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Milano Film Festival, giorno 4 - Ouroboros: la fine come inizio

Domenica 1 ottobre presso il MUDEC verrà proiettato Ouroboros, primo lungometraggio di Basma Alisharif, un omaggio alla striscia di Gaza e alla possibilità di una speranza oltre la disperazione.

La regista palestinese crea lavori complessi, che riescono a toccare quella delicata zona tra politico e poetico. Anche se non tutto il suo lavoro affronta direttamente la questione palestinese, si può facilmente intuire l’influenza che essa ha avuto nello sviluppo del pensiero artistico, in quanto gran parte dell’opera affronta temi come l’instabilità della presenza e dell’assenza, i limiti del linguaggio e la necessità della memoria contro il dimenticato.

Malgrado affrontino argomenti ostici, le opere di Alsharif mostrano spesso un senso dell’umorismo a tratti amaro, a cui viene dato ampio spazio in Ouroboros. Questa sua ultima pellicola unisce l’affascinante all’assurdo, immaginando un mondo in cui la Palestina è una nazione pienamente riconosciuta e gli immigrati possano muoversi liberamente attraverso le frontiere. È un film sperimentale di 74 minuti che trasforma la distruzione di Gaza in una storia d’amore fallimentare e porta lo spettatore a chiedersi cosa significhi essere umani quando l’umanità è fallita.

La prima parte del film si muove all’indietro, contrapponendo una Gaza in apparenza splendente a un territorio martoriato dalle bombe, capace di irrompere bruscamente sullo schermo come un brutto sogno. L’enigmatico personaggio centrale, interpretato da Diego Marcon, sembra muoversi facilmente nello spazio e nel tempo, come se non appartenesse a nessun luogo in particolare; il protagonista è così capace di intraprendere un viaggio circolare, utile per liberarsi dal suo dolore.

Sfruttando le potenzialità del cinema, Alsharif avvolge il suo attore di una libertà quasi sovrumana che gli permette in un solo giorno di muoversi attraverso il deserto del Mojave, l’antica città di Matera, un castello in Bretagna e le rovine della Striscia di Gaza. Gli accurati suoni di Federico Chiari e le ipnotiche musiche di Yann Gourdon e di Bunny People seguono le immagini, girate sia in pellicola che in digitale, accompagnate in varie lingue dalla voce over.

Come il mitico Ouroboros, simbolo del serpente che mangia la propria coda, il film guarda al tempo e non si cura dello sviluppo del suo protagonista, al punto che lo spettatore vede concludersi il viaggio senza averlo minimamente conosciuto. Il film è un percorso all’interno di uno spazio utopico dove la fine coincide con l’inizio, capace di approfondire il tema dell’eterno ritorno e delle modalità in base alle quali andiamo avanti quando tutto è perduto.

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