Gli ultimi quattro episodi della seconda stagione di Mindhunter vedono gli agenti Bill Tench (Holt McCallany) e Holden Ford (Jonathan Groff) fare progressivamente i conti, in maniera sempre più frontale, con la sparizione e l’uccisione di bambini ad Atlanta. Un tragico evento il cui racconto nella serie guarda da vicino ai fatti realmente accaduti nella capitale della Georgia tra il 1979 e il 1981, quando sparirono e vennero assassinate 28 persone, quasi tutti minori e adolescenti.
Alla regia, dopo il produttore esecutivo della serie David Fincher e Andrew Dominik, troviamo un mestierante come Carl Franklin ma il risultato non si schioda dalla compattezza inalienabile di un prodotto in grado di fare sui serial killer e sui loro crimini un discorso sfacciatamente metafisico: un attraversamento delle evidenze naturali e psicopatologiche del loro operato che diventa meccanismo minuziosissimo di indagine nelle pieghe dell’America e del suo rapporto condiviso, sociale e storico-politico con la violenza e con i suoi artefici.
Il tutto sviluppato, anche nei quattro segmenti narrativi che chiudono le porte alla seconda stagione, con le sapienti e sotterrane armi del thriller e del procedural, in virtù di un costante pedinamento verbale a suon di interrogatori che sono lenti, inesorabili ingranaggi di svelamento della complessità. Non tutto è appassionante allo stesso livello di tensione e impatto, anche perché le zavorre maggiori di Mindhunter emergono quando il privato dei personaggi (la storia d’amore dell’agente Wendy, in questo caso) muove l'asse dal focus pubblico quasi per timore di guardare in faccia il Male, troppo a fondo e troppo oltre, ma è innegabile la sofisticatezza di una scrittura e di una regia che dosano millimetricamente dettagli e rifrazioni, riflessi e accorgimenti massimi e minimi.
A questo giro abbiamo il giudizio di metodo e sul metodo (la riflessione della stessa Wendy sulle proprie interviste) e la necessità di un setaccio da applicare alla realtà e alle sue potenziali piste che si scontra però con le esigenze sorde e cieche degli apparati burocratici, ma anche il solito, sconcertante spaccato sulla manipolazione biunivoca degli indagatori e degli indiziati (di uno in particolare, stavolta). Un insieme di elementi capace di mostrarci con chiarezza come ogni interazione, di qualsiasi segno e valore dialogico, si equipari sempre e comunque con un pervertimento del reale. Vedere di più dopotutto non coincide quasi mai e quasi per niente, com’è noto, col vedere meglio.
Mindhunter conclude così, per il momento, la sua immersione nel cuore nero dell’America spostandosi in avanti nella storia degli Stati Uniti (dagli anni ’60 e ’70 arriviamo alle soglie degli eighties, aspettando cosa ci riserverà il futuro di una serie che ha vita lunga davanti a sé) e soffermandosi con estrema attenzion sui paradossi di un odio razziale ancora percepito come costituzionale. Ma soprattutto sezionando chirurgicamente, in definitiva, l'ontologia di un malessere che, come anche alcuni indimenticabili serial killer della prima stagione avevano già confermato, continua a fare i conti con un dialogo interrotto con l’infanzia. Zona d’ombra impossibile da profilare che, in virtù della sua non mappabilità e della sua eterea concretezza, sfuggente eppure pesante come un macigno, rimane, a prescindere da tutto, la croce primaria da portare.
Davide Stanzione