«Remember, remember...»: V per Vendetta, dalla pagina allo schermo
16/03/2021
«Remember, remember the 5th of November...»

 
Non si può parlare di V per Vendetta senza citare questi versi, senza citare Guy Fawkes, senza comprendere quanto sia intriso di cultura britannica. Un azzardo consegnare la graphic novel di Alan Moore e David Lloyd nelle mani di Lana e Lily (allora Larry e Andy) Wachowski? Probabilmente si, vista la portata artistica e la complessità dell’opera originale, anche se ogni dubbio viene spazzato via durante la visione che, pur discostandosi e semplificando alcuni passaggi, si rivela essere trasposizione capace di rendere giustizia all’originale. E sappiamo quanto la giustizia sia importante, per V. 

«E dopo la guerra non ci furono più rose, per nessuno»

 
Merito sicuramente di una sceneggiatura solida, in cui la Londra distopica di Alan Moore torna prepotente con le figure chiave del regime totalitario al governo, critica aperta ed evidente (dichiarata da Moore stesso) nei confronti della politica di Margaret Thatcher. «L’Inghilterra domina»: un motto per una nazione che ha sposato tutte le cause care ai regimi combattuti dalla democrazia, che sfociano in campi di concentramento in cui rinchiudere persone a causa del colore della loro pelle, del loro orientamento sessuale, dei loro pensieri politici. Rubando loro la libertà, quelll’ultimo centimetro tanto caro a Valerie, protagonista di una delle sequenze più toccanti della graphic novel e che è stata trasposta in maniera pressoché identica sul grande schermo: il racconto della sua vita a Evey, in cui si susseguono momenti di discriminazione, di desiderio d’amore sfociato in un destino di sofferenza e morte. Come una Scarlett Carson strappata dal terreno: un atto irreversibile. Il tutto in una nazione che sembra uscita dal connubio artistico di George Orwell e Ray Bradbury e che trova in V l’antieroe necessario per una rivoluzione contro la dittatura, una rivoluzione dal sapore di rinascita, che si tratti di un battesimo nel fuoco o sotto la tempesta: «Dio è nella pioggia».   

«Eri già in prigione. Sei stata in prigione per tutta la vita»
 


Questo è forse il punto di incontro più evidente tra l’opera di Moore e la creazione più celebre delle sorelle Wachowski: Matrix. Non solo per la spettacolarità delle sequenze, anzi, è una dimensione che diventa quasi secondaria in un’opera così ricca e densa. Dopotutto, anche Neo viveva in «una prigione che non ha sbarre», per dirla con le parole di Morpheus, dalla quale è riuscito a fuggire solo dopo un brusco risveglio. Traumatico, come il rito di passaggio di V e di Evey, diversi nella forma e nel contesto, benché ciò che accade alla ragazza (personaggio completamente differente tra graphic novel e film, interpretata da Natalie Portman) possa portare ad una riflessione ulteriore sul ruolo catartico del teatro e della rappresentazione, pur ricreata in maniera estrema, quasi sadica, da V: le citazioni di Macbeth ne sono un richiamo. In questo senso si porta alla luce un pensiero sul fine che giustifica i mezzi, in cui l’oratore e retore antieroe passa nuovamente dal verbale all’agito coniugando entrambe le dimensioni con agilità. 

«Sto semplicemente sottolineando il paradosso costituito dal chiedere a un uomo mascherato chi egli sia».



La risposta più banale sarebbe Hugo Weaving (l’Agente Smith, per tornare a Matrix), ma è naturalmente una risposta semplice e provocatoria. Ma va sottolineata la grandissima interpretazione di un attore che riesce a donare espressività a una maschera, divenuta negli anni simbolo a sua volta. Perché sotto il mantello e il costume, lo dice poi la stessa Evey nel finale (differente, ma non nella sostanza), ci sono tutti i presenti che hanno deciso di ribellarsi al regime, mostrando in maniera sempre più evidente l’intento politico di una pellicola che definire comic-movie è estremamente riduttivo: l’anima delle pagine di Moore e Lloyd è salva. V lo esplicita: «Il palazzo è un simbolo, come lo è un atto di distruggerlo. Sono gli uomini che conferiscono potere ai simboli», ed è lui stesso a erigersi come tale, andando oltre l’identità, oltre il paradosso, riuscendo a divenire l’idea immortale e a prova di proiettile come da progetto. Un’idea di libertà, declinata anche nel mondo della televisione e della satira, non presente nella graphic novel (dove invece è molto chiaro e inquietante il controllo da Grande Fratello) e incarnata da Gordon (Stephen Fry), personaggio reo di omosessualità, lettura di libri proibiti (il Corano) e di affronto al cancelliere, che gli costerà la morte. Un artista, ispirato dall’altro artista V, come lo era Valerie, come lo diventerà Evey: a salvarli, renderli liberi, la musica, la letteratura, l’arte, e il cinema. La Vendetta, da unica ragione di vita, diventa strumento per un messaggio di critica sociale (tra esperimenti nei campi di concentramento, pedofilia, case farmaceutiche corrotte) che scava nel profondo e, a tratti, nella contemporaneità. 

 

«Almeno ha un lieto fine?»
«Di quelli che solo la celluloide sa regalare».


Lorenzo Bianchi

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