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Master MICA - Analisi di "Adieu au langage"
Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!

Ah Dieu! Oh Langage
di Giorgia Zoino

Adieu au langage, film di Jean-Luc Godard del 2014, si apre con un’immagine nera e un’avvertenza divisa in tre parti: «coloro i quali mancano di immaginazione si rifugiano nella realtà. /Resta da sapere se la non-idea contamina l’idea. /Proprio allora abbiamo avuto forse il nostro meglio, disse Deslaurier». La citazione fa da impalcatura all’intera pellicola per due motivi. Il primo è sostanzialmente di ordine tematico. Deslaurier è un personaggio de L’Éducation sentimentale di Gustave Flaubert, romanzo diviso in tre parti allo stesso modo della frase citata nel film. Sebbene sia dominante in entrambi il leitmotiv della relazione adultera che si consuma spesso in una camera, è altrettanto forte la denuncia della società e la passività del “sentimento”. Non c’è una vera relazione, non c’è desiderio, i personaggi di Godard e di Flaubert sono reduci di un periodo storico post-rivoluzionario, ma industriale e imborghesito. Ne risulta che ogni gesto, inserito in una struttura narrativa discontinua, è inattivo, automatico e impotente. Secondo Marshall McLuhan, Flaubert è stato il primo ad abbandonare la continuità della narrativa unilaterale per effetti più profondi da raggiungere con la giustapposizione analogica di personaggi, scene e situazioni senza alcuna connessione. Proprio come in Adieu au langage. 

Se da una parte c’è una vicenda amorosa che fa da collante alla struttura filmica, dall’altra c’è una trama di impegno politico più complesso. Ad esempio, al minuto 4.50 del film il professore Davidson dice che nel 1933 un russo Zvorykin «inventa la televisione. 1933 vi dice qualcosa? Hitler fu eletto cancelliere del Reich democraticamente». Qui la narrazione storica del passato non coincide soltanto con quella contemporanea, ma continua in quella attuale. Sebbene si sottintenda un totalitarismo diverso nella forma, ma che educa allo stesso sentimento di passività. Non a caso Davidson mostra la copertina de L’homme qui avait presque tout prévu di Jacques Ellul. 

La narrazione storico-politica si esemplifica anche nel doppio significato di “camera” per indicare la stanza degli amanti e la macchina da ripresa. Il termine, come ha spiegato Godard, è da intendersi secondo il significato russo di prigione – che torna nel film al minuto 37.07. La stessa prigione di Ellul in Le Système technicien (del 1977 e tradotto in italiano La gabbia delle società contemporanee) la cui ambiguità di senso si rintraccia anche in un testo in francese antico, il Roman d’Alexandre (1170). Nel testo medievale l’uso di chambre è usato sia nell’accezione di camera che di gabbia per indicare la struttura con cui Alessandro scende nelle profondità marine. 

La lotta, anticipata nei primi minuti della pellicola dalla canzone La caccia alle streghe di Alfredo Bandelli, è contro il regime tecnico e le convenzioni del nuovo linguaggio cinematografico. Ecco perché le riprese sono alternate con un iPhone – si veda la prima pubblicità della Apple del 1984 – e il 3D. Godard, per criticare un nuovo regime visivo, usa gli strumenti di ciò che critica e li destruttura. Questo impegno è ripetuto due volte all’inizio del film. Ad esempio, quando il professore, nel citare Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn, fa dire alla collaboratrice che si tratta di un saggio di inchiesta narrativa. E poco dopo è una studentessa a ripeterlo. 

Il testo russo, inoltre, è un resoconto del sistema di prigionia sovietico tra il 1958 e il 1968. I suoi temi in Adieu non anticipano solo i concetti di prigione, di oppressione, di regime e di passività. Il saggio russo ne indirizza le modalità di narrazione filmica. In questo modo, si innesca nella pellicola una struttura da saggio-inchiesta che aiuta a ricostruire le coordinate del presente. E a forza di guardarle rivelano «l’educazione culturale della società» (Les Années di Annie Ernaux). 

