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Master MICA - Analisi di "Cold War"

Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!

COLD WAR (ZIMNA WOJNA, 2018)
di Noemi Lamacchia

INTRODUZIONE 
Cold War è un film diretto dal regista polacco Paweł Pawlikowski e vincitore del Premio alla Miglior regia al Festival di Cannes 2018. Come per Ida (2013), film che gli valse il Premio Oscar per il Miglior film straniero, Pawlikowski torna a girare nel suo paese d’origine che lasciò all’età di quattordici anni. Il suo legame con la Polonia è sia nostalgico (il film è infatti dedicato espressamente ai suoi genitori) che mosso da un interesse storico, culturale e sociale di più ampio respiro. In entrambe le opere il regista mantiene quello stesso sguardo che lo ha contraddistinto fin dai primi documentari della sua filmografia, attento a ricostruire storie intimamente radicate nell’esperienza reale. Cold War esalta proprio questa sua vocazione. L’analisi che segue ricalca la struttura stessa dell’opera divisa in capitoli, così da estrapolare, uno per volta, i temi e gli indizi seminati dal regista. Il film, infatti, ha dei connotati fortemente simbolici e sfrutta magistralmente le potenzialità narrative tipiche del cinema contemporaneo: la struttura narrativa frammentata, la scelta del formato in 4:3 e del bianco e nero coniugati ad una costruzione dell’immagine che integra forma e contenuto, i temi dell'alienazione e della crisi d’identità. Tutte queste caratteristiche e tematiche scaturiscono dal contesto storico e geografico della Guerra fredda che diventa metafora di un sentimento collettivo caratterizzato dal senso di minaccia, di controllo e di sospensione della libertà. 

ANALISI
Il suono di una cornamusa squarcia il nero del quadro. Dopo uno stacco sullo strumento e sulle mani che lo suonano, la macchina da presa si alza per mostrare il volto del musicista con gli occhi diretti in camera. Con una breve panoramica laterale si sposta su un violinista, il suo sguardo fermo e fiero resta fisso su di noi. La melodia di un canto popolare racconta di qualcuno che non vuole aprire una porta, per il timore di ciò che lo attende fuori. Il movimento della cinepresa prosegue e si sofferma su un bambino che guarda di sottecchi i due musicisti, ascoltando timidamente le loro parole:

“Ho bussato, ho chiamato, lei non voleva aprire
Dovetti appoggiare la testa sulla pietra
La testa sulla pietra, i piedi sulla soglia
Apri fanciulla, abbi timore di Dio.”

Torna all’improvviso il nero e appare il titolo del film, la musica si interrompe solo sullo stacco successivo. Con la prima sequenza che si chiude sul titolo, il regista, in un solo minuto, semina degli indizi su almeno due dei temi fondamentali del film e suggerisce qualcosa sulla sua genesi. Le prime inquadrature introducono al progetto documentaristico dei protagonisti, la ripresa potrebbe essere una soggettiva di Wiktor o Irena intenti a registrare la prima canzone del nastro. Qui il regista fa rivivere tutta la sua passione per il genere del documentario che ha sperimentato nei primi anni della sua carriera e che gli ha permesso di farsi conoscere dal pubblico. 
Le parole del canto dei contadini sono le prime che ascoltiamo e suggeriscono il tema del timore di una minaccia esterna che si svilupperà nel corso del film. Inoltre, la musica, fin dalla prima inquadratura, rivela lo scopo che la colonna sonora avrà nel corso della narrazione: amplificare e dare eco al racconto e far di una vicenda personale la storia di un sentimento collettivo.
Il bambino intento ad ascoltare diventa testimone della tradizione culturale del suo paese tramite l’unico mezzo allora possibile, la trasmissione orale degli anziani. Il concludersi della sequenza su questa immagine sembra alludere ad un aspetto importante della genesi di questo film che, come denoterà la dedica finale, è ispirato alla vita dei genitori del regista, i cui nomi sono quelli dei protagonisti: Wiktor e Zuzanna. Pawlikowski nato e cresciuto in Polonia, come quel bambino, è testimone della storia del suo paese ed erede dei racconti tramandati dai suoi genitori.
Dopo il titolo la musica si interrompe bruscamente, lo stacco porta all’interno del furgone su cui viaggiano Wiktor, Irena e Kaczmarek. Nelle scene seguenti, artisti di estrazione popolare si esibiscono uno dopo l’altro, l’ultima di questi è una bambina che fa una delle interpretazioni più commoventi del film, cantando il brano che diventerà una sorta di leitmotiv: Dwa serduszka (Due piccoli cuori). Dopo un’inquadratura fissa su di lei, lo stacco passa su Wiktor con in mano il registratore, una lenta panoramica si sposta su Irena: i loro occhi sono pieni di emozione e ammirazione. Il movimento prosegue e si ferma sulla soglia di una porta, sullo sfondo Kaczmarek è seduto a un tavolo e mangia una minestra approfittando dell’ospitalità della padrona di casa, indifferente alla piccola grande interpretazione nella stanza accanto. Quest’ultima scena non è che un’anticipazione del ruolo che il personaggio di Kaczmarek avrà nella storia, interessato più all’utilità che al valore culturale e artistico del progetto.

