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NEWS Master MICA - Analisi de "La belle époque"
Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!

LA BELLE ÉPOQUE (2019)
di Simone Granata

I film sono più armoniosi della vita… Non ci sono intoppi nei film, non ci sono rallentamenti. I film vanno avanti come treni nella notte.”                                                                              François Truffaut – Effetto notte 

 Proprio come un treno nella notte si muove La belle époque, film del regista francese Nicolas Bedos, percorrendo i binari meta-cinematografici di Effetto notte per poi sviluppare una riflessione originale sul tempo e sul cinema, sul potere del ricordo e dell’immaginazione, e sulla dimensione virtuale dell’individuo nella contemporaneità.

Il film di Bedos, presentato fuori concorso alla 72ª edizione del Festival di Cannes nel 2019 ed accolto da una standing ovation durata diversi minuti al termine della proiezione, ha come protagonista Victor, disilluso disegnatore quasi settantenne, che desidera tornare a quel giorno di primavera del 1974 in cui aveva conosciuto la sua futura moglie (che lo ha appena mollato), innamorandosene subito perdutamente. Grazie a una strana agenzia potrà rivivere in maniera fittizia quel momento, attraverso un’esperienza a metà strada tra lo spettacolo cinematografico e un gioco virtuale di realtà aumentata.

Nicolas Bedos, al suo secondo lungometraggio dopo Un amore sopra le righe (nella versione originale Mr & Mme Adelman), in cui si era già avventurato nel racconto di un amore che si dipana nel tempo, torna sui suoi temi prediletti, alzando però decisamente l’asticella, non solo a livello di regia e sceneggiatura ma anche di cast, riunendo due mostri sacri del cinema francese quali Fanny Ardant e Daniel Auteuil.

La scelta del 1974 come anno in cui il protagonista del film vorrebbe tornare per rivivere il primo incontro con l’amore della sua vita, non è casuale ma legata principalmente a due fattori, come spiega lo stesso Bedos in un’intervista.

In primo luogo, si tratta di uno degli anni più rappresentativi di quel decennio per la Francia, caratterizzato da grande fervore politico e culturale. Le elezioni presidenziali del 1974, ad esempio, suscitarono grande coinvolgimento, facendo registrare il tasso di astensione più basso di sempre, e i due candidati al ballottaggio si resero protagonisti del primo dibattito televisivo “all’americana”. Non a caso, nel film non mancano battute o riferimenti alla politica (come quando Victor definisce sua moglie “politicamente bizzarra, da giovane votava comunista, poi avrebbe finito per votare Sarkozy”). Sul piano culturale, curiosamente, proprio nella primavera di quell’anno la pellicola meta-cinematografica Effetto notte, malinconico omaggio di Truffaut al meraviglioso mondo del cinema, veniva premiata con l’Oscar al Miglior Film Straniero.

L’altra ragione alla base della scelta dell’anno è di natura biografica: Daniel Auteuil e Fanny Ardant hanno infatti la stessa età dei personaggi che interpretano nel film, e dunque anche per loro il 1974 rappresenta pienamente la fase della giovinezza, e in particolare il momento in cui stavano per iniziare le rispettive carriere nel cinema. 

Indubbiamente, le toccanti interpretazioni di Daniel Auteuil e Fanny Ardant, capaci di passare con maestria e naturalezza dal registro comico a quello drammatico, rappresentano uno dei punti di forza del film, così come la performance attoriale di una luminosa Doria Tillier (compagna di Bedos anche nella vita, e con il quale aveva già recitato in Un amore sopra le righe). 

Ad un cast in stato di grazia, Bedos aggiunge una regia e una sceneggiatura brillanti, realizzando una commedia raffinata e malinconica, un film che affronta il tema della nostalgia e del ricordo, certo, ma rivela anche lo spirito frenetico e complesso della contemporaneità.

Quattro personaggi in crisi d’identità 
All’inizio del film, i quattro personaggi principali si trovano tutti nel mezzo di una crisi esistenziale, ben evidenziata dal ritmo serrato, scandito da battute fulminanti, e dal movimento continuo e caotico della macchina da presa.

