Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!
THE NEON DEMON
di Giulia Caccialanza
Una ragazza è sdraiata in modo scomposto su un divanetto in velluto rosso, il trucco e l’acconciatura sono vistosi, lo sguardo vacuo della morte è incorniciato dai glitter, che riflettono caleidoscopicamente i tanti colori già presenti; all’altezza della gola c’è un taglio da cui del sangue (si scoprirà dopo pochi secondi essere finto), si propaga sulle braccia e sul resto del corpo, lasciandone immacolato solo il volto. È l’epilogo? A mano a mano la macchina da presa si allontana dal soggetto e fa scoprire allo spettatore un allestimento da set fotografico, mostrato frontalmente, come in un’immagine pubblicitaria da rivista, appiattito di ogni tridimensionalità e scandito da una composizione spaziale assolutamente equilibrata e simmetrica. Un fotografo, nella penombra, guarda il suo soggetto con aria sinistra e quasi famelica: sarà lui l’aguzzino della ragazza?
Inizia così The Neon Demon, ultimo lungometraggio del regista danese Nicolas Winding Refn, presentato a Cannes nel 2016. Il film ha ottenuto reazioni decisamente negative, fischi e indignazione per lo più, per quella che è considerata forse la sua opera più disturbante, almeno nella seconda parte, dove alla rappresentazione della violenza (uno dei temi cardine della sua cinematografia), si aggiunge ossimoricamente la rappresentazione dell’irrappresentabile attraverso alcune scene decisamente forti (l’atto di necrofilia e di cannibalismo, su cui si tornerà più avanti). Dopo la consacrazione critica ottenuta attraverso Drive (2011) e l’accoglienza tiepida di Solo Dio perdona (Only God Forgives, 2013), The Neon Demon sarebbe stato un film cruciale per il regista, che decide anziché correre ai ripari con un prodotto più conciliante, di spingersi all’eccesso, realizzando qualcosa di fortemente divisivo, discutibile -e di fatto discusso-, non immediatamente comprensibile, ma comunque in un certo qual modo affascinante non solo per la qualità estetica delle riprese -scelta stilistica su cui vale la pena soffermarsi- ma anche per la sua cripticità, che rendono The Neon Demon una favola antica orrorifica e senza lieto fine, come alcune delle alcune tra le più crude dei fratelli Grimm, riletta in chiave strettamente contemporanea.
1. Una fiaba horror e urbana: tra personaggi bidimensionali e magia nera
Sono diversi gli elementi che il film del regista danese ha in comune con l’impianto fiabesco; una trama molto semplice, quasi scarna, riassumibile in pochissime righe; dei personaggi piatti e bidimensionali, non persone ma simulacri, forme che incarnano dei precisi ruoli narrativi (l’aiutante, l’antagonista, la principessa); la dimensione magica e mitica, rappresentata da ritualità primitive e violente, prefigurazioni che si configurano come vere e proprie visioni premonitrici, simbologia e numerologia (il triangolo rovesciato come simbolo di un demone ma anche rimando stilizzato al pube femminile).
La trama, ridotta ai minimi, termini potrebbe essere la seguente: Jesse (Elle Fanning, all’epoca dell’inizio delle riprese sedicenne) arriva a Los Angeles con il sogno di sfondare nel campo della moda, ma alcune colleghe, invidiose della sua bellezza, ne progettano l’eliminazione. L’archetipo di questo tema è chiaramente quello della fiaba di Biancaneve, in cui la regina cattiva, invidiosa della bellezza della giovane, ne commissiona ad un cacciatore l’uccisione. L’impianto narrativo di base è dunque molto semplice e richiama la formularità scarna di certe tradizioni fiabesche tramandate per via orale, in cui la semplicità è alla base della trasmissione mnemonica. Ad arricchire il tutto c’è però anche il mito di Narciso: Jesse, nel momento della sfilata si innamorerà di se stessa e si bacerà in uno specchio, in una scena fortemente onirica e simbolica, a significare la perdita dell’innocenza e la scoperta del proprio demone interiore, la bellezza.
Di fatto, Jesse è l’unico personaggio che nel corso del film subisce un’evoluzione interna, senza per questo diventare un personaggio tridimensionale; l’evoluzione di Ruby (Jena Malone) è esterna: anche se inizialmente la truccatrice sembra amichevole, il suo cambiamento non è dato da un moto interiore ma piuttosto dalla rivelazione che il regista fa allo spettatore e cioè che lei non è quella che sembra. Per tutti i personaggi vale la regola della bidimensionalità e della piattezza: i dialoghi, ridotti a pochi scambi eloquenti e incisivi, non contribuiscono a fornirci una finestra sull’interiorità dei caratteri, per ciascuno potremmo indicare dunque solo pochi aggettivi descrittivi e risulta facile individuarne la funzione narrativa: Jesse è la protagonista, giovane, bellissima, ingenua e innocente; Ruby e le altre due modelle sono invidiose, violente, pericolose: sono le antagoniste. Gli uomini, per la prima volta in Refn, in secondo piano, hanno un’aria più ambigua ed è più problematico individuarne l’eventuale positività o negatività; è abbastanza chiara tuttavia la loro funzione. Il proprietario del motel (Keanu Reeves) è decisamente negativo e la funzione è quella di essere il catalizzatore del procedere narrativo: il suo agire sarà l’innesco dell’epilogo; Dean (Karl Glusman), il boyfriend di Jesse, sembra essere l’unico portatore di valori positivi (sebbene potremmo pensare che anche lui sia vittima del fascino della ragazza a cui sembra arrendersi senza voler andare oltre la superficie: come gli farà notare lo stilista, se Jesse non fosse stata bella, lui non l’avrebbe né notata né avvicinata) ed è l’unico a considerare negativamente l’ambiente in cui la ragazza si sta introducendo e ad intuirne il marciume: potrebbe essere classificato come aiutante. Anche il secondo fotografo, Jack (Desmond Harrington) può assumere una valenza positiva: è l’aiutante che porta Jesse a raggiungere il suo scopo, esaltandone la bellezza, come una sorta di artista che plasma la sua opera d’arte e riveste simbolicamente il corpo nudo della ragazza di oro, come in una promessa di fortuna futura, sebbene all’inizio abbia anche lui, come tanti altri l’aria di un famelico predatore. Anche la positività di Jack può essere messa in dubbio: in nome di quale principio aiuta Jesse? Avrebbe fatto altrettanto con altre giovani modelle? Quali sono i suoi principi se non l’esaltare l’effimerità della bellezza? Un ultimo personaggio maschile è lo stilista Sarno (Alessandro Nivola), ambiguo e spietato nella sua schiettezza, che con le sue poche parole rivela la logica che sembra governare il mondo della passerella: “La bellezza è il bene più prezioso che abbiamo. Senza bellezza, non siamo nulla […]. La bellezza non è tutto: è l’unica cosa che abbiamo”. Con le sue dichiarazioni, può essere visto come una sorta di mandante super partes che detta le regole che governano il mondo delle protagoniste, le quali a loro volta cercano di entrare nelle sue grazie e compiacerlo.