POLONIA, 1949
Un campo lungo mostra il furgone procedere in un paesaggio innevato. Cielo e terra si confondono nella nebbia grigia, una scritta sovraimpressa sull’immagine indica il luogo e l’anno dell’azione: Polonia, 1949. I tre protagonisti ascoltano un altro brano registrato che sembra preannunciare l’incontro che di lì a poco stravolgerà la vita di Wiktor:

Questo amore è donato da Dio? O è sussurrato dal Diavolo?”                                                 

Su queste note Kaczmarek abbandona il furgone e si inoltra nel paesaggio gelido visto in precedenza: questa volta, in un campo lunghissimo, l’uomo non è che una piccolissima ombra nel vuoto bianco. In questo luogo desolato si regge, su poche mura, una chiesa, sopravvissuta alla devastazione della guerra. Kaczmarek ne supera la soglia, si toglie il cappello in segno di rispetto e viene attratto dall’immagine di due occhi che un tempo facevano parte di un intero affresco. Li vediamo in soggettiva, così come, subito dopo, vediamo il cielo incorniciato da quella che un tempo era una cupola, ora scoperchiata. Questa inquadratura è immediatamente seguita da un’altra diretta perpendicolarmente verso il basso, sul fango di una strada: un’indicazione che Pawlikowski vuole darci sulla mediocrità delle intenzioni di Kaczmarek che riducono ogni nobile aspirazione a un terreno fangoso.
In questi due fotogrammi è impossibile non notare un legame con il regista russo Andrej Tarkovskij: la chiesa scoperchiata richiama l’Abbazia di San Galgano nel film Nostalghia, i due occhi affrescati rivolti allo spettatore ricordano, invece, lo sguardo del Cristo Salvatore di Andrej Rublëv, icona raffigurata nell’omonimo film, che ha nel suo intimo significato l’essere il mezzo attraverso cui Dio si fa immagine per i suoi fedeli. Pawlikowski fa suo l’ideale fondamentale dell’espressione artistica di Tarkovskij. Per il regista russo infatti, l’artista, tramite la sua opera, anela all’assoluto: 

“[…] manifesta l’istinto spirituale dell’umanità, e nella sua opera l’aspirazione dell’uomo verso l’eterno, il trascendente, il divino, sovente a dispetto della natura peccaminosa del poeta stesso.” 

 Il regista polacco inserisce le stesse immagini degli occhi e del cielo nelle scene conclusive del film per mettere in risalto il contrasto tra l’attaccamento ai soli valori terreni mostrato da Kaczmarek e l’anelito all’assoluto di Wiktor e Zuzanna che, in quella stessa chiesa, sarà consacrato con il matrimonio e con il loro gesto suicida.

Sulla soglia di un vecchio palazzo signorile, che diventerà la sede delle lezioni della Mazurek, Kaczmarek dà così il benvenuto al gruppo di aspiranti artisti: “salviamo le sorti dei talenti dei musicanti del popolo”. In contrapposizione a questo messaggio nobile e incoraggiante, una sua soggettiva dall’alto, mostra il gruppo compresso nella parte inferiore del quadro e tagliato ai lati. Questa è una delle prime inquadrature che mettono in luce il motivo della scelta di Pawlikowski per il formato 1.33:1, già utilizzato per il precedente film Ida (2013). In entrambe le opere, il regista, grazie alle caratteristiche specifiche e alla dimensione ridotta del formato, riesce a tradurre visivamente un senso di oppressione e di scissione che, in Cold War, rispecchia simbolicamente il contesto sociopolitico dell’intera nazione polacca, la cui libera espressione e identità sono state represse prima dal Nazismo e poi dal Regime comunista. Le due linee narrative del film, quella della storia d’amore tra Zuzanna e Wiktor e quella che segue il percorso della Mazurek, si sviluppano e si integrano su questo sfondo di minaccia e repressione.

