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Master MICA - Analisi di "It Follows "
Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!

IT FOLLOWS
di Simone Marrone

It Follows è il terzo lavoro professionale del regista David Robert Mitchell dopo il cortometraggio Virgin (2002) e il lungometraggio The Myth of the American Sleepover (2010), scritto e diretto da lui stesso. Il film ha ottenuto 26 vittorie su 44 candidature in festival di cinema di tutto il mondo ed è stato presentato in anteprima il 17 maggio 2014 al Festival di Cannes.

Il film racconta di Jay, una ragazza di 19 anni che frequenta l’Università di Oakland che ha un appuntamento con un ragazzo appena conosciuto, Hugh. I due diventano intimi e, dopo un rapporto sessuale, la giovane viene legata alla sedia e scopre la nuova realtà con cui dovrà avere a che fare: è stata infettata da una “Cosa” (“It” del titolo originale), in grado di assumere ogni volta l’aspetto di una persona diversa che la seguirà costantemente e che, se dovesse raggiungerla, la ucciderebbe.

L’epidemia del XXI secolo
Nel 2021 ci sono stati 1,5 milioni di nuovi contagi da HIV, portando il totale di persone nel mondo costrette a convivere con la malattia a 38,4 milioni e segnando un numero di morti per complicazioni mediche riconducibili all’AIDS a circa 650 mila in un solo anno.

Un mostro sessualmente trasmissibile che segue costantemente il proprio bersaglio, che cerca di raggiungerlo per ucciderlo e, con come unica possibilità di sopravvivenza, la necessaria scelta di fare a propria volta sesso con qualcun altro per passare la Creatura a una prossima vittima. Il mostro altro non è che una rappresentazione del pericolo delle malattie sessualmente trasmissibili.

Il tema centrale del film è il sesso e Jay, la protagonista, è l’emblema della femminilità e del desiderio sessuale in sé, sia per Hugh che per le aspettative dello stesso spettatore: una giovane e attraente ragazza dai capelli biondi e una spiccata femminilità che riesce facilmente ad attirare l’interesse di chi gli è vicino.

L’aspetto della femminilità di Jay è mostrata anche attraverso la scelta dei fiori presenti nel film: la lampada nella sua stanza ha l’aspetto di un bouquet di calle e nella mitologia greca questo fiore era simbolo di purezza e femminilità; una purezza interpretabile da un punto di vista sessuale, visto che il film lascia intendere che l’esperienza con Hugh possa essere la prima per la protagonista e, inoltre, è un mazzo di calle rosa, che stanno a indicare la bellezza delle femminilità nel suo lato più sentimentale e puro. Nella mitologia romana, invece, questo fiore stava a indicare l’amore passionale e la virilità maschile: è a causa di un rapporto sessuale (presumibilmente non protetto), che la vicenda ha inizio. Ecco, quindi, che la calla trova un’altra spiegazione: la virilità maschile è riconducibile a Hugh e l’amore passionale è quello che i due ragazzi consumano sul sedile posteriore dell’auto.

Una seconda scena di sesso nel film si ha quando Jay è in ospedale. A tal proposito, non si può fare a meno di pensare al fatto che finisce due volte in questa struttura, in un luogo che facilmente si può associare, di nuovo, al mondo dell’HIV e dell’AIDS, ed è proprio durante una delle scene in ospedale che notiamo la presenza di altri fiori appoggiati accanto alla protagonista: sono dei narcisi, fiori che i Druidi, i sacerdoti degli antichi Celti, in principio associavano al simbolo della purezza, tuttavia, col passare del tempo si è cominciata a diffondere l’idea che fossero diventati velenosi a causa dell’assorbimento dei pensieri malvagi degli uomini. Nella realtà il narciso è veramente una pianta velenosa e il contatto con la pelle può creare delle forme d’irritazione. Si ha quindi a che fare con una pianta all’apparenza pura ma che nasconde una certa tossicità (una malattia), e il cui contatto può causare problemi di salute. Una metafora sia dei primi malati di AIDS, considerati alla stregua di appestati e untori, ma anche specchio della realtà del film: chi fa sesso con lei si “ammala”.

Il sentirsi incompresi
Quello della distanza tra il mondo dei giovani e quello degli adulti è un altro elemento di analisi di questo film. I ragazzi protagonisti sono perennemente “soli”, i loro genitori sono assenti e, se ci sono, parlano poco o nulla con loro. Tema evidenziato anche dalle scelte di regia, come con la madre di Jay, che non viene mai inquadrata chiaramente né hanno scambi di battute, oppure durante il momento dell’interrogatorio da parte dell’agente di polizia, dove si sottolinea ulteriormente la lontananza che risiede tra queste fasce di età e l’incapacità di poter effettivamente comunicare e ottenere dei risultati utili.

Un discorso valido anche per gli amici di Jamie, in quanto non ci è dato sapere quasi nulla dei genitori di Paul, Yara o Greg, né di come mai possano passare così tanto tempo in loro compagnia (anche fino a tarda notte o sparire per giorni interi), o ancora, è la stessa Jay a dire alla sorella di non voler parlare con la madre della situazione che sta vivendo.