Difficile poter dire di più di questi personaggi, che proprio come nei canoni fiabeschi della tradizione orale sono descrivibili con pochi aggettivi e individuabili per lo più per la loro funzione narrativa. Solo su Jesse e sulle sue antagoniste si potrebbe dire di più: Jesse non sono è la protagonista, ma incarna l’archetipo della principessa nordica, giovane, bellissima, dai folti capelli biondi e ricci e la pelle diafana. Sola al mondo (altro topos: i genitori sono morti, non ha parenti proprio come una moderna Cenerentola), approda con la sua innocenza e ingenuità a Los Angeles, una città senza peso, sospesa nel tempo e nello spazio, rappresentata da uno skyline illuminato al crepuscolo con una luna gigante e innaturale. Los Angeles sembra essere solo uno sfondo, simulacro rappresentativo di una contemporanea foresta oscura, popolata da insospettabili e impietosi predatori. E proprio questo sono le antagoniste femminili, delle vere e proprie streghe che vorrebbero possedere la bellezza di Jesse e per farlo mettono in atto un vero e proprio rituale sabbatico a base di cannibalismo al chiaro di luna. D’altro canto anche la casa in cui si consuma la morte della giovane, tetra e sinistra, sembra proprio una casa delle streghe non meglio identificata: ricca di specchi, sembra abbandonata e di fatto Ruby dice di esserne “una specie di guardiana”.
Come in ogni fiaba che si rispetti, non può mancare la dimensione magica, rappresentata da un oggetto, lo specchio -ancora una volta un richiamo a Biancaneve- elemento simbolo di bellezza e onnipresente sulla scena. In questo film gli specchi replicano, deformano, amplificano la visione ma anche sono a tutti gli effetti strumenti magici: come in un rito voodoo individuano una personalità e ne determinano le disgrazie, attraverso tracce disegnate con un rossetto sanguigno. Non sarà un caso il fatto che il ferimento di Jesse avverrà con uno specchio, quello rotto in un bagno dalla modella, un’anticipazione, un monito simbolico dell’epilogo: Jesse verrà tradita e uccisa dalla sua stessa bellezza. La dimensione magica si concretizza anche attraverso le anticipazioni, che costellano il film e si manifestano oniricamente, suggerimenti che il regista offre allo spettatore, ma anche suggerimenti che il cosmo decide di dare alla piccola Jesse, come se davvero l’orchestrazione complessiva fosse in mano ad una forza mitica e sovrannaturale. Abbiamo tantissime prefigurazioni di morte: lo shooting iniziale con Dean, in cui Jesse giace sgozzata sul divano, lo svenimento in camera dopo il ferimento dello specchio, in cui Dean le porta dei fiori, l’atto di necrofilia compiuto da Ruby mentre immagina Jesse. Ma c’è anche la prefigurazione di cannibalismo: Jesse è preda (sia in senso sia alimentare che sessuale) e questo è manifestato più volte: tralasciando gli innumerevoli sguardi famelici che le vengono rivolti da quasi tutti i personaggi, il suo essere preda potenziale è prefigurato dal coguaro entrato nella sua stanza (un predatore simile, impagliato, si troverà in un eloquente parallelismo nella “casa delle streghe”) nel momento della sua entrata ufficiale nel mondo della moda, dal suo ferimento con lo specchio rotto in cui la modella Sarah (Abbey Lee) cerca vampirescamente di nutrirsi del suo sangue, ma anche dialogicamente nei primi dieci minuti del film, quando durante la festa le tre ragazze le chiedono “Sei più cibo o sesso? Lei è il dessert, perché è così dolce!”.
Una prefigurazione sia di morte che di stupro è offerta da sogno premonitore che la protagonista compie sull’assalto del proprietario del motel: nel sogno, Keanu Reeves riesce ad entrare nella stanza della ragazza e le infila un coltello in gola, cercando di spingerlo sempre più in profondità: non solo il coltello nella gola richiama infatti la prima scena in cui la ragazza sembra giacere sgozzata su un divano e il finale di morte per dissanguamento nella piscina, ma il coltello è oggetto-feticcio rappresentativo del fallo,, così ritualizzato ed erotizzato. La deflorazione della vergine, che vorrebbe compiere anche Ruby, sembra essere l’unica via possibile di unione e contatto con la sua eterea ed effimera bellezza. L’impossibilità di entrare in contatto intimo con la ragazza rende Jesse costantemente irraggiungibile, come un’immagine, perfetta perché condannata alla immobilità e alla spersonificazione, irreplicabile poiché nelle fotografie di moda l’immagine viene manipolata dal ritocco, bidimensionale perché legata ad una superficialità che non lascia spazio alla terza dimensione. Per queste caratteristiche Jesse sembra essere priva di umanità e assume la configurazione più di un oggetto (un’immagine) o di un’opera d’arte, vista la sua dimensione aurorale, che di una persona. Ma queste caratteristiche la renderebbero al contempo divina: infatti, all’unione carnale più o meno consenziente come rituale di impossessamento della bellezza virginale di Jesse, si unisce il tema del nutrimento antropofagico, anche esso rituale. Quello che viene compiuto su Jesse non è solo un atto di antropofagia ma -forse un richiamo all’eucarestia cristiana- anche e soprattutto di teofagia (dal greco ϑεός “dio” e ϕαγ- “mangiare”) poiché Jesse ha proprietà divine (o, paradossalmente, demoniache): lei ha un quid inspiegabile, una luce interiore data dalla giovinezza, lei “porta il sole anche quando nella stanza è inverno” come le dirà Sarah, ed è unica, in quanto, come detto inizialmente dalla sua agente “vedo 20, 30 ragazze al giorno, ma tu, tu diventerai una star, avrai un successo internazionale”. Jesse viene notata da tutti e in pochissimo tempo catalizza attenzione e venerazione su di sé. È un’immagine perfetta e irraggiungibile e come divinità non è disposta a concedersi sessualmente a nessuno. In quest’ottica il cannibalismo rituale serve dunque per impossessarsi dell’essenza della ragazza (Sarah) ma anche per esorcizzarne lo spirito (Gigi): infatti nel finale mentre Sarah viene notata dal fotografo e assunta per il servizio (in una villa bianca sul mare, che sembra una sorta di paradiso della moda, un terreno per pochi eletti di successo), Gigi rigurgiterà il corpo di Jesse e si ucciderà sventrandosi, come se non fosse in grado di reggerne il peso e dovesse fare uscire il demone.