Zuzanna è l’emblema della ricerca di un’identità autentica e libera, pronta a sbocciare con grinta e forza travolgenti. Wiktor è il primo a notarla e ad esserne conquistato. Dopo l’audizione della ragazza, che interpreta la canzone d’amore russa Serdtse (Cuore), commenta: “ha energia, temperamento, un non so che di originale”. Il regista racconta il personaggio di Zula anche attraverso le inquadrature che la ritraggono, che di volta in volta interpretano il suo stato d’animo in relazione alla sua evoluzione come persona e come artista. Nell’aspetto formale della sua prima esibizione da solista, è impressa tutta la forza caratteriale del personaggio. Pawlikowski la inquadra dalle spalle in su, come per toglierle aria ai polmoni, ma lei riesce a conquistare il suo spazio dando respiro a tutta la sua voce.

Nella sequenza successiva con Wiktor e Zuzanna, la costruzione dell’inquadratura è, ancora una volta, di fine maestria. Lui è seduto al piano, lei in piedi al suo fianco perfettamente al centro del quadro. Il pianoforte crea una sorta di linea di fuga dell’immagine che si interrompe sulla figura di Zula, come ad indicare l’unica direzione possibile per lui: quella che porta a lei. Zula, da parte sua, si trova tra un arco che incornicia la parete e una finestra su cui si staglia il capo di Wiktor. La sua posizione sembra raccontare il dilemma che la tormenterà per tutta la vita: optare per rimanere nella cornice protetta della Polonia sotto l’ombra del Regime o scegliere la via più rischiosa e fuggire dal paese insieme a Wiktor.
Il pezzo che Wiktor accenna al piano per far esercitare Zula ai vocalizzi, è I Loves You, Porgy, un brano del compositore e jazzista americano George Gershwin, che rivela l’inclinazione internazionale di Wiktor e la sua tensione a superare i confini del paese.

La scena seguente lo vede invece impegnato nel travolgente Allegro agitato d’apertura della Fantasia-Improvviso (Op. 66) di Chopin. Non a caso la scelta di Pawlikowski ricade su questo compositore e su questo brano in particolare. Chopin è un pianista polacco tra i maggiori esponenti del romanticismo. I primi anni della sua formazione furono attraversati da un sopito ma prepotente desiderio di lasciare il paese, sospinto dal richiamo di un nuovo mondo culturale. Fantasia Improvviso fu composta a Parigi, città in cui si trasferì all’età di vent’anni e in cui trovò l’ispirazione che cercava. L’apertura del brano è caratterizzata da accordi freschi e lievi che danno una complessiva sensazione di risveglio. Wiktor trova così in Chopin il suo alter ego: non solo condividono la vocazione artistica, il paese natale e la destinazione, Parigi, ma soprattutto lo stesso sentimento di ribellione e di apertura al cambiamento.

VARSAVIA, 1951
“PARTITO, NAZIONE, PATRIA”. Uno striscione con stampate queste parole, appeso sulla facciata del teatro di Varsavia, accoglie il gruppo della Mazurek nella prima tappa del suo tour europeo.
Poco dopo, un’inquadratura dal basso, alle spalle delle ballerine, mostra le stesse parole sovrastare la platea. Queste scene, insieme a quella in cui una gigantografia di Stalin si innalza sulle teste del coro durante un’esibizione, raccontano di come il Regime incomba visivamente e letteralmente su ogni passo della Mazurek. Il controllo del Partito Comunista fa dell’espressione artistica un bieco strumento di propaganda politica.
Lo stesso controllo si insinua nella trama d’amore tra Wiktor e Zula che s’infiamma in parallelo ai primi successi del gruppo folkloristico. La serenità di un giorno libero, in cui i due si rilassano sdraiati su un prato in riva al fiume, viene interrotta dalla confessione di Zuzanna che ammette di fare la spia sui movimenti di Wiktor. Lui, preso alla sprovvista, capisce di non potersi fidare neppure della donna di cui è innamorato. Ma paradossalmente è proprio questo il momento in cui si rende conto che non potrà mai fare a meno di lei: il suo sentimento è in grado di sopraffare anche il tradimento. Zula si tuffa nel fiume e mentre si lascia trasportare dalla corrente intona Cuore, il brano che l’aveva rivelata a Wiktor. 

