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Master MICA - Analisi di "The Florida Project"
Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!

“Celebrate good times” – Un’analisi di The Florida project

di Francesca Arcidiacono

Due bambini sono seduti per terra di fronte ad un muro viola pastello. La camera è ferma, li osserva: non stanno facendo nulla, non stanno giocando, ma la bambina non riesce a stare ferma e giocosamente muove i piedi. La voce fuori campo di un altro bambino richiama la loro attenzione e, tra sguardi eccitati in prospettiva della prossima marachella, partono i titoli di testa sulle note di “Celebration” dei Kool & the gang.
Non è un inizio dissimile da quello di un classico film per famiglie, ma "The Florida project" è un’altra cosa e lo dimostrerà fin dai suoi primi minuti.
Qui, a differenza di come promette la canzone, non ci sono momenti felici da festeggiare: gli unici sono quelli creati dall’immaginazione della piccola protagonista e dei suoi amici che, anche in una situazione fortemente disagiata, riescono a trovare modi per divertirsi e vivere la loro infanzia.

L’infanzia: il posto più felice del mondo
In "The Florida project", la macchina da presa non abbandona mai il punto di vista dei bambini: Sean Baker, il regista, la mantiene bassa e all’interno del loro campo visivo per mostrare in maniera indiretta la realtà in cui vivono, ma che non guardano mai direttamente. Questa viene filtrata dalla loro percezione del mondo che hanno attorno e dalla protezione, seppur minima, degli adulti.
Pertanto, spesso questi ultimi vengono tagliati a metà dall’inquadratura, il cui focus è sempre rivolto a Moonee, la protagonista, e ai suoi amici anche quando questi non sono in scena: le due figure adulte di riferimento di Moonee, la madre Halley e Bobby, il gestore del motel in cui vivono, a volte sono inquadrate dal basso, come se fossero osservate da un bambino e non da una camera da presa. Torreggiano sullo schermo e sullo spettatore così come farebbero su Moonee, Scooty e Jancey.
Lo spettatore assiste allo svolgimento della trama attraverso i loro occhi, che non sempre guardano direttamente agli avvenimenti principali: a volte sono distratti da qualcosa di più divertente da fare oppure li vedono ma non hanno gli strumenti per processarli ed essi per loro sono sfocati. E così lo spettatore assiste alla scena in cui Halley picchia un’altra mamma mantenendo esattamente il punto di vista del bambino in scena: la nuca di Scooty è in primo piano, perfettamente in fuoco, mentre l’azione si svolge fuori fuoco, in parte coperta dalla testa del piccolo. Lui vede tutto, ma è come se osservasse quello che accade attraverso una gabbia di vetro: non è una percezione diretta, ma filtrata dalla mente di un bambino che cerca di elaborare un trauma.
Maggiore è il trauma, maggiore è la distanza della macchina da presa dall’interazione che lo causa: così quando Halley si prostituisce nella stanza del motel, la bambina è in bagno, nella vasca e occupa interamente l’inquadratura che rimane fissa su di lei anche quando l’uomo entra e la vede.
Qui la realtà non è sfocata, addirittura non viene mai mostrata.
Allo stesso modo, quando i servizi sociali vengono a prendere Moonee per portarla via dalla madre, giudicata inidonea a prendersene cura, la bambina scappa. Moonee si allontana da quella situazione traumatica e porta con sé la macchina da presa che la segue con un intento quasi documentaristico, il cui scopo è mostrare qualcosa allo spettatore: quanto determinate situazioni possano incidere su un bambino e quanto quelle stesse esperienze impediscano a chi le vive di emanciparsi, di integrarsi con la società. Infatti, dietro alle tinte pastello, si snoda una forte critica della società americana contemporanea che si articola su tre punti fondamentali: l’incapacità di mantenere dei rapporti affettivi non solo stabili, ma anche funzionali; la netta divisione fra benestanti e persone al limite o sotto la soglia di povertà e il conseguente desiderio di questi ultimi di valicare questa linea di separazione.