Un ultimo elemento che rimanda al simbolismo magico riguarda le forme e i numeri e in particolare la forma del triangolo e del numero tre: tre sono le streghe, tre i momenti in cui si vede il sangue di Jesse (il sangue finto dell’incipit, il ferimento, l’epilogo con la caduta nella piscina vuota), tre i lati del triangolo, simbolo del film, tre le iniziali del regista NWR che compaiono come marchio nei titoli di apertura, tre gli specchi con cui Jesse si innamorerà di se stessa, un numero che forse è un nuovo riferimento alla simbologia cristiana della trinità. Il triangolo, d’altro canto, diventa forma simbolica per eccellenza del film: rovesciato a ricordare un diamante o dritto a simboleggiare un antro, compare sullo sfondo nero con colori opposti, rosso o blu, nelle visioni oniriche di Jesse. Il triangolo rappresenta dunque in questo senso il demone che la ragazza scopre di avere in sé e che decide di accogliere e manifestare: da quel momento la dolce e innocente ragazza sperduta della Georgia si trasformerà in un’altra persona, molto più simile alle sue antagoniste di quanto lei stessa possa pensare.
2. Un codice visivo contemporaneo: fotografia di moda, installazione artistica, videoarte
Se la favola che il regista ci propone è così scarna da essere facilmente riconducibile ad una qualsiasi fiaba più classica dei fratelli Grimm, in quali termini possiamo considerare questa opera come emblematica del nostro presente? Quali sono le caratteristiche che rendono The Neon Demon un film strettamente contemporaneo? La risposta può trovarsi nella sua forma: Refn ci racconta una fiaba vecchissima attraverso codici visivi strettamente legati alla contemporaneità, su tutti la fotografia di moda, l’installazione artistica, la videoarte.
Come dichiarato dal regista, The Neon Demon è un’opera che parla di bellezza, della bellezza irraggiungibile che ossessiona il vivere contemporaneo, ma anche della percezione del sé, sempre più esibito e ridotto a immagine grazie ai social network:
Today's culture is obsessed with beauty and the power of beauty.[…] It's not even so much about how we look, but how we want to be viewed or perceived. We no longer even have an image of ourselves; rather, it's an image of our perfect self. […] Perfect beauty is unattainable, yet we all strive for it. It's universal. I'm not saying that's a good thing or a bad thing, but it is a common denominator. And it's moving toward an everyounger age. The window when one is considered beautiful or desirable keeps shrinking. It's never about aging up; it's always moving down. What's going to happen if it continues to flow downward?
The Neon Demon parla della bellezza come valore supremo se non unico, della bellezza come regola ferrea e crudele, che porta un discrimine all’interno della società e che rende disposti a tutto pur di inseguirla. Posto in questi termini, il tema scelto dal regista può sembrare decisamente una critica ad un certo modo di intendere l’immagine e ad una realtà regolata da dettami che hanno come ultimo fine la bellezza stessa, vuota di contenuto. Ma il film può essere visto anche come un tentativo di esorcizzare un demone interiore: è stato infatti dichiarato dal regista come l’opera sia scaturita dall’osservazione della bellezza della moglie, Liv Curfixen, e dalla amara constatazione di non sentirsi altrettanto bello, e questo avrebbe dato origine ad una immedesimazione nei panni della protagonista, su cui è stata poi costruita la sceneggiatura. Un What If dunque: più volte il regista in riferimento a questo film menziona come Jesse potrebbe essere la sua sedicenne interiore e nascosta, entità -secondo l’opinione del regista- presente in ogni uomo.
