Yorgos Lanthimos non ci ha mai abituato alla conversazione orale (provate ad ascoltare i suoi film, da Dogtooth a Il sacrificio di un cervo sacro in modalità podcast per averne la prova). Recitazione, mise-en-scène, colonna sonora: tra detto e non-detto, le pellicole del regista greco ovattano i suoni della vita quotidiana, assordandoci con frequenze sepolte e inquietanti. Non sorprende dunque che l’ultimo lavoro di Lanthimos, il corto Nimic (2019), si regga su una carenza estrema di scambi verbali. Guidato da Simple Symphony del compositore britannico Benjamin Britten, Nimic è incontro: tessitura di incroci metropolitani per attivare la riflessione sull’identità individuale. Chi è il Padre, interpretato da un meravigliosamente stralunato Matt Dillon? Chi è la violinista con cui, una mattina, si scambia identità (Daphne Patakia)? Per Lanthimos, la risposta, sempre ad infinitum, pare essere molteplice. Ed è nella laconicità della forma cinematografica “corta” che la profondità lucida e insondabile delle riprese a occhio di pesce, degli zoom lenti e inesorabili, delle maschere di cera che il cineasta mette addosso ad attori-manichini, sprigiona un’inarrestabile onda d’urto.
Alcuni dei dodici minuti più intensi che l’opera di Lanthimos ci abbia mai regalato. Un’argomentazione completa e cristallina. Ancora più ombre gettate sulla placida, strana esistenza che conduciamo di giorno in giorno.
Elisa Teneggi
Alcuni dei dodici minuti più intensi che l’opera di Lanthimos ci abbia mai regalato. Un’argomentazione completa e cristallina. Ancora più ombre gettate sulla placida, strana esistenza che conduciamo di giorno in giorno.
Elisa Teneggi