Victor (Daniel Auteuil) è un fumettista depresso che ha superato i sessant’anni, disoccupato perché il giornale per cui lavorava non esiste più “sulla carta” ma solo nella versione online, dove le sue vignette satiriche non trovano più spazio; si sente vecchio e a disagio con il presente “digitale”, detesta l’invasione della tecnologia nella quotidianità, e rimpiange gli anni Settanta perché “a tavola la gente si parlava invece di guardare i telefonini” (ma soprattutto perché lui era più giovane e felice). Al pari di quella professionale, anche la sua vita sentimentale è a pezzi: il rapporto con la moglie Marianne (Fanny Ardant) si trascina ormai logoro, tra frequenti attriti e incomprensioni, e i due sembrano non avere più nulla in comune. 

Lei, infatti, preferisce guardare avanti e al contrario di Victor non crede che si stesse meglio prima, quando tutti fumavano al chiuso e “le sembrava di vivere in un posacenere gigante”. Marianne è una psicoanalista con un’ossessione per la modernità, usa un visore 3D per addormentarsi, e collabora con il figlio (creatore di contenuti per una piattaforma digitale che fa il verso a Netflix) a un programma che, tramite un algoritmo, consente di tenere sedute terapeutiche online. Insomma, è alla costante ricerca di nuovi stimoli che possano allontanare l’idea della vecchiaia, sia in ambito lavorativo sia privato (tradisce anche il marito con il suo ex-amico e datore di lavoro, che per giunta lo ha licenziato). Dietro questa apparente corazza e lo sguardo sempre proiettato al futuro, però, si cela un malessere di fondo nel vedere prosciugarsi l’amore coniugale con lo scorrere del tempo: Marianne non sopporta più Victor ma neppure sé stessa, e in una scena si prende a schiaffi da sola perché detesta com’è diventata.

Anche l’altra coppia protagonista del film vive una relazione tormentata e sull’orlo di una crisi di nervi. 

Antoine (Guillaume Canet) è un imprenditore eccentrico alla guida di una strana società parigina chiamata “Les Voyageurs du Temps” (“I Viaggiatori del Tempo”), che offre ai propri clienti, dietro cospicuo pagamento, la possibilità di rivivere in maniera fittizia un momento del passato a loro scelta, ricostruendolo in una sorta di set cinematografico, con scenografie, musiche, attori, comparse, e perfino effetti speciali. Antoine si comporta da regista nevrotico nel dirigere con cura maniacale le sue finzioni sceniche, e vorrebbe controllare allo stesso modo la sua storia con Margot (Doria Tillier), finendo inevitabilmente per arrivare allo scontro. 

Margot è un’attrice delusa dal fatto di recitare in teatri semi-vuoti, e non sopporta il lato ossessivo di Antoine, sia come compagno sia come regista. Quando lavora per lui nelle rappresentazioni sceniche dei “Viaggiatori del Tempo”, vorrebbe avere la libertà di improvvisare e non si sente apprezzata. La sua fragilità richiama in un certo senso quella teoria sulla figura dell’attore, spiegata in una scena di Effetto notte, secondo la quale è assolutamente normale che gli attori siano vulnerabili, poiché tutti hanno paura di essere giudicati, e gli attori si sentono giudicati costantemente, sia sul set che nella vita. 

Il punto di svolta nella trama si ha quando Victor viene cacciato di casa da Marianne dopo l’ennesimo litigio, e decide di accettare il regalo del figlio, amico di Antoine, sperimentando un finto tuffo nel passato tramite l’agenzia dei “Viaggiatori del Tempo”. Victor potrebbe evadere in qualsiasi periodo storico, magari vestendo i panni di un personaggio celebre, ma non ha dubbi: vuole rivivere il 16 maggio 1974, il giorno in cui incontrò per la prima volta Marianne in un café di Lione chiamato “La belle époque”. 

Da questo momento realtà e finzione iniziano a sovrapporsi, in una messinscena gioiosa sorretta dal potere del ricordo e dell’immaginazione, e capace di travolgere i personaggi e lo spettatore, come una giostra dalla quale non si vorrebbe più scendere.