Il secondo motivo è invece di ordine linguistico. La parola Adieu lampeggia in rosso sullo schermo come un S.O.S. in codice morse sovrapposto alla citazione di Flaubert in bianco. L’opposizione cromatica torna con quella tra 3D e 2D, ripresa anche in altri due momenti. Ad esempio, quando le mani di una donna si lavano prima nell’acqua pulita e poi nel sangue. E la sovrapposizione tra bianco/rosso si ripete inoltre nell’alternanza dei due capitoli 1Natura/2Metafora per dilatare lo stesso avvertimento. 

L’incipit di Adieu au langage indica visivamente la scomposizione delle strutture linguistiche. Il regista parcellizza il linguaggio e sovrappone la dimensione visuale a quella verbale senza farle combaciare. Non ci sono accordi apparenti per tutto il film, se non collisioni tra la parte verbale della lingua e quella delle immagini interrotte. Ma proprio in questa rottura l’automatismo dell’immagine contemporanea si spezza. Qui la rottura è la «dessine de la deffurure Rembrandt» di Marguerite Yourcenar, cioè una zona grigia tra due strutture linguistiche che permette di cogliere il «“sintomo” (interruzione nel sapere) e la “conoscenza” (interruzione nel caos)», come suggerisce Georges Didi-Huberman in The image burns (2001). Questo metodo non spinge ad adottare un nuovo sguardo, piuttosto lo trasforma e lo adatta ai nuovi rapporti. Rivela, in sostanza, una flessibilità dello sguardo che sappia guardare dentro questa rottura linguistica. Quindi la rottura diventa montaggio attraverso il quale si può avere l’effetto di una ri-semantizzazione, allo stesso modo dell’effetto Kulešov. Il linguaggio si svuota di senso, non circoscrive più una lingua o l’insieme dei suoi codici. Per essere ri-semantizzato, lo si deve scomporre e distruggere dal suo interno. Ed é proprio quello che Godard fa. L’obiettivo è andare contro un nuovo paradigma visivo e la pretesa del cinema moderno di esacerbare la realtà attraverso il 3D. Questa rottura visiva è al minuto 56.00 quando compare l’ombra della macchina da ripresa e in una scena precedente si vedono le ombre dei due amanti che finalmente interagiscono guardandosi. L’ombra rivela che «non si [fa cinema] né di quel che si vede, né di quel che non si vede. Si [fa cinema] del fatto che non si vede». 

C’è un altro appunto da fare. Il brano che fa da intermezzo/sirena tra la citazione di Flaubert e Adieu è la Sinfonia n. 7 di Ludwig van Beethoven. Il brano, che si ripete due volte all’inizio, anticipa i due capitoli Natura e Metafora, introducendoli anche nel corso del film. I due capitoli, però, si ripetono a loro volta alternandosi fino a dividere la pellicola in quattro parti e non in due. Esattamente come la Sinfonia n. 7 di Beethoven che è divisa in quattro movimenti. Tuttavia, il piano visivo e quello sonoro non coincidono solo nella struttura. Adieu e la Sinfonia n. 7 coincidono nella tardività, ovvero ciò che contiene l’ultima fase della vita umana, una certa precarietà, secondo la definizione data da Theodor W. Adorno prima e da Edward W. Said dopo. Anche se la Sinfonia n. 7 non appartiene all’ultima fase artistica di Beethoven, è l’unica non lineare rispetto alle altre sinfonie composte nel 1812. Oltre ad essere l’unica che anticipa la frammentarietà e la negatività dello stile tardo di Beethoven. In Spätstil Beethoven (1937), il filosofo tedesco scrive che lo stile tardo lascia «indietro macerie delle opere e comunica se stessa, come in modo cifrato, soltanto attraverso i vuoti dai quali prorompe». Beethoven tardo rifiuta il nuovo ordine borghese tanto quanto Godard, entrambi catastrofici e negativi. E proprio in questa negatività le loro opere «non sono tonde, ma corrugate, addirittura dilaniate».