Cuore, non ti interessa la pace
Cuore, è magnifico essere vivi
Cuore, è bello che tu sia così
Grazie, cuore, per saper amare così.”

Simbolicamente il fluire di un fiume e l’acqua stessa esprimono da un lato il senso dello scorrere del tempo e dall’altro quello di incessante mutevolezza. La scelta del regista di “inserire” Cuore nella corrente di un corso d’acqua sembra suggerire che né il passare del tempo, né i cambiamenti che lo accompagnano, possono sommergere un amore.

BERLINO EST, 1952 - PARIGI, 1954 - JUGOSLAVIA, 1955
Abbiamo visto come la composizione dell’immagine veicoli il sentire dei protagonisti e il procedere della trama. Allo stesso modo, il montaggio interviene, come per sua accezione originaria, a creare quell’illusione di unione e vicinanza che il passare del tempo e la distanza fisica non consentirebbero nella realtà. Pawlikowski in un’intervista spiega così il largo utilizzo delle ellissi temporali nel film: “mi piace distillare le storie e tirarne fuori i momenti forti, metterli uno accanto all'altro e lasciare che il pubblico li viva dando un senso all'intera vicenda, senza sentirsi manipolato.” La struttura frammentata dell’opera chiama lo spettatore al ruolo attivo di creatore di connessioni e di senso. Questa caratteristica narrativa rimanda allo stile proprio della Nouvelle Vague. Maestri come Truffaut e Godard fecero di questa scelta d’avanguardia il simbolo di rottura col cinema classico. 

Proprio come Wiktor e Zula, il pubblico è partecipe dell’incessante tensione che li unisce e li separa nello spazio e nel tempo. In particolare, gli anni che vanno dal 1952 al 1955, vedono la coppia unirsi e allontanarsi più volte attraversando tre diverse nazioni. L’episodio in cui i due protagonisti si ritrovano in un bar a Parigi dà una sensazione di spaesamento dovuta proprio al repentino cambio di luogo e di tempo. Dopo due anni di lontananza, i due sembrano vivere lo stesso sentimento. La dimensione narrativa del film e quella emotiva dei protagonisti si integrano ancora puntualmente. Seduti a un tavolo, si scambiano poche parole, quasi immobili. Come in precedenza i corpi occupano solo la parte inferiore del quadro, ma questa volta è la malinconia ad opprimerli. Appena ritrovati dovranno nuovamente separarsi ed esprimono la loro tristezza e la loro frustrazione attraverso uno sguardo fisso l’uno negli occhi dell’altra. 
Ancora una volta uno stacco sul nero ci indica un salto temporale. Siamo nel 1955 in Jugoslavia. Durante uno spettacolo della Mazurek, Zula scorge Wiktor in platea. Lo sguardo che li ha sempre uniti più di ogni parola, questa volta, sarà l’unico contatto che avranno. Nella scena conclusiva, Zula canta il brano Dwa serduszka il cui testo sottolinea il loro allontanamento:

Due cuori, quattro occhi,
che piangevano giorno e notte,
occhi neri che piangete
perché incontrarvi non potete.”

PARIGI, 1957
Nella prima scena di questo capitolo Wiktor è impegnato a comporre un brano per la colonna sonora di un film. Si tratta de “I vampiri”, una pellicola italiana del 1957, ambientata a Parigi e diretta da Riccardo Freda insieme a Mario Bava. Il film è considerato il primo Horror italiano anche se i “vampiri” di cui si parla sono tali solo in senso figurato e non appaiono mai fisicamente. Sul tema centrale della sua pellicola Freda si espresse così: “i nostri incubi, in cui si ‘materializzano’ le nostre angosce e i nostri terrori, sono i mostri di oggi: nulla a che vedere con la rappresentazione oggettiva […]. Ai vampiri che ci succhiano idee e sentimenti, ai mostri che, insospettabili, si annidano nei nostri amici e nei nostri conoscenti, in chi ci sfiora soltanto.”
Anche i “vampiri” di Pawlikowski si nascondono a Parigi, tra gli esponenti della nuova classe intellettuale borghese della città. Wiktor vi trova una nicchia in cui rifugiarsi mentre Zuzanna ne sarà vittima: la sua linfa creativa e la sua autenticità verranno tristemente risucchiate. 