 Il gioco meta-cinematografico e la sovrapposizione tra realtà e finzione
L’aspetto meta-cinematografico emerge sin dall’inizio del film, che si apre con la scena di una serie televisiva creata dal figlio di Victor, dove degli attori interpretano attori che poi si rivelano criminali, in un susseguirsi immediato di colpi di scena che anticipa già la struttura a più livelli narrativi.

A partire poi dall’ingresso di Victor nella sua personale “belle époque”, col sottofondo musicale di I’m a Believer dei The Monkees, realtà e finzione cominciano a mescolarsi fino a diventare dei vasi comunicanti, in un’alternanza continua ed effervescente che coinvolgerà tutti i personaggi principali.

Quando nel finto café, allestito sul set cinematografico, Victor incontra Margot nel ruolo della giovane Marianne, l’inquadratura si fa più stabile e la luce diventa calda e soffusa, avvolgendolo nella dolcezza del ricordo. Naturalmente, lui sa che è tutta finzione ma non gli importa, perché le sue emozioni sono reali (“So che è stato tutto finto, ma è stato comunque piacevole” dice Victor a Margot al termine del loro primo appuntamento). Victor si presta inizialmente al gioco con ironia, divertendosi a spezzare talvolta la rappresentazione scenica con battute e correzioni agli attori che recitano sul set, ma poi si lascia trasportare dalla fantasia mista al ricordo, rimanendo colpito dal fascino e dalla bellezza di Margot, tanto da decidere di tornare a rivivere l’esperienza anche nei giorni successivi. 

La stessa Margot condivide un’implicazione profonda con la messinscena, perché ha l’occasione di evadere dalla realtà problematica e colmare le mancanze affettive che caratterizzano la relazione con Antoine. Quest’ultimo, nel frattempo, è collegato con lei tramite auricolare e cerca di dirigerla dalla cabina di regia, rappresentando anche una proiezione del regista Bedos, compagno nella vita reale dell’attrice Doria Tillier che interpreta Margot. 

In questo gioco di specchi, che procede incessantemente alternando realtà e finzione, i contorni dei personaggi si confondono mentre le loro storie si intrecciano. 

Emblematico è il momento in cui, durante una festa in stile hippie anni ’70 ricostruita sul set, Margot balla in maniera sensuale sopra un tavolo: la scena ci viene infatti mostrata sia dal punto di vista di Victor sia da quello di Margot, e infine dal punto di vista di Antoine, offrendoci in rapida successione la prospettiva di tutti e tre i personaggi, ognuno dei quali resta sospeso in una dimensione che unisce reale e virtuale, vita e spettacolo. 

Antoine, probabilmente, vorrebbe essere come il personaggio di Truffaut in Effetto notte, ovvero un regista sempre in controllo (almeno apparente) della situazione, per il quale il film viene prima di tutto, ma non riesce a rimanere distaccato, facendosi coinvolgere sul piano emotivo, e per questa ragione interrompe costantemente la finzione, parlando tramite auricolare a Margot del loro rapporto sentimentale mentre lei sta recitando la parte di Marianne.

Così, quando tra Victor e Margot, distesi su un letto girevole e inebriati dal fumo e dall’alcol, scappa un bacio che Antoine aveva rimosso dalla “sceneggiatura”, quest’ultimo si precipita sulla scena spinto dalla gelosia, ma intanto i due sono già scappati dal set. Ecco allora che emergono l’insoddisfazione e le contraddizioni di Antoine: da un lato non può fare a meno delle proprie rappresentazioni, essendo l’unico modo attraverso cui tendere a quella perfezione così difficile da raggiungere nella vita; dall’altro lato, è consapevole di come nulla in quella messinscena sia reale, nemmeno il whisky nel bicchiere. “È tutto finto!” ripete più volte alla sua assistente riferendosi ai vari oggetti nella stanza, fino ad indicare anche sé stesso, e nella versione in lingua originale il termine francese utilizzato, “bidon”, ha un’accezione ulteriormente negativa che rimanda alla farsa e all’inganno (“C’est tout bidon... ça c’est bidon, ça c’est bidon, ça c’est bidon… Moi je suis bidon!”).