La tardività in Adieu è nella reiterazione degli eventi, come si nota già dal capitolo 1Natura. C’è un mercatino di libri dove il professore Davidson è con la sua collaboratrice Isabelle. Poco dopo si vedono le mani di una ragazza che sfoglia dei libri di filosofia e due ragazzi che usano l’iPhone. All’improvviso, come un presagio, appare sullo sfondo una Mercedes blu con un uomo al finestrino concentrato a guardare qualcosa o qualcuno. Proprio quando la studentessa legge “saggio di inchiesta narrativa”. Da questo momento le immagini si fanno più brusche, si accorciano, si interrompono. Gli schermi vuoti si allungano nella durata e spezzano le immagini riprese da archivi storici o cinematografici in modo nevrotico. Il discorso politico del professore e quello di una sconosciuta – appare per qualche secondo in bianco e nero – sono dei semplici suoni che si sovrappongono a loro volta e si incastrano allo stesso ritmo delle immagini. I silenzi sono identici ai vuoti dello schermo. L’impressione è quella di due narrazioni diverse scandite secondo tempi diversi. Invece, queste narrazioni inconciliabili parlano l’una dell’altra. In Adieu il gioco linguistico è proprio sull’alternanza e sulla reiterazione. Ciò che si sente si alterna da un orecchio all’altro. Ciò che si vede si alterna da destra a sinistra e viceversa. Ciò che accade si ripete secondo modalità di narrazione differenti. In aggiunta, la narrazione storico-politica dà l’idea che in quella sovrapposizione tra due tempi storici ci sia un nucleo di futuro inespresso nel passato che aspetta di essere compiuto nel presente. Esattamente come l’auto blu sullo sfondo che da destra prosegue verso sinistra fino a fermarsi dopo qualche minuto accanto a una panchina. L’uomo finalmente scende e il silenzio è interrotto dalla Sinfonia n.7 che coincide, adesso, con l’immagine a colori della donna. L’uomo in giacca la strattona, la chiama per nome, Josette, mentre un altro uomo, Gédéon, sullo sfondo segue la scena facendo finta di leggere il giornale. L’uomo in giacca torna verso l’auto, ma all’improvviso, quando lui scompare dallo schermo, si sente uno sparo. La Mercedes va via velocemente questa volta da sinistra a destra. 

Il capitolo 2Metafora si apre con immagini altrettanto frammentate e interrotte. Adesso il professore è al molo a sfogliare un libro su Nicolas De Staël. Nel frattempo ritorna la stessa Mercedes, ma ora è grigia e la ripresa è capovolta. L’uomo ingiacchettato scende dall’auto. Se nella scena precedente lo sparo è stato solo sentito, qui invece si vede. Le riprese dei due capitoli, non solo sono speculari, ma addirittura si completano. Laddove lo sparo è solo intuito, c’è un’altra prospettiva che permette di vederlo. Questo è possibile attraverso un’attenta rielaborazione dei fatti alla maniera di Michel di Blow up che per caso vede sullo sfondo della fotografia di due amanti un cadavere. La verità è rivelata dalla parcellizzazione dell’immagine prelevata. Ecco perché la verità è più un’indagine che indica i limiti della rappresentazione. Nel caso dello sparo, il punto non è il cosa si vede, ma il come si vede attraverso prospettive divergenti. E il montaggio serve proprio a mettere in crisi le rappresentazioni dei media e del cinema moderno. Ogni immagine nel film é speculare all’altra, così come il passato e il presente. Le sequenze si ripetono tra un capitolo e l’altro secondo modalità sceniche differenti, ma uguali nel contenuto. Le scene si ripetono mostrandosi al contrario e capovolte proprio come di fronte a uno specchio. «Stiamo invertendo specchi» scriveva Vilém Flusser in Do espello (1966), probabilmente anche identità. 

