe le serie sono ambientate in Vaticano, cuore del perbenismo cattolico; entrambe riflettono sulla dicotomia degli uomini di Chiesa, divisi tra fede cieca e desideri terreni. 

IDENTITÀ SFOCATE
Riflettendo su alcuni dei suoi film, è possibile notare che Sorrentino costruisce spesso personaggi dall’identità frammentata, indefinita. Ne “L’uomo in più”, ad esempio, alcuni eventi sconvolgenti porteranno i fratelli protagonisti della storia a vivere una significativa crisi d’identità, che sfocerà in un tragico finale. In “This must be the place” (2011) la morte del padre spingerà Cheyenne (Sean Penn) – ex rockstar – a intraprendere un viaggio di vendetta, che lo porterà a ritrovare se stesso. Ne “Le conseguenze dell’amore”, invece, Sorrentino mette in scena un personaggio dall’identità sconosciuta, che solo gradualmente verrà rivelata allo spettatore. Questo tema, inoltre, sarà di fondamentale importanza in entrambe le sue serie. In “The Young Pope”, l’identità di Lenny Belardo (Jude Law) è profondamente segnata e deformata da un’assenza che da sempre lo tormenta: quella dei suoi genitori. In “The New Pope”, il nuovo papa John Brannox (John Malkovich) – straziato da un profondo senso di colpa – è diviso tra il ruolo che è chiamato a interpretare e l’uomo che vorrebbe essere. 

La crisi d’identità, una delle tematiche più esplorate nel cinema della contemporaneità, è centrale anche ne “La Grande Bellezza”. Dopo aver appreso la notizia della morte di Elisa, la sua prima fidanzata e l’unica donna che abbia mai amato, Jep comincia a mettere in discussione se stesso e la propria vita. È l’inizio di una presa di consapevolezza che solo nel finale porterà a una svolta definitiva.

Prima di concentrarci sul protagonista, è opportuno sottolineare che anche altri personaggi del film sono caratterizzati da identità in crisi. Romano, ad esempio, è un uomo di mezza età che ama scrivere e recitare. Da anni rincorre un successo mai arrivato, ma dopo l’ennesima delusione decide di lasciare tutto e tornare a vivere dai suoi genitori. Il nome che Sorrentino sceglie per il personaggio di Carlo Verdone è molto significativo: “Romano” ricalca un legame di appartenenza alla città. Tuttavia, come spiega lui stesso a Jep, Roma lo ha molto deluso e decide quindi di lasciarla per tornare a Nepi. 

Il regista gioca con l’identità di parecchi personaggi minori. Carmelina, la bambina prodigio, vuole diventare una veterinaria ma le viene negato: può essere solo quello che i genitori vogliono che sia. La fidanzata di Romano aspira a diventare prima attrice, poi scrittrice e infine anche regista: nemmeno lei sa cosa vuol essere davvero; dipende dall’umore e dalla persona con cui parla. Durante la cena con “La Santa” vengono assunti dei nobili a noleggio: sono i Colonna di Reggio, due ex-aristocratici caduti in disgrazia che, per racimolare qualche soldo, interpretano il ruolo che viene loro assegnato. Infine, Jep scopre la vera identità del suo misterioso vicino di casa solo quando lo vede in manette, arrestato dalla polizia: è uno dei latitanti più ricercati al mondo.

Jep
Jep si trasferisce a Roma a 26 anni, dopo la pubblicazione e il successo del suo unico romanzo: “L’Apparato Umano”. Come menzionato in precedenza, cade subito in un vortice di sfarzo, feste e frivolezze, che gli valgono il soprannome di “re dei mondani”, del quale non si è mai liberato. A 65 anni appena compiuti, la sua vita procede nella stessa direzione. Tutto cambia con l’arrivo di Alfredo, il marito di Elisa: Jep apprende che la donna, morta da poco, è sempre stata innamorata di lui. Questo confronto scuote profondamente il protagonista. Poco dopo, infatti, fissando il soffitto della sua camera sprofonda nel sogno-ricordo dell’estate che non ha mai dimenticato. 

Ci ritroviamo dunque su un’isola in pieno giorno: in acqua è in arrivo un motoscafo a piena velocità; sulla scogliera un gruppo di ragazze prende il sole. Tra queste riconosciamo Elisa, che indossa lo stesso costume della foto sulla mensola a casa di Alfredo. Una di loro comincia a gridare il nome di Jep, che si diverte in mare non accorgendosi dell’arrivo del motoscafo. Richiamato dalle urla della sua amica si volta di scatto: è il Jep adulto, quello che abbiamo conosciuto finora. Per sfuggire a un disastroso incidente si tuffa immediatamente sott’acqua, tornando in superficie qualche secondo dopo. A riemergere, però, è un ragazzo: questa volta è il Jep diciottenne, che sorride trionfante sotto lo sguardo divertito di Elisa. Queste immagini preannunciano il percorso interiore che lo attende: da qui in poi, il “vecchio” Jep sarà chiamato a fare i conti con una vita e un’identità nelle quali non si riconosce, cominciando un viaggio quasi a ritroso, finalizzato al ricongiungimento col se stesso di un tempo. 