Nonostante la tempesta interiore vissuta da Antoine, lo spettacolo deve comunque andare avanti, è lui il primo a volerlo, e già dal mattino dopo è di nuovo pronto per rimettersi al timone e condurre la nave in porto. Sempre citando Effetto notte, nella realizzazione di un film arriva sempre un momento in cui “i problemi personali non contano più, il cinema regna”.

Il rapporto con la dimensione virtuale nell’era digitale
Uno dei temi che maggiormente lega il film alla contemporaneità è senza dubbio la presenza di una forte componente digitale che condiziona le vite dei personaggi, influenzandone sia la percezione del tempo che passa, sia le relazioni sentimentali. 

Mentre Marianne abbraccia la modernità e le nuove tecnologie con l’illusione di riuscire a fermare il tempo, Victor ha un atteggiamento di rifiuto, e la scarsa familiarità col digitale lo fa sentire ancora più anziano. Ma non è solo una questione di età anagrafica. La stessa Margot, dopo aver baciato Victor, che quasi incredulo le sussurra “Ma cosa fai? Io sono vecchio”, gli risponde in maniera altrettanto sincera “Anch’io”. 

D’altronde, la sensazione d’invecchiare in fretta è abbastanza diffusa nell’epoca attuale tra le generazioni giovani, già sottoposte a notevoli pressioni di realizzazione sociale, e rappresenta un tratto caratteristico della contemporaneità. In un certo senso, è come se il continuo e sempre più rapido progresso tecnologico, e l’inevitabile aggiunta alla nostra esistenza di una dimensione virtuale, con le sue infinite possibilità, abbiano dilatato la percezione del tempo vissuto. 

Sul piano dei sentimenti, la realtà digitale funge spesso da filtro o da ostacolo nelle relazioni tra i personaggi. Questo aspetto viene evidenziato sia in chiave comica, quando ad esempio Marianne indossa i suoi occhiali 3D perfino durante un rapporto sessuale con l’amante, sia in chiave problematica, come quando Antoine guarda Margot recitare attraverso lo schermo di un tablet collegato a una telecamera, e poi con lo zoom touch-screen ingrandisce l’immagine del suo volto (mentre lei sta piangendo a causa del loro rapporto), cioè compie un gesto che potrebbe essere replicato in maniera analoga sui vari social network o sulle applicazioni di messagistica (Instagram, Facebook, WhatsApp…). 

Sulla base di queste premesse, la rappresentazione scenica a cui prendono parte i personaggi del film La belle époque può essere letta in due modi, solo apparentemente in contraddizione, ma in realtà correlati tra loro.

Da un lato, si tratta di una risposta a una relazionalità sempre più digitale che Victor non accetta, e per questo sceglie di immergersi in una dimensione sì virtuale ma anche fisica, concreta e teatrale. Non si innamora, quindi, di un sistema operativo come il protagonista del film Her di Spike Jonze, ma si innamora (seppur soltanto per pochi giorni) di una donna in carne ed ossa come Margot. 

Dall’altro lato, invece, la finzione creata ad arte dall’agenzia di Antoine può essere considerata una forma estrema di realtà virtuale a cui, in fondo, la stessa digitalizzazione crescente dei rapporti umani predispone ad aderire. Non è un mistero che in un prossimo futuro la realtà virtuale potrebbe diventare la nuova piattaforma social, e che Mark Zuckerberg stia investendo miliardi nelle tecnologie immersive da diversi anni (le prime sperimentazioni di un universo social in VR, come Facebook Horizon, sono già in atto). Secondo il proprietario e fondatore di Facebook, tra un decennio le applicazioni dei social network avranno interfacce che permetteranno di “tele-trasportarsi” comodamente insieme ad altri utenti in uno spazio virtuale condiviso. Questa trasformazione digitale non è un processo lontano nel tempo ma avviene sotto i nostri occhi, ed è stata ulteriormente accelerata dalla pandemia di Covid-19, che ha alimentato una progressiva ibridazione tra eventi fisici ed eventi virtuali.

