Robert Zemeckis: il cinema tra tempo, storia e memoria
21/09/2020
«Un momento... un momento, Doc. Eh... Mi stai dicendo che hai costruito una macchina del tempo... con una DeLorean?»
1985: dopo aver sceneggiato 1941: Allarme a Hollywood di Steven Spielberg e aver realizato tre opere abbastanza anonime come 1964: Allarme a New York arrivano i Beatles, La fantastica sfida e All’inseguimento della pietra verde, per Robert Zemeckis è arrivato il tempo di fare sul serio, di esprimere la sua poetica, di realizzare opere memorabili. Il tempo, appunto. Tra i protagonisti della trilogia di Ritorno al futuro, declinato in maniera differente e rivoluzionaria nella sua mise en scene, l’aspetto temporale è uno dei temi fondanti e ricorrenti del cinema di Zemeckis, sia esso da intendersi come viaggio, come occasione, come Storia, ricordo. Memoria.
«Io non ho inventato la macchina del tempo per motivi di lucro; l'intento è di acquistare una più chiara percezione sull'umanità: dove siamo stati, dove andiamo, le trappole, le possibilità, i rischi e le promesse. Forse una risposta alla più universale delle domande: perché?»
I viaggi nel tempo di Marty McFly (Michael J. Fox) e Emmett “Doc” Brown (Christopher Lloyd) sono un pretesto per parlare di qualcosa di più profondo, nascosto dietro la patina di apparente (seppure reale) entertainment, e poco importa se questo avviene nel 1955, nel 2015 o nel 1885. Nel primo film è centrale l’idea dell’influenza che le nostre azioni hanno sul nostro futuro, sul nostro destino, con la conseguente importanza dell’attenzione da prestare a ciò che si fa, a come si agisce. Nel secondo capitolo, invece, il tempo è sfruttato per piegarsi all’avidità: se i protagonisti sono finiti per errore nel 1955, vanno invece volontariamente nel 2015, per riaggiustare una situazione disastrosa, per cambiare il corso degli eventi, resi tenebrosi da un almanacco sportivo con tutti i risultati dal 1950 al 2000. Infine, il terzo capitolo, dove il viaggio nel tempo è nuovamente nel passato, quasi remoto, alle origini di Hill Valley: il luogo della costruzione, delle basi per il futuro, delle occasioni da cogliere e da non lasciarsi sfuggire.
«Mamma diceva sempre che dalle scarpe di una persona si capiscono tante cose. Dove va. Dov'è stata. Quante scarpe che ho messo io. Scommetto che se mi sforzo tanto riesco poi a ricordare il primo paio. Mamma disse che quelle mi portavano dovunque, disse che erano le mie scarpe magiche».
Con Forrest Gump (1994) Zemeckis racconta una favola in cui la storia incontra la Storia, in cui i cinema diventa a tutti gli effetti magia, capace di mostrare gli eventi salienti del XX secolo americano con gli occhi di un bambino (poi ragazzo e uomo) per alcuni diverso, per molti unico. A conti fatti, il film si svolge tutto (o quasi) su una panchina, dove il protagonista (strepitoso Tom Hanks) inizia a parlare della sua vita con chiunque si sieda accanto a lui: è quindi un viaggio nella sua mente, nella sua memoria, nei suoi ricordi. È attraverso il suo sguardo che la Storia recente degli Stati Uniti d’America può aver luogo: dal sanguinoso capitolo della guerra in Vietnam allo scandalo Watergate, dall’omicidio di Kennedy alla fondazione della Apple, passando per Elvis Presley e le Pantere Nere. Ferite nel cuore degli States, che si ripropongono poi in The Walk, con la passeggiata tra le Torri Gemelle e un’ultima inquadratura difficile da dimenticare. Il tempo che scorre in Forrest Gump contrasta con il tempo che sembra fermarsi durante la corsa del protagonista, in cui l’America è invece mostrata in tutto il suo splendore naturale, nella sua bellezza fatta di laghi, boschi, montagne, deserti e oceani: questo ciò che è da salvare, o almeno sembra sia questo il messaggio lanciato da Zemeckis, mentre una piuma volteggia leggera nel cielo.