Tutto questo viene raccontato con una resa estetica che guarda alle forme comunicative del mondo della moda, in cui il regista ha avuto esperienza, realizzando spot commerciali per brand quali Gucci, Lincoln, H&M. Per Gucci firma due spot interessanti, uno con protagonista Blake Lively, che si specchia e si profuma vestita d’oro in un gioco di riflessi e vetrate su New York, il secondo con protagonista James Franco che guida un'auto nel cuore della notte e guarda il mondo dalla stessa vetrata da cui Blake Lively guarda la città. Per lo spot di auto di lusso Lincoln, protagonista è Matthew McConaughey che sfreccia su una vettura in una strada deserta. Lo spot più interessante è forse però quello realizzato per la marca di cognac Hennessy XO: poco più di due minuti di video in cui lo stile onirico e sperimentale del regista è portato allo stremo, con l’accompagnamento elettronico martellante di Cliff Martinez. Lo spot vede rappresentati su schermo volti e corpi rossi e blu su sfondi neri, corpi rivestiti di oro e specchi che amplificano e replicano i punti di vista, visioni isolate poi proposte nel film del 2016. Con la creazione di The Neon Demon, Refn dimostra di avere assorbito pienamente i codici espressivi del mondo della moda: l’effetto estetico che cerca di riprodurre nel film non sembra solo essere quello degli spot commerciali, ma richiama soprattutto quello dei book fotografici e delle riviste, attraverso bidimensionalità, staticità, pose plastiche, colori saturati e in contrasto. Da un punto di vista cromatico, l’esplosione di colore stupisce notevolmente dato il daltonismo del regista, che vede senza problemi il blu e il rosso (colori altamente simbolici: il rosso del sangue e il blu dell’innocenza polarizzati e messi in antitesi nella scena del narcisismo di Jesse) e che per percepire il contrasto coloristico necessita di forti saturazioni e contrasti. A livello compositivo, la ricerca di equilibrio nelle inquadrature è rigorosissima, studiata nei minimi dettagli e quasi maniacale (citiamo anche la scelta del numero di stanza di Jesse al motel, il 212, numero palindromo che richiama anche la numerologia simbolica del 3 e che rovesciato sotto-sopra è uguale a se stesso) e ha come obiettivo la resa di un’immagine esteticamente impeccabile e armonica; quasi ogni fotogramma, se estrapolato singolarmente dal film, appare perfetto esempio di composizione fotografica e in virtù della sua qualità estetica sembra poter vivere di vita propria ed essere in qualche modo autoconclusivo. A dirigere la fotografia è Natasha Braier, che per la prima volta lavora totalmente in digitale e per far sì che le protagoniste avessero dei volti perfetti e una pelle simile alla porcellana sceglie delle lenti morbide, in grado di rarefare colori e luminosità, risolvendo ogni eventuale imperfezione:
Avevo bisogno di lenti morbide per mantenere le attrici il più belle possibile. […] Ho scelto gli Xtals: Il modo in cui rifrangono e diffondono la luce è davvero incredibile. Mantengono i toni della pelle che assomigliano alla porcellana. A seconda di dove proviene la luce, producono anche una serie casuale di razzi e aberrazioni strane che aiutano a rompere la sensazione digitale.
Un altro effetto ricercato è quello della staticità e plasticità dell’immagine, perseguita oltreché con la pianificazione attenta con il cast di pose artefatte, attraverso il rallenti espediente di cui il regista abusa. L’intento è quello di ottenere una narrazione artificiale, che procedesse per blocchi visivi paradigmatici e auto-narrativi più che attraverso il movimento, in modo da richiamare la plasticità delle fotografie delle campagne pubblicitarie. L’idea di fondo di Refn è che l’intero film venga visto dallo spettatore come una rivista di moda da sfogliare, in cui ogni fotogramma rappresenti una fotografia.
Dal linguaggio della video arte Refn prende la resa sinestetica: le immagini suscitano un effetto e una fascinazione al di là del loro significato intrinseco e restituiscono una forma estetica che sia al contempo estatica e contemplativa, che affascini e catturi. Il body-painting seppur meno evidente e declinato più spesso nei toni del make-up è comunque presente: il corpo come oggetto artistico e performativo è di per sé elemento centrale del film nei termini di contemplazione (pensiamo al corpo di Jesse che brilla di una luce propria ed è celebrato in virtù della sua luce interiore) e nei termini di spettacolarizzazione: alla festa a cui la protagonista partecipa assieme alle modelle e alla truccatrice, ad un certo punto l’attenzione si focalizza su uno spettacolo in atto, che altro non è che l’esibizione di un corpo che appare in pose plastiche e artificiali, quasi diviso in sezioni. Un corpo da ammirare e da osservare, spettacolarizzato e ridotto a mero oggetto, un corpo che appare un manichino. Non è un caso che per narrare di bellezza Refn scelga il mondo delle agenzie di moda e delle sfilate e non quello attoriale: sulle passerelle e nei servizi fotografici non sembra esserci spazio per la tridimensionalità, la bellezza è immagine di se stessa e non prevede un’indagine aldilà della sua superficie. Le modelle sono silhouettes, sono immagini di corpi, spogliati delle rispettive individualità e rivestiti dall’impulso creativo di sarti e stilisti: ad essere messa in risalto è la superficie ed è bandita ogni forma di tridimensionalità; quale miglior mondo per rappresentare in modo assoluto il concetto di bellezza, se non questo?
Non da ultimo è da ricordare il marchio con cui il film si apre, quel NWR che appare nei titoli di testa. Se da un lato può apparire come una firma registica volta a certificare retoricamente una qualche garanzia di qualità, mettendo in evidenza la concezione autoriale che il regista ha di se stesso, dall’altro lato non possiamo non pensare che l’acronimo sia un richiamo ad una nota casa di moda francese (Yves Saint- Laurent). La firma iniziale dunque sembra identificare l’opera come un prodotto, offrendo un’occasione di riflessione sulla natura più o meno commerciale dell’opera filmica. Di fatto l’opera, rivestita di un packaging pop, glamour e appetibile e corredata di un marchio di riferimento, porta a far cozzare forma e contenuto in una considerazione di fondo: se da un lato il film condanna il predominio della superficie sull'essenza, dall’altro, lo fa sposandone le tecniche comunicative visuali contemporanee, concentrando tutta la sua efficacia sulla visione e sull’impressione, problematizzando di conseguenza, anche se stessa; e allora si comprende pienamente quanto questa opera possa essere divisiva in ambito critico. Con la seconda parte del film, così estrema con la rappresentazione disturbante di necrofilia e cannibalismo, sembra aprire altri interrogativi: è sufficiente una buona resa estetica per creare un buon film? L’estetica rende ricevibile qualcosa che non lo sarebbe altrimenti in alcun modo? Come nel De Rerum Natura Lucrezio cerca di trasmettere i concetti della dottrina epicurea attraverso la poesia, paragonandola al miele grazie al quale i medici fanno assumere l’assenzio ai bambini, le immagine edulcorate e perfette di The Neon Demon sono in grado di veicolare i contenuti horrorifici del finale? La questione non è di facile risoluzione e non è oggetto di questa analisi. Certo è che quella di Refn è un’operazione strettamente contemporanea che affascina e disturba, indigna e perplime (ed è anche questo il suo obiettivo), stimolando lo spettatore a porsi domande e proprio nell’ambiguo parallelismo tra forma e contenuto, trova la sua forza.