Altrettanto significativa è la scena seguente. Al Tempietto del Bramante Jep si imbatte in Francesca, una bambina che cerca di nascondersi dalla madre. Dalla cripta della costruzione Francesca si rivolge direttamente a lui. «Chi sei tu? », gli chiede. Jep si sporge verso il basso e cerca di rispondere:

«Chi sono? Io sono... »
«No», lo ferma Francesca. «Tu non sei nessuno».

La notizia della morte di Elisa segna dunque una cesura importante. Da un lato, sembra quasi un nuovo inizio: il protagonista comincia a prendere in considerazione l’idea di tornare a scrivere; cerca di rispondere alla «sana curiosità umana» che lo spinge verso Ramona, coltivando una relazione che superi la solita superficialità; e, dopo la messinscena iniziale, piange in modo sincero – e anche inaspettato – al funerale di Andrea. Dall’altro, Jep entra profondamente in crisi: le feste a cui partecipa e le persone che lo circondano, da lui descritte come “fauna”, non hanno più alcun valore; prende pienamente coscienza della sua età e del tempo sprecato; e realizza di non identificarsi più con la persona che è e con l’immagine di “re dei mondani” che si è cucito addosso. Una mostra al museo etrusco di Villa Giulia darà voce al disagio che l’incapacità di riconoscersi in se stesso provoca in lui. L’artista Ron Sweet ha messo su un allestimento di migliaia di autoritratti, che lo riprendono fin dalla nascita. Le splendide note di “The Beatitudes” tornano ad accompagnare Jep mentre osserva le foto: la meraviglia di ciò che ha davanti è forse uno degli sprazzi di bellezza di cui parlerà in seguito. Per ogni giorno della sua vita Ron ha a disposizione un’immagine, un ricordo e delle espressioni che descrivono lo sviluppo e la crescita della sua persona. Al contrario, chi Jep è stato una volta lasciata quell’isola è incredibilmente sfocato. Non subito questa mancanza di certezze genera nel protagonista una reazione propositiva.

Quella vissuta da Jep, infatti, è una crisi esistenziale che ricalca per diversi aspetti il pensiero Kierkegaardiano sull’angoscia. Kierkegaard pone la possibilità al centro del modo d’essere dell’uomo: l’esistenza di ciascuno di noi è caratterizzata da alternative drastiche, di fronte alle quali siamo chiamati a scegliere. ‘Quindi è un rischio, perché in ogni scelta mettiamo in gioco noi stessi, decidiamo di noi. Possibilità non è solo possibilità di essere, è anche possibilità di non essere, possibilità di annientamento’. Questo comporta un’instabilità perenne, che paralizza l’individuo gettandolo in una condizione d’angoscia, intesa come ‘possibilità immanente del nulla’. Nel corso del film Jep rivela una certa delusione nei confronti di se stesso e di chi è diventato. Allo stesso tempo, guarda con amarezza al non essere in cui si è ridotta la sua esistenza. «Questa è la mia vita. E non è niente», dice alla domestica mentre osserva gli altri ballare e divertirsi. Questa consapevolezza, almeno in un primo momento, lo paralizza. Durante il suo breve incontro con Arturo, un illusionista che si sta esercitando per uno spettacolo di magia, Jep manifesta tracce di quell’annientamento kierkegaardiano. «Fai sparire pure me», gli chiede affranto. A differenza del filosofo, che trova nella fede religiosa la risposta alla disperazione che deriva da una simile angoscia, Jep si lascia salvare dalla ragazza che non ha mai smesso di amare. 