In un mondo dove il confine tra reale e virtuale si fa sempre più labile, e in cui già oggi possono nascere rapporti profondi tramite i media digitali, non deve quindi meravigliare il fatto che dall’incontro tra Victor e Margot scaturiscano emozioni autentiche. Esse, peraltro, non dipendono dal contesto di finzione dichiarata ma dalla sensibilità e dallo stato emotivo dei due personaggi.

Nel caso di Victor, la realtà virtuale in cui decide di tuffarsi rappresenta uno spazio in cui poter rimettere ordine nella propria vita. A differenza del protagonista di The Truman Show, che viveva dentro un reality senza saperlo, Victor è sempre consapevole di essere all’interno di una finzione, che anzi lui stesso ha contribuito a creare. Infatti, tutta la ricostruzione scenica allestita da Antoine (dall’ambientazione, ai personaggi, ai dialoghi, allo sviluppo narrativo) si basa sulle indicazioni fornite da Victor all’agenzia dei “Viaggiatori del Tempo”, e sulle sue vecchie illustrazioni, disegnate in quei giorni in cui aveva conosciuto Marianne.

Victor non è quindi una pedina nelle mani di Antoine, proprio perché la realtà virtuale in cui sono coinvolti è stata creata da entrambi, ed entrambi possono modificarla. Victor si muove con libertà e consapevolezza come in una sorta di gioco virtuale di realtà aumentata, svolgendo un ruolo attivo nel dirigere la messinscena: quando un personaggio sbaglia una battuta, lo corregge; quando vuole la pioggia perché gli sembra di ricordarla (anche se nel momento originale vissuto nel passato forse non c’era), lui la chiede. Del resto, come scriveva Gabriel García Márquez nella sua autobiografia Vivere per raccontarla:

La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”. 

Allo stesso tempo, Victor è pronto ad assecondare i momenti di improvvisazione di Margot o di variazione dei fatti rispetto alla sua memoria. In sintesi, non si limita a ricordare ma comincia anche a creare.

C’è qualcosa, però, di cui Victor non è a conoscenza. Per aiutarlo a risolvere la sua crisi, Antoine ha infatti escogitato un piano: dopo avergli fatto recuperare l’entusiasmo perduto, ripetendo per diversi giorni l’incantesimo di quel tuffo nostalgico nel passato, cambia l’attrice che interpreta Marianne da giovane, spingendo così Victor a cercare Margot fuori da quella finzione; a quel punto, gli fa credere che Margot sia una donna sposata e madre di famiglia, confidando che questo brusco ritorno alla realtà possa indurlo a tornare da Marianne per salvare la loro relazione.

Le parole rivolte da Margot a Victor per dissolvere le sue illusioni durante il loro ultimo incontro, sono però allo stesso tempo dirette anche ad Antoine, che la sta seguendo attraverso una telecamera:

Non possiamo riscrivere le persone come vorremmo che rimanessero per sempre, non possiamo dirigere tutto… dobbiamo accettare di essere delusi, criticati, prevedibili, meno brillanti… perché altrimenti viviamo solo di inizi… Alcune bozze vengono bene, ma ci perdiamo la vita vera

L’interpretazione commossa di Margot ci offre l’occasione di riflettere ancora sulla complessità e le contraddizioni del rapporto tra reale e virtuale nel mondo contemporaneo. 

Mai come oggi, nell’era dei social media, si tende a prediligere la relazione virtuale come rifugio in cui poter mostrare la versione migliore di noi stessi e ricevere quella migliore degli altri. Ma l’idea di vivere i sentimenti prevalentemente in maniera virtuale, nell’illusione di cristallizzarli e conservarli, e nella speranza di evitare il rischio di rimanere delusi, è destinata a scontrarsi con la necessità di tornare prima o poi alla dimensione reale, anche a costo di accettarne i limiti e le imperfezioni, pur di non “perdersi la vita vera”.

