Anticipato dal dialogo fra Emanuele Sacchi e Francesca Monti attorno alla monografia Richard Linklater. La deriva del sogno americano (Bietti), nel tardo pomeriggio di domenica 1 ottobre ha avuto luogo il secondo appuntamento letterario in programma per la quarta giornata del Milano Film Festival: la presentazione de L’invenzione del reale. Conversazioni su un altro cinema (Contrasto) di Dario Zonta, una raccolta di dieci interviste ad autori del Bel Paese che, ciascuno seguendo una personale poetica, hanno deciso di addentrarsi lungo un percorso lontano dalle logiche di sistema.
Animato dallo stesso Zonta, produttore creativo di Foucoammare (2016) e co-autore del programma radiofonico Hollywood Party, e da Roberto Minervini, cui è dedicato un intero capitolo, l’incontro si è sviluppato come una stimolante chiacchierata sulle relazioni che vengono a instaurarsi tra cinema e realtà, ma ha anche assunto i contorini di un’attenta analisi del metodo drammaturgico del regista marchigiano.
A partire dalle dichiarazioni inerenti alla fase di pre-produzione, la descrizione dell’approccio del firmatario di Stop the Pounding heart (2013) si è rivelata, infatti, quanto meno singolare, affiancando a un’approfondita ricerca scenica la riconferma di una troupe selezionata in quasi dieci anni di carriera e limitata a un numero massimo di dieci elementi, con l’obiettivo di avvicinarsi a ciascuna realtà senza invaderla ma, anzi, divenendone compartecipe.
Ulteriore peculiarità dei set di Minervini, difatti, è la costante presenza dei familiari del regista e delle maestranze coinvolte, un piccolo nucleo affettivo che viene a saldarsi con la comunità preesistente, preservando così la dimensione umana del viaggio cinematografico ed evitando la dispersione empatica che una routine più asettica genererebbe nei confronti del soggetto che si sta riprendendo.
«Il regista deve essere un sottoprodotto della persona» ha spiegato il cineasta «Fare un film è un privilegio, è un po’ come prendersi una vacanza, una pausa dalla vita; non significa solo portare a casa le riprese. Girare è una situazione assolutamente secondaria rispetto a fare un film a macchina spenta… Nei miei set voglio che si crei una condizione per cui sia difficile andarsene via, desidero che si provi quel senso di distaccamento fanciullesco che si aveva quando i genitori tornavano a prenderti in colonia».
Questo approccio “rilassato”, tuttavia, è quanto di più distante dal territorio dell’amatoriale si possa immaginare e ciò è testimoniato dall’abnegazione richiesta in fase di ripresa, prevedendo quotidianamente quattro ore pressoché ininterrotte di camera a spalla e di registrazione sonora in presa diretta. Un coinvolgimento fisico totale, enfatizzato dall’assenza di tagli nei ciak – che «durano quanto dura un nastro o una SD» – e riflesso nell’osservazione più dei corpi che non dei dialoghi, nella preservazione di un elemento «tattile, quasi d’assalto», seppur calmierato mediante una puntuale ricerca estetica.
«Non esistono segreti parlando del mio cinema, c’è quella pura attenzione che ha a che fare con la sensibilità di ciascuno. Io periodicamente non mi presento alle riprese e lascio che la mia troupe giri ciò che vuole e come lo vuole… questo è importante perché la mia carica emotiva potrebbe diventare un ostacolo, rischierei di dominare la scena con il mio ruolo di autore».
La democrazia del sistema è esibita nella totale assenza di qualsiasi forma di classificazione gerarchica dei ruoli – «Il cinema è uno dei pochi ambienti in cui l’abuso e l’insulto sono ammessi, ma il regista tiranno merita di essere preso a schiaffi» -, nella continua ricerca del coinvolgimento degli stessi soggetti ritratti e nell’ostracismo verso qualsiasi tecnicismo, giacché il ricorso a un simile linguaggio distanzierebbe la cinepresa dalla realtà indagata. Minervini, infatti, ritiene i personaggi co-autori della pellicola e instaura un incessante dialogo con loro, cercando di istituire un rapporto non amichevole, ma fiduciario, nel tentativo di abbattere le barriere vigenti, al fine di vedersi concedere momenti di inedita e assoluta intimità.
«Cosa mi spinge a lavorare così? Non so, probabilmente un’affermazione di Mike D’Antoni – allenatore NBA e stella anni ’80 dell’Olimpia Milano – secondo cui chiedere a un giocatore di smettere di tirare a canestro solo perché sta sbagliando equivarrebbe a privarlo delle sue sicurezze. Questo concetto lo trascino nel mio cinema, perché se io intervenissi dettando tempi e modalità di ripresa questi personaggi non esisterebbero più. Preferisco girare due ore di materiale inutile pur di mantenere la loro integrità».