THE NEON DEMON
di Giulia Caccialanza
Una ragazza è sdraiata in modo scomposto su un divanetto in velluto rosso, il trucco e l’acconciatura sono vistosi, lo sguardo vacuo della morte è incorniciato dai glitter, che riflettono caleidoscopicamente i tanti colori già presenti; all’altezza della gola c’è un taglio da cui del sangue (si scoprirà dopo pochi secondi essere finto), si propaga sulle braccia e sul resto del corpo, lasciandone immacolato solo il volto. È l’epilogo? A mano a mano la macchina da presa si allontana dal soggetto e fa scoprire allo spettatore un allestimento da set fotografico, mostrato frontalmente, come in un’immagine pubblicitaria da rivista, appiattito di ogni tridimensionalità e scandito da una composizione spaziale assolutamente equilibrata e simmetrica. Un fotografo, nella penombra, guarda il suo soggetto con aria sinistra e quasi famelica: sarà lui l’aguzzino della ragazza?
Inizia così The Neon Demon, ultimo lungometraggio del regista danese Nicolas Winding Refn, presentato a Cannes nel 2016. Il film ha ottenuto reazioni decisamente negative, fischi e indignazione per lo più, per quella che è considerata forse la sua opera più disturbante, almeno nella seconda parte, dove alla rappresentazione della violenza (uno dei temi cardine della sua cinematografia), si aggiunge ossimoricamente la rappresentazione dell’irrappresentabile attraverso alcune scene decisamente forti (l’atto di necrofilia e di cannibalismo, su cui si tornerà più avanti). Dopo la consacrazione critica ottenuta attraverso Drive (2011) e l’accoglienza tiepida di Solo Dio perdona (Only God Forgives, 2013), The Neon Demon sarebbe stato un film cruciale per il regista, che decide anziché correre ai ripari con un prodotto più conciliante, di spingersi all’eccesso, realizzando qualcosa di fortemente divisivo, discutibile -e di fatto discusso-, non immediatamente comprensibile, ma comunque in un certo qual modo affascinante non solo per la qualità estetica delle riprese -scelta stilistica su cui vale la pena soffermarsi- ma anche per la sua cripticità, che rendono The Neon Demon una favola antica orrorifica e senza lieto fine, come alcune delle alcune tra le più crude dei fratelli Grimm, riletta in chiave strettamente contemporanea.
1. Una fiaba horror e urbana: tra personaggi bidimensionali e magia nera
Sono diversi gli elementi che il film del regista danese ha in comune con l’impianto fiabesco; una trama molto semplice, quasi scarna, riassumibile in pochissime righe; dei personaggi piatti e bidimensionali, non persone ma simulacri, forme che incarnano dei precisi ruoli narrativi (l’aiutante, l’antagonista, la principessa); la dimensione magica e mitica, rappresentata da ritualità primitive e violente, prefigurazioni che si configurano come vere e proprie visioni premonitrici, simbologia e numerologia (il triangolo rovesciato come simbolo di un demone ma anche rimando stilizzato al pube femminile).
La trama, ridotta ai minimi, termini potrebbe essere la seguente: Jesse (Elle Fanning, all’epoca dell’inizio delle riprese sedicenne) arriva a Los Angeles con il sogno di sfondare nel campo della moda, ma alcune colleghe, invidiose della sua bellezza, ne progettano l’eliminazione. L’archetipo di questo tema è chiaramente quello della fiaba di Biancaneve, in cui la regina cattiva, invidiosa della bellezza della giovane, ne commissiona ad un cacciatore l’uccisione. L’impianto narrativo di base è dunque molto semplice e richiama la formularità scarna di certe tradizioni fiabesche tramandate per via orale, in cui la semplicità è alla base della trasmissione mnemonica. Ad arricchire il tutto c’è però anche il mito di Narciso: Jesse, nel momento della sfilata si innamorerà di se stessa e si bacerà in uno specchio, in una scena fortemente onirica e simbolica, a significare la perdita dell’innocenza e la scoperta del proprio demone interiore, la bellezza.
Di fatto, Jesse è l’unico personaggio che nel corso del film subisce un’evoluzione interna, senza per questo diventare un personaggio tridimensionale; l’evoluzione di Ruby (Jena Malone) è esterna: anche se inizialmente la truccatrice sembra amichevole, il suo cambiamento non è dato da un moto interiore ma piuttosto dalla rivelazione che il regista fa allo spettatore e cioè che lei non è quella che sembra. Per tutti i personaggi vale la regola della bidimensionalità e della piattezza: i dialoghi, ridotti a pochi scambi eloquenti e incisivi, non contribuiscono a fornirci una finestra sull’interiorità dei caratteri, per ciascuno potremmo indicare dunque solo pochi aggettivi descrittivi e risulta facile individuarne la funzione narrativa: Jesse è la protagonista, giovane, bellissima, ingenua e innocente; Ruby e le altre due modelle sono invidiose, violente, pericolose: sono le antagoniste. Gli uomini, per la prima volta in Refn, in secondo piano, hanno un’aria più ambigua ed è più problematico individuarne l’eventuale positività o negatività; è abbastanza chiara tuttavia la loro funzione. Il proprietario del motel (Keanu Reeves) è decisamente negativo e la funzione è quella di essere il catalizzatore del procedere narrativo: il suo agire sarà l’innesco dell’epilogo; Dean (Karl Glusman), il boyfriend di Jesse, sembra essere l’unico portatore di valori positivi (sebbene potremmo pensare che anche lui sia vittima del fascino della ragazza a cui sembra arrendersi senza voler andare oltre la superficie: come gli farà notare lo stilista, se Jesse non fosse stata bella, lui non l’avrebbe né notata né avvicinata) ed è l’unico a considerare negativamente l’ambiente in cui la ragazza si sta introducendo e ad intuirne il marciume: potrebbe essere classificato come aiutante. Anche il secondo fotografo, Jack (Desmond Harrington) può assumere una valenza positiva: è l’aiutante che porta Jesse a raggiungere il suo scopo, esaltandone la bellezza, come una sorta di artista che plasma la sua opera d’arte e riveste simbolicamente il corpo nudo della ragazza di oro, come in una promessa di fortuna futura, sebbene all’inizio abbia anche lui, come tanti altri l’aria di un famelico predatore. Anche la positività di Jack può essere messa in dubbio: in nome di quale principio aiuta Jesse? Avrebbe fatto altrettanto con altre giovani modelle? Quali sono i suoi principi se non l’esaltare l’effimerità della bellezza? Un ultimo personaggio maschile è lo stilista Sarno (Alessandro Nivola), ambiguo e spietato nella sua schiettezza, che con le sue poche parole rivela la logica che sembra governare il mondo della passerella: “La bellezza è il bene più prezioso che abbiamo. Senza bellezza, non siamo nulla […]. La bellezza non è tutto: è l’unica cosa che abbiamo”. Con le sue dichiarazioni, può essere visto come una sorta di mandante super partes che detta le regole che governano il mondo delle protagoniste, le quali a loro volta cercano di entrare nelle sue grazie e compiacerlo.
