"Può essere che certe parti di te sopravvivano solamente attraverso le memorie di certe persone: nella vita possono capitare dei momenti in cui ti ritrovi nella stessa stanza con la te del passato, del presente e del futuro" – questo diceva la regista Celine Song in videochiamata prima della proiezione in anteprima del suo film d’esordio Past Lives.
Questo pensiero, confessa, corrisponde al suo esatto ricordo risalente a quando si era trovata ad essere nello stesso luogo con: il suo amico / primo amore d’infanzia (il passato), sé stessa (il presente) e suo marito (il futuro).
Il film si apre proprio così, con la volontà della regista di ricreare quel momento, filtrandolo attraverso il disquisire di due interlocutori che, osservando la scena spettegolano su quali rapporti vi siano fra i tre avventori. Ciò non ha la sola funzione di introdurre alla storia (il punto di vista in realtà è quello dello spettatore, invogliato da subito a capire quali siano le dinamiche che intercorrono fra di loro), ma contiene gli elementi cardine del film, quali: la ciclicità del tempo, la scoperta di sé stessi attraverso le relazioni e la forte componente voyeuristico-contemplativa del racconto.
Osservare Past Lives è come sbirciare attraverso il diario segreto della regista, l’intimità e le vicende di un’autrice che lentamente prendono corpo e voce. Celine Song utilizza i tòpoi del racconto sentimentale come pretesto per aprire lo spettatore verso uno spaccato della società coreana per cui, attraverso i due protagonisti e le loro differenti scelte di vita, è in grado di mostrarci due modelli di vita attualissimi sia per il contesto asiatico che per quello occidentale.
Fin da subito Na Young e Hae Sung rappresentano due facce dello strato sociale coreano: la prima più ambiziosa e vogliosa di diventare una persona affermata capace di lasciare un segno (volontà rimarcata nella sequenza in cui lei, appena arrivata nella casa per artisti, inscrive il suo nome – americano – sul muro); mentre l’altro più voglioso di coltivare una vita stabile e semplice in Corea, fatta di bevute al bar con gli amici e di stabilità famigliare (Nora ad un certo punto sottolineerà su quanto le inclinazioni di Hae Sung siano “così coreane”).
Simbolicamente queste differenze caratteriali vengono già introdotte nella sequenza della loro separazione: la regista sceglie per rappresentare quel
memento non un set qualsiasi, bensì un luogo in cui vi sia una strada semplice e comoda da percorrere per lui mentre una più scomoda e in salita per lei.
Questa sequenza, insieme ad altre (“in Korea non si vince il premio Pulitzer”), anticipano il conflitto interno implicito proprio della diaspora coreana; il film è
soprattutto un moderno racconto di comprensione e accettazione che la protagonista compie sia nella scelta di crearsi una nuova vita americana, sia nel
voler recuperare ciò che la legava alla sua infanzia e alle sue origini.
Inizia così un racconto intimo tutto legato alla spiritualità, alla ciclicità del tempo e allo “In-Yun”, dal coreano “provvidenza” o “destino”, secondo cui se due persone si innamorano è perché erano state amanti in una vita passata e perciò destinate a ritrovarsi.
La regista costruisce su questo presupposto un racconto gentile, in cui a più riprese inserisce continui rimandi fra presente e futuro:
- la sequenza iniziale di loro tre al bancone del bar che si ritrova poi verso la fine;
- il primo dialogo fra i due bambini si apre con “perché stai piangendo?” e dopo l’ultimo saluto fra i due l’ultimo gesto di Nora sarà piangere di nuovo, da una parte rievocando quella sua parte che lei riteneva infantile ed emotivamente fragile e dall’altra separandosene per sempre;
- lo sguardo finale di Hae Sung è lo stesso identico sguardo che aveva in macchina quando da piccolo avrebbe capito che l’avrebbe dovuta lasciar andare.
Questo ripetersi di occasioni si inseriscono in una precisa rappresentazione filmica del rapporto fra i tre protagonisti: la relazione col marito viene mostrata in luoghi chiusi e intimi, con molte inquadrature ravvicinate e primi piani; mentre quando Nora e Hae Sung sono insieme il racconto assume dei connotati contemplativi di più ampio respiro – spesso i due si trovano come piccole parti all’interno di inquadrature larghissime, le città diventano quasi bidimensionali, intorno a loro vi sono quasi sempre solo coppiette di innamorati e, nei momenti di solitudine i dettagli e le silhouettes si fanno scuri; tutto tende verso l’idea di star osservando un quadro paesaggistico: i protagonisti diventano entità quasi astratte, verso le quali lo spettatore può percepire un’unione spiritualmente più ampia, seppur mantenendo di fondo una flebile idea di transitorietà.
Celine Song sublima questi connotati del loro rapporto attraverso la giocosità. All’interno della storia Nora associa il suo carattere ludico all’infanzia e quindi di riflesso ai suoi ricordi con Hae Sung:
- lo vediamo all’inizio quando i due giocano spensierati al parco per poi ritrovarsi nel bar, più di vent’anni dopo, a scherzare su cosa fossero stati l’un l’altro nelle vite passate;
- nella scelta della regista di farlo parlare col marito in un inglese quasi infantile, ponendo l’accento su come quella fosse una parte proveniente da un passato remoto della moglie;
- fino alla scelta visiva molto precisa (riportata anche in alcuni poster ufficiali) di porre i due amanti davanti ad una giostra illuminata. È il vero punto cardine
di tutto il film: la vita e il loro affetto rappresentati come un Carousel, un ciclo continuo, destinato nel bene o nel male ad esistere, presente e a portata di
mano quanto inafferrabile.
Tutti questi tre temi fondati – ricerca di sé, spiritualismo, giocosità – sono tutti posti al servizio della storia in modo mesto e sotteso, esattamente come il filtro del romanticismo è rimescolato con la grammatica della comprensione: mentre per tutto il film lo spettatore spererebbe nel lieto fine e nella possibilità dei due di scappare insieme, i tre protagonisti non recriminano le rispettive azioni, ma anzi le accettano e le interiorizzano in modo toccante, consapevole e maturo.
Nella sequenza in cui i due sposi sono a letto insieme, Nora consola il marito sul fatto di non essere lì con lui per caso ma perché lo ama. A quel punto, lui le
confessa:
- “Tu sogni solamente in coreano. Sogni in una lingua che non posso capire, è come se avessi questo grande luogo dentro di te a cui non ho accesso. È per
questo probabilmente che ho voluto imparare il coreano.”
- “Per capirmi mentre sogno?”
- “Sì.”
Dopo quel confronto sincero e chiarificatorio, vi è uno stacco – la giostra si spegne.
Gabriele Malagoli