Inizialmente i due sembrano poter vivere la loro storia d’amore senza ostacoli. Una sequenza abbraccia poeticamente il momento più felice della coppia: una barca procede lentamente sulla Senna, Wiktor stringe a sé Zuzanna mentre i loro sguardi si perdono nella città che scorre avvolta nel buio, e la luce di un faro ne svela la bellezza e i segreti. Il silenzio è scosso soltanto dal fruscio delle fronde degli alberi e dal lieve brusio degli altri ospiti del traghetto. È ancora lo scorrere di un fiume che rappresenta il sentimento di Wiktor e Zula, qui, per la prima volta, tutt’uno con ciò che li circonda. Poco dopo, sulle note di Is You or Is You Ain’t My Baby? i due ballano ubriachi in un locale quasi vuoto, aggrappati l’una all’altro, liberi da ogni inibizione. 

Nella sequenza successiva Pawlikowski mette in scena la rappresentazione della loro vita ideale, ma è come un incantesimo che si avvera per poi svanire inesorabilmente. Siamo a L’Eclipse, Wiktor accompagna al piano Zuzanna che canta Dwa serduszka in una versione jazz. L’arrangiamento di questa canzone, nel corso della narrazione, è come un vestito che cambia a seconda delle “stagioni” della vita di chi la interpreta. È nudo e autentico per la bambina all’inizio del film, ricco ed elaborato per il coro della Mazurek, intimo e vellutato nella voce di Zula. Durante l’esibizione la macchina da presa le ruota attorno quasi accarezzandola, catturata dal suo magnetismo come tutta la platea, totalmente sedotta dalla sua aura. Il bianco e nero e la fotografia di Łukasz Żal fanno risaltare il suo volto splendidamente illuminato. Il movimento si conclude al termine della canzone con un’inquadratura di Zula di spalle, in primo piano, e la scritta L’Eclipse sullo sfondo, a preannunciare il suo destino. Il nome del locale evoca la celebre pellicola L’eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni. Il regista italiano ha sempre affidato alla narrazione cinematografica il compito di rappresentare gli stati d’animo e le crisi di coscienza dei protagonisti: una peculiarità che ritroviamo anche nella regia di Pawlikowski.

La centralità e la luminosità della figura di Zula sul palco sono in netto contrasto con l’inquadratura che la ritrae, più avanti, nello studio di registrazione. Wiktor la convince a produrre un album di canzoni polacche in francese, nonostante la sua ritrosia. Nel leggere la traduzione di un pezzo, Zula vede il senso del testo radicalmente trasfigurato e sente su di sé la violenza inferta alla sua lingua, il proprio mezzo di espressione. Vestita di nero e scura in volto, il regista la ritrae decentrata, in basso a sinistra nel quadro, mentre Wiktor, separato da un vetro, chiede di fermare la registrazione perché la sua interpretazione “è vuota”.
Wiktor era convinto che donarle una nuova immagine potesse renderla felice. Emblematici di questo tentativo maldestro, seppur in buona fede, sono alcuni dialoghi della sequenza in cui Zula viene “introdotta in società”: mentre si preparano per partecipare ad una festa, lui le chiede di essere sé stessa ma durante la serata ammette di aver raccontato falsi aneddoti su di lei “per darle più spessore”. Zuzanna, scappata da un paese afflitto dalla violenza e dal controllo del Regime, si ritrova “svuotata”, in una società totalmente estranea, senza punti di riferimento. Neppure Wiktor, col suo amore, può darle ciò di cui ha realmente bisogno, la libertà di essere sé stessa. 
Dopo questo episodio ascoltiamo per l’ultima volta Dwa serduszka, il leitmotiv del film. Non proviene dalla viva voce di qualcuno, ma è registrata su un vinile ed è in francese. La trasfigurazione è compiuta ed è definitiva. Nel nuovo disco, un “figlio bastardo”, riecheggia tutta la rabbia di Zula per essersi fatta manipolare e la frustrazione di Wiktor per non essere riuscito a renderla felice. Per entrambi un fardello insostenibile che li porta ad una nuova separazione.