La tematica del non sentirsi capiti è un argomento fortemente attuale e che riguarda un numero sempre maggiore di adolescenti. Secondo uno studio della Pediatric Academic Societies presentato nel 2017 e che si basa sul numero dei ricoveri negli ospedali dei minori tra i 5 e i 17 anni (ma che è comunque facilmente e comprensibilmente applicabile anche alle età limitrofe), nel periodo compreso tra il 2008 e il 2015, il tasso di adolescenti (o bambini) che sono finiti in ospedale per autolesionismo o pensieri suicidi era (e probabilmente è ancora) in aumento.

A tal proposito si può notare come questa esperienza segni ovviamente Jay e di come il suo modo di approcciarsi alla vita diventi più cupo e distaccato. La giovane protagonista assume un atteggiamento diverso e si possono iniziare a notare dei comportamenti riconducibili alle problematiche giovanili accennate poco sopra: quando va a parlare con Hugh viene inquadrata mentre si appoggia dei fili d’erba sulla gamba (autolesionismo e pensieri suicidi); il cibo che ha nella stanza viene inquadrato con della muffa sopra (disturbi alimentari) e, infine, si pone particolare attenzione anche ai medicinali, con la camera che indugia su dei flaconi di pillole o che mostra la scomparsa di una pastiglia che era appoggiata sul vassoio insieme al cibo (abuso di farmaci).

Il passaggio all’età adulta e la pressione sociale
La questione delle problematiche giovanili apre la strada a un’altra tematica fortemente attuale, quella del desiderio di crescere e della pressione sociale che i giovani d’oggi sono costretti a vivere.

Subito dopo aver fatto sesso con Hugh, Jay si lascia andare a un monologo dove parla del desiderio di crescere mentre accarezza un esile fiore bianco cresciuto spontaneamente dall’asfalto. La protagonista è il fiore: lo stuzzica e lo accarezza gentilmente pronunciando quelle battute che altro non sono che una riflessione sulla sua vita, sulla “dolcezza” con cui stava conducendo la sua esistenza e di come provi una certa tenerezza nei confronti della lei precedente, la Jay non ancora donna a tutti gli effetti, e di come la scelta di “crescere” facendo sesso altro non sia che il passaggio finale all’età adulta, con tutte le conseguenti perdite di punti di riferimento e la paura e il pericolo che la vita le riserberà d’ora in avanti.

Ma se Jay sceglie di fare quello che fa è perché si sente come forzata della realtà dei fatti, una pressione sociale che la soffoca e la obbliga a compiere quel passaggio successivo. Il momento di intimità con Hugh è emblematico in tal senso: si svolge in macchina, nello spiazzo di un edificio abbandonato le cui numerose finestre sembrano quasi rappresentare migliaia di occhi pronti a osservare lo svolgersi della situazione e ad emettere un giudizio. La scena è inoltre ben evidenziata da un fascio di luce verticale che illumina il veicolo, un fascio di luce che non esiste nella realtà e che richiama (a detta del regista e del direttore della fotografia), la staged photography di Gregory Crewdson, oltre a indicare come tutta l’attenzione debba essere rivolta a quel momento in particolare.

Ma non solo, Jay è osservata anche prima della scena appena citata, dai ragazzini del quartiere, per esempio. L’interpretazione della Creatura, e quindi della paura/pressione sociale, si rifà a chi sta dietro l’obiettivo. A tal proposito sono numerose le volte in cui le scelte di regia decidono di far spaventare Jay guardando direttamente (o quasi) in macchina.

La vera paura risiede quindi nei confronti dello spettatore, nel giudizio che esso è pronto a dare sul film e, soprattutto, sulle azioni di una povera ragazza innocente.

Detroit oggi
Un modo di raccontare la società di oggi che trova un'altra possibilità di interpretazione nell’aspetto della crisi economica e delle conseguenze che essa crea.

Il film è ambientato nella periferia di Detroit e nel corso della pellicola trova modo di rappresentare diverse volte l’aspetto fatiscente dei vari edifici che si incontrano, elevandoli a protagonisti a tutti gli effetti del film. Il luogo della rivelazione dell’esistenza della Creatura, cioè una ex fabbrica di automobili abbandonata, è un ottimo pretesto per parlare della città in sé.

Detroit è stata a lungo conosciuta nel mondo come la “capitale” dell’industria automobilistica statunitense ma, nel corso deli ultimi 50 anni, è andata incontro a un processo di progressivo declino. L’apice di tale crisi si è verificato nel 2009, con la bancarotta della Chrysler e della General Motors, che ha innescato una spirale discendente che ha rapidamente portato a uno spopolamento della città e alla dichiarazione di fallimento da parte della città, nel luglio 2013, a causa dell’impossibilità di pagare i debiti. Una catena di eventi che ha portato molti ad attribuire l’appellativo di “Ghost Town” a Detroit.