Infatti, è proprio il ricordo del se stesso di un tempo, della sua Elisa e della serenità vissuta durante l’estate trascorsa insieme a generare in lui un latente ma palpabile bisogno di rinascita. Il richiamo a quel preciso momento della sua giovinezza sarà costante nel corso del film. A casa di Alfredo, seppur sincero nelle sue risposte, Jep è più volte distratto dalla foto di Elisa alle sue spalle, una foto che la ritrae giovanissima sulla scogliera dell’isola. Durante la sua visita al Palazzo Barberini, invece, il protagonista è affascinato da un’opera in particolare: “La Fornarina” di Raffaello, che osserva sorridendo mentre in sottofondo sente lo sciabordio delle onde del mare. Il rumore, però, è soltanto una sua proiezione mentale: la modella de “La Fornarina” sembra evocare in lui il ricordo di Elisa su quell’isola. L’acqua è un simbolo ricorrente ne “La Grande Bellezza”: mentre è in compagnia del marito di Elisa, Jep è travolto dalla pioggia del temporale; nel finale vediamo i titoli di coda scorrere sul Tevere; i ricordi e i sogni del protagonista sono tormentati da un’isola e dal mare che la circonda. L’acqua, infatti, è simbolo di vita, rinascita e purificazione, elementi che hanno un ruolo centrale nel percorso di crescita di Jep. Inoltre, ‘incarna il principio femminile, sia per gli aspetti legati alla fertilità, sia per il carattere di elemento liquido, puro, adattabile e ricettivo’. Nel film, infatti, l’acqua evoca costantemente la presenza di Elisa.

Significativo è anche il modo in cui descrive la sua prima volta durante una delle conversazioni con Ramona. Dalle parole che usa e dal primo piano che gli chiude il volto capiamo subito che non sta semplicemente raccontando quei momenti: li sta rivivendo. Nonostante siano passati oltre 40 anni, Jep è in grado di ricordare perfettamente sensazioni e particolari. Pian piano, il suo sguardo si fa malinconico e il racconto sempre più intenso, così intenso che Ramona sente il bisogno di andarsene e lui di cambiare argomento. Il primo piano sul suo volto tornerà ancora – e non a caso – proprio nel finale.

Il pensiero costante di Elisa e del loro tempo insieme rievocano in lui il ricordo di una bellezza mai più trovata. È proprio lì che il protagonista sente di dover tornare.

“LA GRANDE BELLEZZA”
Il viaggio si conclude
Poco dopo la morte di Ramona troviamo Jep in un bar della città. Indossa uno smoking nero; forse è appena stato al suo funerale. Camminando verso il bagno, comincia a rendersi conto delle persone che lo circondano: sono anziani, poco più vecchi di lui e soli. Una signora gli afferra la mano. Questo gesto non lo stranisce: è quasi commosso dal bisogno di contatto da lei manifestato. «E ora?», dice all’improvviso una voce alle sue spalle. «Chi si prende cura di te?». Jep si volta, ma non vediamo nessuno. Nel frattempo udiamo in sottofondo “Everything trying”. Il testo si compone di pochi versi, ma quelli che si ripetono sono principalmente due:    

“I would sail back to you”
“I’ll be sailing on your deep blue eyes” 

La scelta della canzone non è casuale: “sail” sta per salpare, navigare; e anticipa il viaggio che di lì a poco compirà il protagonista. 

È proprio nei minuti finali del film che Jep riesce finalmente a trovare la sua strada. «Le radici sono importanti», gli dice Suor Maria durante la loro conversazione, prima di accompagnare con un soffio uno stormo di uccelli diretti a ovest. Poco dopo vediamo il protagonista su una barca in movimento, anche lui in viaggio ma diretto verso l’isola. Il “vecchio” Jep è pronto per ricongiungersi con il Jep di un tempo e con le emozioni provate grazie a un’unica persona: è questa la sua grande bellezza. Sorrentino pone il ritorno all’isola in parallelo con la visita di Suor Maria alla Scala Santa di San Giovanni: la suora, saliti in ginocchio i 28 gradini, raggiunge con fatica e devozione la cappella del Sancta Sanctorum; Jep, dopo una vita intera, torna sul luogo e dalla persona che più lo hanno segnato. La missione di entrambi è portata a termine.

Finalmente sull’isola, Jep può rivivere a pieno il ricordo di Elisa. Ecco allora che la citazione iniziale del film dà ancora più forza al suo finale.

Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione.
Tutto il resto è delusione e fatica.
Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario.
Ecco la sua forza.
Basta chiudere gli occhi.

La bellezza va cercata nell’enorme confusione, volgarità e bruttezza che è la vita. «È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L'emozione e la paura. Gli sparuti, incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell'imbarazzo dello stare al mondo». Arrivato nel posto che cercava e ricongiuntosi con le autentiche emozioni di un tempo, Jep ritrova finalmente se stesso. La rinascita del protagonista è richiamata dalle immagini che fanno da sfondo ai titoli di coda: la macchina da presa si muove con eleganza tra gli spazi del fiume Tevere; è l’alba e non c’è nessuno. La città, come Jep, si sta svegliando. Ancora una volta tornano le note di “The Beatitudes”, che accompagnano la meraviglia del panorama circostante. 

Ritrovata la sua grande bellezza, il viaggio del protagonista si conclude. Ora, però, ne comincia un altro: a occhi aperti e sveglio per davvero, Jep può dare inizio a un nuovo romanzo e alla sua una nuova vita.

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