Il ritorno di Zula in Polonia può considerarsi un primo epilogo della storia: una sconfitta. È questo il momento in cui si evince il significato simbolico del titolo stesso del film. La Guerra fredda storicamente fu una guerra fatta di tensioni e minacce psicologiche tra due blocchi con ideologie contrapposte e incompatibili. Queste strutture ideologiche furono difese strenuamente dopo la “liberazione” dei popoli dal Regime Nazista, per dare un’immagine forte, solida e unita dei due schieramenti. La Polonia, intrappolata in questo conflitto latente, non poté esprimere una propria identità svincolata dall’ideologia precostituita. Wiktor e Zula, nel loro piccolo, rappresentano la struggente necessità di autodeterminazione dell’intero popolo polacco. Ma la libertà che inseguono non trova spazio e concretezza in nessun luogo. L’espressione dell’identità nazionale (rappresentata dalla Mazurek) come di quella personale (dei due protagonisti), diventano un oggetto sottomesso a logiche di convenienza politica da un lato e di accettazione sociale dall’altro, che si insinuano nella sfera individuale fino a dissolverla. Il solo modo per salvarsi è non combattere la guerra. E sarà proprio questa la decisione finale di Wiktor e Zula.

POLONIA, 1959
Nei confini di un campo di prigionia l’unica forza che resiste è l’amore. Wiktor ha lasciato Parigi per tornare da Zula, pagando un prezzo altissimo. Tra le mura della prigione si conclude anche la sua carriera da pianista. Con le dita della mano destra spezzate, abbraccia disperatamente Zuzanna. Pawlikowski li mostra uniti, come in un solo un corpo. Sopra le loro teste, sullo sfondo, una finestra sfocata con le sbarre evoca il senso di prigionia dal quale non riescono a liberarsi. 

POLONIA, 1964
Trasfigurata nell’aspetto e annebbiata dai fumi dell’alcool, Zula si esibisce in uno spettacolo estivo. Imprigionata in un abito scintillante e sotto una parrucca bruna, canta un pezzo di musica leggera, mentre nei suoi occhi si leggono solo fragilità e tristezza. Ancora una volta è costretta in un’identità non sua. Dopo lo spettacolo, Wiktor e Zula sono seduti sul pavimento di un bagno, stremati. Un’inquadratura sbilanciata sull’asse sottolinea il momento più sconfortante della loro vita. Con le ultime forze che le rimangono, Zula prega Wiktor di portarla via da quella realtà avvilente, “una volta per tutte”.

La coppia torna nelle terre contadine dove tutto è cominciato e giunge alla chiesa vista all’inizio del film. Gli occhi affrescati sulle mura sono testimoni della cerimonia che si sta per celebrare, così come quelli degli spettatori catturati dallo sguardo in macchina dei due protagonisti. Pawlikowski apre e chiude il film con degli sguardi in macchina: all’inizio quello dei musicisti che hanno il ruolo di introdurre la narrazione e alla fine quello dei protagonisti che seguiamo fino all’ultimo istante. L’intento del regista è quello di dare un respiro universale alla sua storia, coinvolgendo lo spettatore in prima persona per renderlo partecipe del destino dei protagonisti e, attraverso loro, di ogni persona e popolo che insegue l’ideale di Libertà. Tramite la scelta di Wiktor e Zula, Pawlikowski conferisce a questo principio la stessa forza che ha l’Amore nel trascendere ogni ostacolo.

Wiktor e Zula sono seduti su una panchina, circondati dal silenzio della campagna. Nel film sono pochi i momenti in cui viene mostrata la natura: nel pomeriggio che la coppia trascorre sulla riva del fiume e sul traghetto lungo la Senna nella prima notte che passano insieme a Parigi. Sono gli unici momenti in cui si sono sentiti liberi e felici. Nell’ultima scena del film, il soffio di vento che accarezza il campo di spighe (un altro rimando al cinema di Tarkovskij e alle folate di vento improvvise nei campi de Lo specchio), sembra unirli tutti e accompagna Wiktor e Zula “dall’altra parte”, insieme, per sempre. 

L’epilogo drammatico della storia ci regala un momento sospeso in cui i protagonisti guardano il mondo che li circonda come se lo vedessero per la prima volta e per la prima volta ne facessero davvero parte. Il loro sguardo è puro e consapevole ma è rivolto al termine della loro vita. Noi spettatori possiamo coglierlo e adottarlo come un filtro sul nostro tempo, sulle dipendenze e le schiavitù a cui siamo sottomessi, spesso senza accorgercene, come uno strumento per preservare la nostra libertà interiore, presupposto imprescindibile di ogni altra libertà.

 

 

 

 

 

 

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