«Il tempo ci domina senza pietà, incurante se siamo in salute o ammalati, affamati o ubriachi o... russi o americani o... abitanti di Marte. È come il fuoco: può distruggerci o riscaldarci. Perciò ogni FedEx ha un orologio. Perché viviamo o moriamo in base all'orologio, non gli voltiamo mai le spalle. E mai o poi mai ci permettiamo il peccato di perdere di vista il tempo».
Con Cast Away, Zemeckis porta all’estremo la sua riflessione sul tempo e sul modo in cui noi ci relazioniamo con esso. E quale modo migliore di farlo, se non raccontare la storia di un uomo che non ha tempo e di improvviso si trova ad averne una quantità infinita, da solo su un’isola deserta? Questa è la storia di Chuck Noland, una sorta di rivisitazione di Robinson Crusoe, che trova in una palla da volley (Wilson) la sua compagnia, la sua guida, il suo appiglio alla vita. Noland aveva tutto dalla vita, ma non aveva il tempo per goderselo, accecato dalla frenesia quotidiana, e sull’isola deserta finisce nella situazione inversa, diametralmente opposta: tutto il tempo possibile a disposizione e nessuno con cui passarlo. Mai Zemeckis è stato così esplicito, neanche con Ritorno al futuro: qui non c’è spazio per le risate, e nella quiete (imposta) dell’isola c’è solo una cosa da fare. Riflettere.
«Tu riceverai la visita di tre spiriti».
«Sono la strada e la speranza? Ne farei a meno».
«Attendi il primo domani al rintocco della prima ora».
«Non potrei vederli insieme e non pensarci più, Jacob?»
«Attendi il secondo la notte dopo alla stessa ora e il terzo la notte dopo ancora quando l'ultimo rintocco della dodicesima ora avrà cessato di vibrare. Quanto a rivedermi non accadrà più!»
A Christmas Carol, rivisitazione in performance capture del romanzo di Charles Dickens, si presta alla perfezione per proseguire il discorso di Zemeckis sul tempo: i tre fantasmi che tormentano Ebenezer Scrooge durante la notte della viglia di Natale sono simbolo di quel che il tempo può essere per ognuno di noi. Il Fantasma del Natale Passato riporta alla memoria, con i ricordi dolci o amari che potrebbe portare con sé; il Fantasma del Natale Presente ci mostra la realtà in maniera cruda, la verità quotidiana con cui fare i conti; il Fantasma del Natale Futuro mostra il tempo che sarà in conseguenza dell’attitudine attuale, ma è questo l’unico che ancora non è definito e cristallizzato: se vogliamo, possiamo cambiarlo.
«Ho creato un mondo dove posso guarire»
La storia vera di Mark Hogancamp (Steve Carell) è l’ultima declinazione del tempo di Zemeckis, per certi versi estrema come Cast Away, pur non avendo la stessa efficacia. Benvenuti a Marwen parla di un uomo traumatizzato che vuole scappare dal tempo (e dallo spazio) presente per rifugiarsi in un luogo e in un tempo sicuri, realizzati in stop motion, una comfort zone dove cancellare gli orrori subiti. Il paradosso è che la sicurezza sia ricercata durante la Seconda guerra mondiale, un tempo universalmente indentificato come sofferente, ma che per Mark è invece simbolo di salvezza e riscatto personale: questo permette di comprendere a fondo quanto sia dilaniante il suo dolore. Qualcosa che solo la volontà e il tempo possono guarire.
Per Zemeckis, a conti fatti, il tempo è qualcosa di imprescindibile, qualcosa con cui dover fare i conti, qualcosa di reale e tangibile. Ma di cui non aver paura. Mai.