Difficile poter dire di più di questi personaggi, che proprio come nei canoni fiabeschi della tradizione orale sono descrivibili con pochi aggettivi e individuabili per lo più per la loro funzione narrativa. Solo su Jesse e sulle sue antagoniste si potrebbe dire di più: Jesse non sono è la protagonista, ma incarna l’archetipo della principessa nordica, giovane, bellissima, dai folti capelli biondi e ricci e la pelle diafana. Sola al mondo (altro topos: i genitori sono morti, non ha parenti proprio come una moderna Cenerentola), approda con la sua innocenza e ingenuità a Los Angeles, una città senza peso, sospesa nel tempo e nello spazio, rappresentata da uno skyline illuminato al crepuscolo con una luna gigante e innaturale. Los Angeles sembra essere solo uno sfondo, simulacro rappresentativo di una contemporanea foresta oscura, popolata da insospettabili e impietosi predatori. E proprio questo sono le antagoniste femminili, delle vere e proprie streghe che vorrebbero possedere la bellezza di Jesse e per farlo mettono in atto un vero e proprio rituale sabbatico a base di cannibalismo al chiaro di luna. D’altro canto anche la casa in cui si consuma la morte della giovane, tetra e sinistra, sembra proprio una casa delle streghe non meglio identificata: ricca di specchi, sembra abbandonata e di fatto Ruby dice di esserne “una specie di guardiana”.
Come in ogni fiaba che si rispetti, non può mancare la dimensione magica, rappresentata da un oggetto, lo specchio -ancora una volta un richiamo a Biancaneve- elemento simbolo di bellezza e onnipresente sulla scena. In questo film gli specchi replicano, deformano, amplificano la visione ma anche sono a tutti gli effetti strumenti magici: come in un rito voodoo individuano una personalità e ne determinano le disgrazie, attraverso tracce disegnate con un rossetto sanguigno. Non sarà un caso il fatto che il ferimento di Jesse avverrà con uno specchio, quello rotto in un bagno dalla modella, un’anticipazione, un monito simbolico dell’epilogo: Jesse verrà tradita e uccisa dalla sua stessa bellezza. La dimensione magica si concretizza anche attraverso le anticipazioni, che costellano il film e si manifestano oniricamente, suggerimenti che il regista offre allo spettatore, ma anche suggerimenti che il cosmo decide di dare alla piccola Jesse, come se davvero l’orchestrazione complessiva fosse in mano ad una forza mitica e sovrannaturale. Abbiamo tantissime prefigurazioni di morte: lo shooting iniziale con Dean, in cui Jesse giace sgozzata sul divano, lo svenimento in camera dopo il ferimento dello specchio, in cui Dean le porta dei fiori, l’atto di necrofilia compiuto da Ruby mentre immagina Jesse. Ma c’è anche la prefigurazione di cannibalismo: Jesse è preda (sia in senso sia alimentare che sessuale) e questo è manifestato più volte: tralasciando gli innumerevoli sguardi famelici che le vengono rivolti da quasi tutti i personaggi, il suo essere preda potenziale è prefigurato dal coguaro entrato nella sua stanza (un predatore simile, impagliato, si troverà in un eloquente parallelismo nella “casa delle streghe”) nel momento della sua entrata ufficiale nel mondo della moda, dal suo ferimento con lo specchio rotto in cui la modella Sarah (Abbey Lee) cerca vampirescamente di nutrirsi del suo sangue, ma anche dialogicamente nei primi dieci minuti del film, quando durante la festa le tre ragazze le chiedono “Sei più cibo o sesso? Lei è il dessert, perché è così dolce!”.
Una prefigurazione sia di morte che di stupro è offerta da sogno premonitore che la protagonista compie sull’assalto del proprietario del motel: nel sogno, Keanu Reeves riesce ad entrare nella stanza della ragazza e le infila un coltello in gola, cercando di spingerlo sempre più in profondità: non solo il coltello nella gola richiama infatti la prima scena in cui la ragazza sembra giacere sgozzata su un divano e il finale di morte per dissanguamento nella piscina, ma il coltello è oggetto-feticcio rappresentativo del fallo,, così ritualizzato ed erotizzato. La deflorazione della vergine, che vorrebbe compiere anche Ruby, sembra essere l’unica via possibile di unione e contatto con la sua eterea ed effimera bellezza. L’impossibilità di entrare in contatto intimo con la ragazza rende Jesse costantemente irraggiungibile, come un’immagine, perfetta perché condannata alla immobilità e alla spersonificazione, irreplicabile poiché nelle fotografie di moda l’immagine viene manipolata dal ritocco, bidimensionale perché legata ad una superficialità che non lascia spazio alla terza dimensione. Per queste caratteristiche Jesse sembra essere priva di umanità e assume la configurazione più di un oggetto (un’immagine) o di un’opera d’arte, vista la sua dimensione aurorale, che di una persona. Ma queste caratteristiche la renderebbero al contempo divina: infatti, all’unione carnale più o meno consenziente come rituale di impossessamento della bellezza virginale di Jesse, si unisce il tema del nutrimento antropofagico, anche esso rituale. Quello che viene compiuto su Jesse non è solo un atto di antropofagia ma -forse un richiamo all’eucarestia cristiana- anche e soprattutto di teofagia (dal greco ϑεός “dio” e ϕαγ- “mangiare”) poiché Jesse ha proprietà divine (o, paradossalmente, demoniache): lei ha un quid inspiegabile, una luce interiore data dalla giovinezza, lei “porta il sole anche quando nella stanza è inverno” come le dirà Sarah, ed è unica, in quanto, come detto inizialmente dalla sua agente “vedo 20, 30 ragazze al giorno, ma tu, tu diventerai una star, avrai un successo internazionale”. Jesse viene notata da tutti e in pochissimo tempo catalizza attenzione e venerazione su di sé. È un’immagine perfetta e irraggiungibile e come divinità non è disposta a concedersi sessualmente a nessuno. In quest’ottica il cannibalismo rituale serve dunque per impossessarsi dell’essenza della ragazza (Sarah) ma anche per esorcizzarne lo spirito (Gigi): infatti nel finale mentre Sarah viene notata dal fotografo e assunta per il servizio (in una villa bianca sul mare, che sembra una sorta di paradiso della moda, un terreno per pochi eletti di successo), Gigi rigurgiterà il corpo di Jesse e si ucciderà sventrandosi, come se non fosse in grado di reggerne il peso e dovesse fare uscire il demone.