Ad esempio, nel capitolo Metafora anche se la vittima dell’uomo è fisicamente un’altra donna, è idealmente la donna del capitolo precedente. Adesso il suo nome è Ivitch, è vestita allo stesso modo del professore: «Quello che chiamano immagini diventa l’omicidio del presente. Quand’è che dobbiamo dire la verità?». La domanda arriva nel momento in cui la donna viene strattonata dall’uomo in giacca. Avviene un’altra sovrapposizione tra la donna e il professore. Questa volta è tra due scene che non sono parallele, ma sdoppiate. Quando la donna viene afferrata il professore si alza e continua a studiare il libro di pittura. Le due narrazioni sono l’una il riflesso dell’altra e tornano a ricongiungersi un minuto dopo. 
C’è un continuo scambio di prospettive della ripresa e della storia. Per quanto ci sia un gioco di rispecchiamenti che preclude un faccia a faccia, i personaggi non si guardano mai se non attraverso le loro ombre. Il faccia a faccia che ha inventato il linguaggio, ripetuto due volte da Gédéon, non c’è. Le loro sono solo voci che si sentono, come lo sparo. Il medium cinematografico cannibalizza il lato umano e lascia un linguaggio meccanico che si ripete come un gesto incondizionato. Solo i due attori della Tv in secondo piano si guardano in faccia. Gli amanti in Adieu sono sempre di spalle, come Gli amanti o La riproduzione vietata di René Magritte. Anche Ivitch é nello stesso appartamento di Josette, con Marcus, un altro uomo. La loro Tv è accesa, ma ora l’immagine non trasmette più nulla. 
Quella di Josette e Ivitch è la stessa storia. Possono anche essere due storie possibili che si rispecchiano. Nel quarto capitolo, però, la reiterazione è al contrario rispetto al capitolo precedente: si continua ad invertire la sinistra con la destra e viceversa. Il saggio di Godard in pratica segue la curva matematica di Laurent Schwartz-Dirac, menzionata da Gédéon, cioè due strutture distinte che interagiscono tra loro e che diventano da separate due unità. Le scene si mescolano, le persone sembrano intercambiabili, ma non c’è realmente comunicazione. Il linguaggio è monocromatico come la stanza in cui le donne si rifugiano con i loro amanti. Non c’è coincidenza tra ciò che si dice e ciò che si vede. Il regime di realtà é sfalzato e non ci sono parametri su cui poter fare affidamento. Non è casuale la scelta di tre filtri in Adieu da quello più fittizio a quello più autentico: il 3D, il 2D e lo sguardo del cane. Il cane, oltre a costituire la nudità allo stato puro, è «la povertà nel linguaggio». 

Al minuto 45.00 ritorna la stessa immagine dei due amanti allo specchio con Ivitch e Marcus che non si guardano mai. Uno è di spalle e l’altro si vede appena rivolto verso lo spettatore. Il contatto e il movimento dei loro dialoghi sono identici alle macchine in autostrada che appaiono a singhiozzi nel film. L’autostrada è una metafora del linguaggio umano che si incrocia in determinati punti, ma è sfuggente nei significati. E proprio come il linguaggio, va in direzione uguale e contraria. Anche la conclusione del film è emblematica. Il “saggio di inchiesta narrativa” di Godard termina la sua indagine con Frankenstein e La Fin du Ā di A.E. van Vogt. Il primo indica il prodotto finale di un montaggio scandito attraverso le sue fasi di costruzione (è la forma). Il secondo è un romanzo distopico in cui un’intelligenza artificiale decide le sorti di tutti (è il contenuto). Ed è quello che accade un secondo dopo la vista del libro. La ripresa cinematografica risucchia tutto. Nelle ultime scene, ci sono due sedie vuote davanti alla Tv che non trasmette più nulla. L’immagine torna nera come all’inizio di Adieu e si sente il cane abbaiare per la seconda volta nel film. Nello stesso momento, un bambino piange per dire solo che vive, nonostante tutto.
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