Lorenzo Bianchi
1985: dopo aver sceneggiato 1941: Allarme a Hollywood di Steven Spielberg e aver realizato tre opere abbastanza anonime come 1964: Allarme a New York arrivano i Beatles, La fantastica sfida e All’inseguimento della pietra verde, per Robert Zemeckis è arrivato il tempo di fare sul serio, di esprimere la sua poetica, di realizzare opere memorabili. Il tempo, appunto. Tra i protagonisti della trilogia di Ritorno al futuro, declinato in maniera differente e rivoluzionaria nella sua mise en scene, l’aspetto temporale è uno dei temi fondanti e ricorrenti del cinema di Zemeckis, sia esso da intendersi come viaggio, come occasione, come Storia, ricordo. Memoria.
«Io non ho inventato la macchina del tempo per motivi di lucro; l'intento è di acquistare una più chiara percezione sull'umanità: dove siamo stati, dove andiamo, le trappole, le possibilità, i rischi e le promesse. Forse una risposta alla più universale delle domande: perché?»
I viaggi nel tempo di Marty McFly (Michael J. Fox) e Emmett “Doc” Brown (Christopher Lloyd) sono un pretesto per parlare di qualcosa di più profondo, nascosto dietro la patina di apparente (seppure reale) entertainment, e poco importa se questo avviene nel 1955, nel 2015 o nel 1885. Nel primo film è centrale l’idea dell’influenza che le nostre azioni hanno sul nostro futuro, sul nostro destino, con la conseguente importanza dell’attenzione da prestare a ciò che si fa, a come si agisce. Nel secondo capitolo, invece, il tempo è sfruttato per piegarsi all’avidità: se i protagonisti sono finiti per errore nel 1955, vanno invece volontariamente nel 2015, per riaggiustare una situazione disastrosa, per cambiare il corso degli eventi, resi tenebrosi da un almanacco sportivo con tutti i risultati dal 1950 al 2000. Infine, il terzo capitolo, dove il viaggio nel tempo è nuovamente nel passato, quasi remoto, alle origini di Hill Valley: il luogo della costruzione, delle basi per il futuro, delle occasioni da cogliere e da non lasciarsi sfuggire.
«Mamma diceva sempre che dalle scarpe di una persona si capiscono tante cose. Dove va. Dov'è stata. Quante scarpe che ho messo io. Scommetto che se mi sforzo tanto riesco poi a ricordare il primo paio. Mamma disse che quelle mi portavano dovunque, disse che erano le mie scarpe magiche».
Con Forrest Gump (1994) Zemeckis racconta una favola in cui la storia incontra la Storia, in cui i cinema diventa a tutti gli effetti magia, capace di mostrare gli eventi salienti del XX secolo americano con gli occhi di un bambino (poi ragazzo e uomo) per alcuni diverso, per molti unico. A conti fatti, il film si svolge tutto (o quasi) su una panchina, dove il protagonista (strepitoso Tom Hanks) inizia a parlare della sua vita con chiunque si sieda accanto a lui: è quindi un viaggio nella sua mente, nella sua memoria, nei suoi ricordi. È attraverso il suo sguardo che la Storia recente degli Stati Uniti d’America può aver luogo: dal sanguinoso capitolo della guerra in Vietnam allo scandalo Watergate, dall’omicidio di Kennedy alla fondazione della Apple, passando per Elvis Presley e le Pantere Nere. Ferite nel cuore degli States, che si ripropongono poi in The Walk, con la passeggiata tra le Torri Gemelle e un’ultima inquadratura difficile da dimenticare. Il tempo che scorre in Forrest Gump contrasta con il tempo che sembra fermarsi durante la corsa del protagonista, in cui l’America è invece mostrata in tutto il suo splendore naturale, nella sua bellezza fatta di laghi, boschi, montagne, deserti e oceani: questo ciò che è da salvare, o almeno sembra sia questo il messaggio lanciato da Zemeckis, mentre una piuma volteggia leggera nel cielo.