Il potere salvifico del cinema e la riconciliazione finale
Alla fine, questa ricerca proustiana del tempo e dell’amore perduti da parte di Victor ha dato i suoi frutti. Rigenerato dai momenti trascorsi in quella surreale finzione, Victor torna a brillare anche nella vita: il cambiamento dettato dall’euforia è evidente non solo nel look (la lunga barba bianca lascia il posto a un paio di baffi neri, eleganti e curati) ma soprattutto nell’animo.

Nel caso di Victor, la nostalgia non si è rivelata solamente uno sguardo rivolto al passato ma, unita all’immaginazione, si è trasformata in slancio creativo per il presente. Victor riprende così a disegnare, raffigurando Margot negli stessi luoghi (non importa se reali o di finzione) in cui aveva ritratto Marianne. Inoltre, accetta l’offerta del figlio di lavorare con lui per la piattaforma digitale, inizialmente solo per potersi permettere le costose serate nella sua personale “belle époque”, ma poi scoprendosi entusiasta, e riuscendo così ad aprirsi a quella modernità da cui si sentiva escluso.

Una frase di Antoine, nell’unico momento in cui si rivolge a Victor, tramite auricolare, esprime bene il potere salvifico del cinema a cui La belle époque vuole rendere omaggio: “Ho l'impressione che tu stia meglio di quando sei arrivato e per me questo non ha prezzo”.  Una frase che potrebbe benissimo essere rivolta anche allo spettatore del film.

La riflessione a cui giunge il regista Bedos, in fondo, è la stessa che Sorrentino ne La grande bellezza fa pronunciare a uno dei suoi personaggi (guarda caso un regista anche lui): 

Il cinema è una possibilità di sopravvivenza di fronte alla delusione che ci offre tutti i giorni la realtà. La verità è che il tempo, determinando la realtà, la rende deludente. Ma la realtà, se scomposta, frantumata, ripensata, rielaborata, può diventare un grande spettacolo. Solo in una circostanza la realtà rivaleggia con il cinema… Quando irrompe l’amore.”

La belle époque ci offre dunque anche una celebrazione commovente dell’amore per il cinema, che si sublima nel finale in cui le due coppie protagoniste del film si ricompongono.

Victor e Marianne, in particolare, si danno appuntamento nel (finto) café “La belle époque” dove tutto era iniziato. Mentre i due sono seduti, uno dei figuranti che aveva preso parte alla messinscena nei giorni precedenti si avvicina al loro tavolo. “È uno strano mestiere il nostro”, dice a Marianne, parlando del suo lavoro di attore. A sorridergli in risposta è proprio l’attrice Fanny Ardant, facendo cadere per un attimo la quarta parete del film, per poi rimettersi subito nei panni del personaggio.

Marianne confessa a Victor di essersi pentita del proprio comportamento e di sentire tremendamente la sua mancanza, nel frattempo ha lasciato l’amante e riscoperto la bellezza anti-digitale dei disegni su carta del marito, che in maniera quasi simbolica hanno riacceso quella passione che sembrava essere smarrita.

Mentre sta per andare via da sola, come da copione, Marianne suggerisce a Victor con grazia ritrovata di chiamarla al più presto, perché il tempo passa (“Le temps passe, vous savez”).

Ecco quindi il tema inziale del film che ritorna, ma stavolta declinato in maniera completamente diversa. L’atteggiamento conflittuale e problematico rispetto allo scorrere del tempo lascia spazio ad un’accettazione più matura e malinconica. Adesso Victor è davvero pronto per riprendere in mano la propria vita.

Prima di chiedere il conto e uscire dal locale, sulle note della splendida Always something there to remind me di Dionne Warwick, c’è però ancora il tempo per un’ultima, fugace, visione di Margot seduta a un tavolo. L’immagine, frutto della fantasia e del ricordo, dura appena un istante, poi sparisce. Victor sorride, spegne la sigaretta, forse sia per lui sia per lo spettatore è proprio l’ora di lasciare La belle époque e rientrare nella vita reale.

Peccato, saremmo rimasti volentieri un altro po’... 

Ma finiremo sicuramente per tornarci ancora.

 
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