Il fallimento della famiglia tradizionale
La prima cosa che viene in mente parlando di cinema americano con protagonisti dei bambini è la famiglia: non a caso spesso per descrivere questi film si usa l’espressione “film per famiglie”. In The Florida Project non è rappresentata neanche una famiglia tradizionale, composta da due genitori e figli.
Anche solo il fatto di chiamare “tradizionale” questo tipo di famiglia nucleare può ormai essere considerato intrinsecamente un errore: è dai tempi di Kramer contro Kramer (Benton, 1979) che il cinema hollywoodiano si impegna a raccontare e normalizzare determinate dinamiche familiari, prima considerate come delle devianze rispetto ad un percorso prestabilito, basato sull’unità della famiglia. Questa rappresentazione segnava anche il riconoscimento di un cambiamento della società statunitense, che già da tempo si era allontanata da quei tipi di modelli. Oggi, il cinema statunitense contemporaneo affronta il tema della separazione sotto una diversa ottica: non più quella di mostrare la normalità di un matrimonio che finisce, ma quella di dimostrare quanto sia impossibile mantenere, nella società attuale, così frenetica, un rapporto matrimoniale solido che, invece, ha bisogno di stabilità e di staticità. Si tratta del tema portante di Marriage Story (Baumbach, 2019), in cui viene mostrata la divisione, sia spaziale che affettiva, di una famiglia. Se qui il racconto è più ottimistico, considerando anche la posizione sociale dei due genitori protagonisti, e si sofferma sull’indissolubile legame affettivo tra di loro e con il figlio, in The Florida Project tutto questo è completamente assente: in un film che gioca sul concetto di separazione e di confine, vengono mostrati un padre, Bobby, e un figlio che non trovano mai un punto di contatto. Sono sempre divisi da qualcosa che viene posizionato in mezzo a loro: prima un materasso, poi un frigorifero. La
divisione fra di loro è netta: non c’è ottimismo, non esiste la possibilità di ricucire un rapporto né tra loro due né, come ribadisce seccamente il figlio, tra Bobby e la sua ex moglie.
Allo stesso tempo, nel cinema statunitense la classica famiglia nucleare è spesso rappresentata come estremamente disfunzionale, anche attraverso il genere. Sono diversi i film horror contemporanei che partono da questa premessa e la portano a conseguenze estreme: sia in “The Witch” (Eggers, 2015) che in “Hereditary” (Aster, 2018), la trama si sviluppa a partire dall’abuso che il personaggio protagonista subisce da parte della sua stessa famiglia. Ma il tratto caratteristico di Sean Baker è il realismo: non usa il genere, anzi lo rifugge. La sua costante ricerca della realtà si riflette anche nelle dinamiche familiari che vengono mostrate nella pellicola: Baker non mostra allo spettatore una famiglia “tradizionale”, perché in questi contesti sociali così frammentati c’è spazio solo per famiglie altrettanto frammentate. Moonee ha solo sua mamma: una ragazza molto giovane, madre di una bambina non così piccola; una stripper che, dopo essere stata licenziata per non essersi prostituita, non riesce a trovare un altro lavoro e finisce per prostituirsi per mantenere la figlia; una madre che non vuole dare delle regole severe a Moonee, una bambina vivace, ma sboccata. Tutto questo porta con sé un giudizio, che è lo stesso che Halley riceve per tutto il film e che alla fine viene messo su carta dai servizi sociali: non è idonea a prendersi cura della figlia. Eppure è una madre affettuosa per Moonee. Tra le due c’è un buon rapporto e Moonee guarda a sua madre, ne imita parole, gesti e comportamenti. Sono l’una lo specchio dell’altra: quando Halley gioca con la
figlia ha la stessa vivacità di Moonee e quando Moonee si mette il costume da bagno e posa per la madre, lo spettatore vede una Halley in divenire, chiedendosi se la sua infanzia sia stata simile a quella che adesso vive sua figlia e se la bambina è destinata a questa stessa vita. Il regista, però, mostrando un rapporto positivo tra madre e figlia, chiama lo spettatore ad una riflessione: Halley è veramente una cattiva madre? È colpa sua se in futuro Moonee ripeterà le sue scelte? Oppure c’è una responsabilità sociale in questo circolo vizioso che le intrappola senza lasciar loro la possibilità e l’opportunità di vivere in una condizione migliore?