Un ultimo elemento che rimanda al simbolismo magico riguarda le forme e i numeri e in particolare la forma del triangolo e del numero tre: tre sono le streghe, tre i momenti in cui si vede il sangue di Jesse (il sangue finto dell’incipit, il ferimento, l’epilogo con la caduta nella piscina vuota), tre i lati del triangolo, simbolo del film, tre le iniziali del regista NWR che compaiono come marchio nei titoli di apertura, tre gli specchi con cui Jesse si innamorerà di se stessa, un numero che forse è un nuovo riferimento alla simbologia cristiana della trinità. Il triangolo, d’altro canto, diventa forma simbolica per eccellenza del film: rovesciato a ricordare un diamante o dritto a simboleggiare un antro, compare sullo sfondo nero con colori opposti, rosso o blu, nelle visioni oniriche di Jesse. Il triangolo rappresenta dunque in questo senso il demone che la ragazza scopre di avere in sé e che decide di accogliere e manifestare: da quel momento la dolce e innocente ragazza sperduta della Georgia si trasformerà in un’altra persona, molto più simile alle sue antagoniste di quanto lei stessa possa pensare.
2. Un codice visivo contemporaneo: fotografia di moda, installazione artistica, videoarte
Se la favola che il regista ci propone è così scarna da essere facilmente riconducibile ad una qualsiasi fiaba più classica dei fratelli Grimm, in quali termini possiamo considerare questa opera come emblematica del nostro presente? Quali sono le caratteristiche che rendono The Neon Demon un film strettamente contemporaneo? La risposta può trovarsi nella sua forma: Refn ci racconta una fiaba vecchissima attraverso codici visivi strettamente legati alla contemporaneità, su tutti la fotografia di moda, l’installazione artistica, la videoarte.
Come dichiarato dal regista, The Neon Demon è un’opera che parla di bellezza, della bellezza irraggiungibile che ossessiona il vivere contemporaneo, ma anche della percezione del sé, sempre più esibito e ridotto a immagine grazie ai social network:
Today's culture is obsessed with beauty and the power of beauty.[…] It's not even so much about how we look, but how we want to be viewed or perceived. We no longer even have an image of ourselves; rather, it's an image of our perfect self. […] Perfect beauty is unattainable, yet we all strive for it. It's universal. I'm not saying that's a good thing or a bad thing, but it is a common denominator. And it's moving toward an everyounger age. The window when one is considered beautiful or desirable keeps shrinking. It's never about aging up; it's always moving down. What's going to happen if it continues to flow downward?
The Neon Demon parla della bellezza come valore supremo se non unico, della bellezza come regola ferrea e crudele, che porta un discrimine all’interno della società e che rende disposti a tutto pur di inseguirla. Posto in questi termini, il tema scelto dal regista può sembrare decisamente una critica ad un certo modo di intendere l’immagine e ad una realtà regolata da dettami che hanno come ultimo fine la bellezza stessa, vuota di contenuto. Ma il film può essere visto anche come un tentativo di esorcizzare un demone interiore: è stato infatti dichiarato dal regista come l’opera sia scaturita dall’osservazione della bellezza della moglie, Liv Curfixen, e dalla amara constatazione di non sentirsi altrettanto bello, e questo avrebbe dato origine ad una immedesimazione nei panni della protagonista, su cui è stata poi costruita la sceneggiatura. Un What If dunque: più volte il regista in riferimento a questo film menziona come Jesse potrebbe essere la sua sedicenne interiore e nascosta, entità -secondo l’opinione del regista- presente in ogni uomo.