L’Ottavo miglio di cui a un certo punto parla Yara è perfettamente leggibile in tal senso. La 8 Mile Road segna il confine sia sociale che razziale tra la città e la sua periferia: è anche un indicatore sociale, poiché la parte settentrionale della città è abitata in prevalenza da bianchi e individui con un reddito elevato, mentre la parte meridionale da individui con un reddito nettamente più basso e, principalmente, afroamericani. Una spaccatura economica e sociale molto sentita dagli abitanti della città e che ha il suo eco anche nella cultura americana.

Un film, quindi, anche sulle disuguaglianze sociali e su come la maggior parte degli Stati Uniti sia rassegnata all’idea che ignorare il problema, piuttosto che affrontarlo, sia l’unica cosa da fare. Un tentativo di risoluzione, al contrario, viene compiuto dai protagonisti del film ma che, ancora una volta, sembra segnare un ulteriore inutile tentativo di cambiare le cose e che finisce con l’essere l’ennesimo epitaffio sopra una realtà che pare non condurre da un’altra parte che non sia quella in cui già si trova: una città in decadenza, divisa, morta, che altro non è che lo specchio della realtà.

La paura del non visto
Un’America quindi segnata, tagliata in due come lo è la città di Detroit, e che è spaventata. I giovani che quindi vivono sotto una costante pressione, sia emotiva che fisica, che scaturisce dalla paura di essere “presi” da qualcosa (o qualcuno) che non si aspettano.

Una perdita delle certezze che la Creatura è in grado di generare: se tutti possono essere il mostro, allora, chi lo è veramente? Di chi fidarsi? Queste le domande che il film porta a farsi e che sembrano rappresentare la realtà sociale che gli USA sono stati forzatamente portati a vivere negli ultimi decenni. Anni segnati da attacchi terroristici, guerre e una conseguente “lotta al terrore” che ha portato gli americani tutti a riflettere su loro stessi e a domandarsi se veramente potranno mai risentirsi al sicuro.

La continua presenza/assenza della Creatura è perfettamente leggibile in tal senso: una pressione costante e un timore che qualcosa possa accaderci da un momento all’altro, che qualcuno possa sbucare all’improvviso e rompere la tranquillità della nostra vita, l’impossibilità di dirsi veramente al sicuro e il continuo mutare aspetto sono, appunto, la massima rappresentazione della perdita delle certezze.

La paura di cosa non si può vedere, di cosa non è perfettamente comprensibile e che, in una qualche maniera, sembra essere accettabile. Un elemento quindi centrale dell’essere americani, del loro modo di intendere la vita di tutti i giorni, della realtà dei fatti. Si ha paura, è vero, ma non si sa né di cosa, né del perché: il terrorismo ne è stata la causa innescante ma ha ceduto il posto a una concezione ben più astratta rispetto a quella di un nemico tangibile e identificabile.

Un male che affligge gli Stati Uniti e che segna in maniera indelebile l’esistenza contemporanea, una realtà onirica, irreale, che fa “galleggiare” chi ci vive come all’interno di un sogno, un incubo. Un’America, quindi, segnata dalla paura che ha trasformato la mancanza di un bersaglio preciso in un’unica grande tendenza al male e che porta all’inevitabile paura di ciò che non si vede ma che si percepisce essere in agguato.

Conclusioni
It Follows parte da un concetto tanto semplice quanto inquietante, l’essere seguiti, e lo eleva attraverso una regia e una scelta delle musiche che aiutano a enfatizzare ancora di più il senso di oppressione e timore che il film crea sin dai primi istanti.

L’inizio getta immediatamente lo spettatore all’interno della vicenda: l’assenza di titoli di testa favorisce la spettacolarità delle inquadrature iniziali e permette di capire come un “semplice” quartiere borghese possa essere in grado di sviluppare dei ragionamenti che vanno ben oltre quelli apparenti e di come possa essere interpretato come uno specchio della realtà.

La scelta di utilizzare macchine da presa digitali e musica elettronica per la colonna sonora aiutano a sottolineare ulteriormente il senso di straniamento e distacco che circonda i personaggi, una realtà che sembra essere ferma agli anni ‘80 ma che, al tempo stesso, presenta elementi moderni. Un film che racconta la società americana ma anche sé stesso (Hugh e Jamie vanno al cinema a vedere Sciarada, pellicola del 1963 che parla di intrighi e continui scambi di persona, così come diverse volte vengono mostrati dei film in bianco e nero che sembrano anticipare quello che succederà nel corso della vicenda), riflettendo quindi, al tempo stesso, sul cinema in generale (sono diversi i richiami al genere horror, dalle atmosfere fino alla cosiddetta “final girl”, passando per la scelta del nome della protagonista, un omaggio alla Jamie Lee Curtis di Halloween, film che ha fortemente influenzato It Follows) e sulla cultura tutta (numerosi i riferimenti letterari di alto livello che si inseriscono in un film horror pensato, apparentemente, per un pubblico di più giovani).

Ma se, come il regista ha più volte ammesso, ha solo voluto intrappolare i protagonisti all’interno di un incubo dal quale non riescono a uscire non c’è altro da dire e tutte le possibili interpretazioni che uno può trovare altro non sono che supposizioni. Ma se sono solo supposizioni… chi li sta seguendo?
Maximal Interjector
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