Il confine del sogno americano
Quando un film Hollywoodiano presenta allo spettatore un protagonista in una forte situazione di disagio economico siamo portati ad aspettarci una grande storia di resilienza e di perseveranza. È il sogno americano: l’idea che una persona con abbastanza coraggio e determinazione possa raggiungere una migliore condizione sociale ed economica, indipendentemente dalle proprie origini.
In “The Florida Project” questo concetto viene completamente decostruito, già a partire dal titolo. Il “Progetto Florida”, che sembra richiamare ricerche scientifiche top-secret o fantasiose teorie complottistiche, era il nome in codice dato a Disney World durante le fasi iniziali della sua progettazione: il titolo stesso del film non riguarda i protagonisti, ma il simbolo di ricchezza e benessere da cui, nonostante sorga a pochi chilometri da dove vivono, sono lontanissimi.
Anche se nell’intera pellicola non c’è neanche una scena girata al suo interno, il parco è sempre presente, ma distante ed inaccessibile. Ciò che i turisti hanno facilmente, per chi non ha possibilità economiche e posizione sociale è completamente irraggiungibile. Anche la ricerca di surrogati si dimostra fallimentare: il comprensorio abbandonato, che nell’immaginazione dei bambini diventa la casa stregata, brucia e la strada per vedere i fuochi d’artificio è così lunga e complicata che Halley e le bambine sono costrette a fare auto-stop.
Disneyland, inoltre, rappresenta lo sfruttamento delle classi più abbienti nei confronti di coloro che restano al margine della società: le zone più povere intorno al parco diventano terreno di caccia per padri di famiglia in cerca di una distrazione. Le persone che ci vivono vengono guardate dall’alto in basso, vengono chiamate zingari, da quelle più benestanti. La loro determinazione e il loro ingegno sono inutili, anzi gli si rivoltano contro: l’unico risultato che Halley ottiene dall’aver cercato, in modi sia legali sia illeciti, di sollevarsi da una situazione di bisogno economico estremo è essere arrestata e privata di Moonee.
In “The Florida Project” Baker descrive una periferia relegata ai margini della società: la sua vocazione realistica non gli permette di mostrare un ascensore sociale che non esiste. La realtà è ben diversa: il sogno americano è fallito e al suo posto c’è un confine invalicabile. Siamo sempre negli Stati Uniti, ma è come guardare due paesi diversi: la frontiera fra povertà estrema e ricchezza non è dissimile da quella fra gli USA e il Messico ed è guardata con la stessa salvifica speranza da chi è dall’altra parte. Tramite lo sguardo dei bambini e la metafora di Disneyland, Baker compie la stessa operazione di Issa Lopez in Vuelven: proporre una critica sociale, sfruttando l’innato ottimismo e l’immaginazione dei protagonisti come veicolo per la rappresentazione delle loro condizioni di vita. Ma se il primo utilizza il realismo come suo tratto caratteristico, la seconda ricorre al genere. Vuelven è un film horror con un forte elemento fantasy: prende tutti gli stilemi della favola tradizionale e li ribalta, dipingendoli a tinte fosche. In The Florida Project la favola è presente solo dal punto di vista estetico, con un’abbondanza di colori pastello nella palette della pellicola, funzionale a richiamare l’ambiente di Disney World che incombe su tutti i personaggi: i colori brillanti e vivaci esprimono la spensieratezza dell’infanzia, contrastando nettamente con le tematiche raccontate nel film. Vuelven, invece, ha un’estetica urbana, con colori freddi e spenti e una fotografia scura che si accorda agli eventi raccontati. Qui il concetto di favola è centrale esclusivamente dal punto di vista narrativo: non solo vengono sconvolti i canoni classici della fiaba ma le storie che i bambini si raccontano fra di loro diventano un modo per processare la realtà e gli orrori di cui sono testimoni. Anche qui l’immaginifico ha un ruolo fondamentale: se Moonee e i suoi amici rendono i dintorni del motel un parco giochi a cielo aperto, trasformandolo in un Disney World a loro accessibile, Estrella e gli altri sognano l’America di “Singin’ in the rain” e dei talent show. Immaginano un posto in cui essere liberi dalla violenza della realtà in cui vivono e la loro fantasia si dirige verso gli Stati Uniti che, probabilmente, hanno visto in televisione: il sogno americano che la TV ha venduto loro diventa la speranza di una vita migliore.
Nelle scene finali, sia Baker sia Lopez mostrano l’apparenza di un lieto fine: Estrella sconfigge l’antagonista e si incammina libera in un mondo che finalmente è pieno di colori; Moonee e Jancey corrono ed entrano a Disney World clandestinamente, senza che nessuno le fermi. Lo spettatore può ingannare sé stesso e pensare che da quel momento in poi le vite di questi bambini saranno migliori, ma così non può essere. La principessa si ricorda di essere una tigre e vittoriosa si incammina nel suo habitat naturale, finalmente libera: ma Estrella, alla fine del film, rimane una bambina sola, senza genitori e senza amici, in una città che continua ad essere in mano alla delinquenza. Dalle ultime sequenze si può cogliere anche un’altra chiave di interpretazione: Estrella in realtà non ha vinto, ma è morta come tutte le persone a lei care. La libertà, conquistata attraversando una surreale porta che conduce verso un mondo finalmente luminoso, l’ha ottenuta al costo della sua vita.
Allo stesso modo, le scene finali di The Florida Project tirano le fila di tutta la narrazione: girate con un iPhone 6 all’interno del parco divertimenti, ma senza autorizzazione, presentano un montaggio concitato, riflettendo probabilmente i sentimenti dei personaggi nell’entrare finalmente in questo posto che tanto hanno sognato. Ma sono veramente entrate? Oppure è lo spettatore ad aver avuto accesso all’immaginazione delle bambine? Tutto, dal montaggio, alla scelta del regista di girare clandestinamente, fino alla musica extradiegetica (al contrario del resto del film in cui, tranne che durante i titoli di testa, è sempre diegetica) sembra suggerire questo: la camera, che le segue sempre da dietro, ad un certo punto, prima del castello della bella addormentata nel bosco (che segna il vero ingresso al parco), si ferma e le bambine continuano a correre perdendosi fra la folla e nascondendosi alla vista dello spettatore. Se Moonee e Jancey, grazie alla loro infantile ingenuità, riescono ancora a credere alle fantasie vendute dal luogo simbolo del sogno americano, il regista non può condividere questo sentimento puerile: si rifiuta di regalare allo spettatore la possibilità di
illudersi dell’esistenza di un lieto fine e gli mostra solamente la amara realtà che ha intorno a sé.
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