Tutto questo viene raccontato con una resa estetica che guarda alle forme comunicative del mondo della moda, in cui il regista ha avuto esperienza, realizzando spot commerciali per brand quali Gucci, Lincoln, H&M. Per Gucci firma due spot interessanti, uno con protagonista Blake Lively, che si specchia e si profuma vestita d’oro in un gioco di riflessi e vetrate su New York, il secondo con protagonista James Franco che guida un'auto nel cuore della notte e guarda il mondo dalla stessa vetrata da cui Blake Lively guarda la città. Per lo spot di auto di lusso Lincoln, protagonista è Matthew McConaughey che sfreccia su una vettura in una strada deserta. Lo spot più interessante è forse però quello realizzato per la marca di cognac Hennessy XO: poco più di due minuti di video in cui lo stile onirico e sperimentale del regista è portato allo stremo, con l’accompagnamento elettronico martellante di Cliff Martinez. Lo spot vede rappresentati su schermo volti e corpi rossi e blu su sfondi neri, corpi rivestiti di oro e specchi che amplificano e replicano i punti di vista, visioni isolate poi proposte nel film del 2016. Con la creazione di The Neon Demon, Refn dimostra di avere assorbito pienamente i codici espressivi del mondo della moda: l’effetto estetico che cerca di riprodurre nel film non sembra solo essere quello degli spot commerciali, ma richiama soprattutto quello dei book fotografici e delle riviste, attraverso bidimensionalità, staticità, pose plastiche, colori saturati e in contrasto. Da un punto di vista cromatico, l’esplosione di colore stupisce notevolmente dato il daltonismo del regista, che vede senza problemi il blu e il rosso (colori altamente simbolici: il rosso del sangue e il blu dell’innocenza polarizzati e messi in antitesi nella scena del narcisismo di Jesse) e che per percepire il contrasto coloristico necessita di forti saturazioni e contrasti. A livello compositivo, la ricerca di equilibrio nelle inquadrature è rigorosissima, studiata nei minimi dettagli e quasi maniacale (citiamo anche la scelta del numero di stanza di Jesse al motel, il 212, numero palindromo che richiama anche la numerologia simbolica del 3 e che rovesciato sotto-sopra è uguale a se stesso) e ha come obiettivo la resa di un’immagine esteticamente impeccabile e armonica; quasi ogni fotogramma, se estrapolato singolarmente dal film, appare perfetto esempio di composizione fotografica e in virtù della sua qualità estetica sembra poter vivere di vita propria ed essere in qualche modo autoconclusivo. A dirigere la fotografia è Natasha Braier, che per la prima volta lavora totalmente in digitale e per far sì che le protagoniste avessero dei volti perfetti e una pelle simile alla porcellana sceglie delle lenti morbide, in grado di rarefare colori e luminosità, risolvendo ogni eventuale imperfezione:
Avevo bisogno di lenti morbide per mantenere le attrici il più belle possibile. […] Ho scelto gli Xtals: Il modo in cui rifrangono e diffondono la luce è davvero incredibile. Mantengono i toni della pelle che assomigliano alla porcellana. A seconda di dove proviene la luce, producono anche una serie casuale di razzi e aberrazioni strane che aiutano a rompere la sensazione digitale.
Un altro effetto ricercato è quello della staticità e plasticità dell’immagine, perseguita oltreché con la pianificazione attenta con il cast di pose artefatte, attraverso il rallenti espediente di cui il regista abusa. L’intento è quello di ottenere una narrazione artificiale, che procedesse per blocchi visivi paradigmatici e auto-narrativi più che attraverso il movimento, in modo da richiamare la plasticità delle fotografie delle campagne pubblicitarie. L’idea di fondo di Refn è che l’intero film venga visto dallo spettatore come una rivista di moda da sfogliare, in cui ogni fotogramma rappresenti una fotografia.
Dal linguaggio della video arte Refn prende la resa sinestetica: le immagini suscitano un effetto e una fascinazione al di là del loro significato intrinseco e restituiscono una forma estetica che sia al contempo estatica e contemplativa, che affascini e catturi. Il body-painting seppur meno evidente e declinato più spesso nei toni del make-up è comunque presente: il corpo come oggetto artistico e performativo è di per sé elemento centrale del film nei termini di contemplazione (pensiamo al corpo di Jesse che brilla di una luce propria ed è celebrato in virtù della sua luce interiore) e nei termini di spettacolarizzazione: alla festa a cui la protagonista partecipa assieme alle modelle e alla truccatrice, ad un certo punto l’attenzione si focalizza su uno spettacolo in atto, che altro non è che l’esibizione di un corpo che appare in pose plastiche e artificiali, quasi diviso in sezioni. Un corpo da ammirare e da osservare, spettacolarizzato e ridotto a mero oggetto, un corpo che appare un manichino. Non è un caso che per narrare di bellezza Refn scelga il mondo delle agenzie di moda e delle sfilate e non quello attoriale: sulle passerelle e nei servizi fotografici non sembra esserci spazio per la tridimensionalità, la bellezza è immagine di se stessa e non prevede un’indagine aldilà della sua superficie. Le modelle sono silhouettes, sono immagini di corpi, spogliati delle rispettive individualità e rivestiti dall’impulso creativo di sarti e stilisti: ad essere messa in risalto è la superficie ed è bandita ogni forma di tridimensionalità; quale miglior mondo per rappresentare in modo assoluto il concetto di bellezza, se non questo?
Non da ultimo è da ricordare il marchio con cui il film si apre, quel NWR che appare nei titoli di testa. Se da un lato può apparire come una firma registica volta a certificare retoricamente una qualche garanzia di qualità, mettendo in evidenza la concezione autoriale che il regista ha di se stesso, dall’altro lato non possiamo non pensare che l’acronimo sia un richiamo ad una nota casa di moda francese (Yves Saint- Laurent). La firma iniziale dunque sembra identificare l’opera come un prodotto, offrendo un’occasione di riflessione sulla natura più o meno commerciale dell’opera filmica. Di fatto l’opera, rivestita di un packaging pop, glamour e appetibile e corredata di un marchio di riferimento, porta a far cozzare forma e contenuto in una considerazione di fondo: se da un lato il film condanna il predominio della superficie sull'essenza, dall’altro, lo fa sposandone le tecniche comunicative visuali contemporanee, concentrando tutta la sua efficacia sulla visione e sull’impressione, problematizzando di conseguenza, anche se stessa; e allora si comprende pienamente quanto questa opera possa essere divisiva in ambito critico. Con la seconda parte del film, così estrema con la rappresentazione disturbante di necrofilia e cannibalismo, sembra aprire altri interrogativi: è sufficiente una buona resa estetica per creare un buon film? L’estetica rende ricevibile qualcosa che non lo sarebbe altrimenti in alcun modo? Come nel De Rerum Natura Lucrezio cerca di trasmettere i concetti della dottrina epicurea attraverso la poesia, paragonandola al miele grazie al quale i medici fanno assumere l’assenzio ai bambini, le immagine edulcorate e perfette di The Neon Demon sono in grado di veicolare i contenuti horrorifici del finale? La questione non è di facile risoluzione e non è oggetto di questa analisi. Certo è che quella di Refn è un’operazione strettamente contemporanea che affascina e disturba, indigna e perplime (ed è anche questo il suo obiettivo), stimolando lo spettatore a porsi domande e proprio nell’ambiguo parallelismo tra forma e contenuto, trova la sua forza.