«Il tempo ci domina senza pietà, incurante se siamo in salute o ammalati, affamati o ubriachi o... russi o americani o... abitanti di Marte. È come il fuoco: può distruggerci o riscaldarci. Perciò ogni FedEx ha un orologio. Perché viviamo o moriamo in base all'orologio, non gli voltiamo mai le spalle. E mai o poi mai ci permettiamo il peccato di perdere di vista il tempo».
Con Cast Away, Zemeckis porta all’estremo la sua riflessione sul tempo e sul modo in cui noi ci relazioniamo con esso. E quale modo migliore di farlo, se non raccontare la storia di un uomo che non ha tempo e di improvviso si trova ad averne una quantità infinita, da solo su un’isola deserta? Questa è la storia di Chuck Noland, una sorta di rivisitazione di Robinson Crusoe, che trova in una palla da volley (Wilson) la sua compagnia, la sua guida, il suo appiglio alla vita. Noland aveva tutto dalla vita, ma non aveva il tempo per goderselo, accecato dalla frenesia quotidiana, e sull’isola deserta finisce nella situazione inversa, diametralmente opposta: tutto il tempo possibile a disposizione e nessuno con cui passarlo. Mai Zemeckis è stato così esplicito, neanche con Ritorno al futuro: qui non c’è spazio per le risate, e nella quiete (imposta) dell’isola c’è solo una cosa da fare. Riflettere.
«Tu riceverai la visita di tre spiriti».
«Sono la strada e la speranza? Ne farei a meno».
«Attendi il primo domani al rintocco della prima ora».
«Non potrei vederli insieme e non pensarci più, Jacob?»
«Attendi il secondo la notte dopo alla stessa ora e il terzo la notte dopo ancora quando l'ultimo rintocco della dodicesima ora avrà cessato di vibrare. Quanto a rivedermi non accadrà più!»
A Christmas Carol, rivisitazione in performance capture del romanzo di Charles Dickens, si presta alla perfezione per proseguire il discorso di Zemeckis sul tempo: i tre fantasmi che tormentano Ebenezer Scrooge durante la notte della viglia di Natale sono simbolo di quel che il tempo può essere per ognuno di noi. Il Fantasma del Natale Passato riporta alla memoria, con i ricordi dolci o amari che potrebbe portare con sé; il Fantasma del Natale Presente ci mostra la realtà in maniera cruda, la verità quotidiana con cui fare i conti; il Fantasma del Natale Futuro mostra il tempo che sarà in conseguenza dell’attitudine attuale, ma è questo l’unico che ancora non è definito e cristallizzato: se vogliamo, possiamo cambiarlo.
«Ho creato un mondo dove posso guarire»
La storia vera di Mark Hogancamp (Steve Carell) è l’ultima declinazione del tempo di Zemeckis, per certi versi estrema come Cast Away, pur non avendo la stessa efficacia. Benvenuti a Marwen parla di un uomo traumatizzato che vuole scappare dal tempo (e dallo spazio) presente per rifugiarsi in un luogo e in un tempo sicuri, realizzati in stop motion, una comfort zone dove cancellare gli orrori subiti. Il paradosso è che la sicurezza sia ricercata durante la Seconda guerra mondiale, un tempo universalmente indentificato come sofferente, ma che per Mark è invece simbolo di salvezza e riscatto personale: questo permette di comprendere a fondo quanto sia dilaniante il suo dolore. Qualcosa che solo la volontà e il tempo possono guarire.
Per Zemeckis, a conti fatti, il tempo è qualcosa di imprescindibile, qualcosa con cui dover fare i conti, qualcosa di reale e tangibile. Ma di cui non aver paura. Mai.
Lorenzo Bianchi