Due autori fondamentali per comprendere l’evoluzione e la valenza artistica del cinema contemporaneo. Due modi differenti di approcciarsi alla Settima arte. Due poetiche diametralmente opposte capaci entrambe di stupire ed emozionare.
«Il vizio più costoso nel mondo non è l’eroina ma la celluloide, e io ho bisogno di una dose ogni due anni». (Steven Spielberg, Time, 1979)
«Chi sei tu per vivere sotto tutte queste forme? Tua è la morte che cattura tutto; tua è anche la fonte di tutto ciò che nascerà. Tua la gloria, tua la pietà, la pace, la verità. Tu dai riposo allo spirito, comprensione, coraggio. Il cuore rassereni, oh Signore». [Soldato Witt, La sottile linea rossa (Terrence Malick, 1998)]
Steven Spielberg e Terrence Malick saranno i protagonisti dei due workshop monografici che abbiamo pensato per voi per iniziare la nuova stagione di eventi targata LongTake:
• IL CINEMA DI TERRENCE MALICK: 15 – 22 – 29 gennaio, BASE Milano (Via Bergognone 34).
• IL CINEMA DI STEVEN SPIELBERG: 16 – 23 – 30 gennaio + 6 febbraio proiezione Jurassic Park, MIC – Museo Interattivo del Cinema (Viale Fulvio Testi 121, Milano).
Film summa di tutto il cinema spielberghiano, Incontri ravvicinati del terzo tipo rappresenta uno dei risultati di maggiore spessore raggiunti dal cinema di fantascienza di tutti i tempi. Fascinazione per l’alterità aliena, sottotesti metafisici, poetica dell’innocenza perduta e riflessioni profonde sul linguaggio dell’audiovisione fanno di questa opera una pietra miliare del genere. L’immagine di François Truffaut che decodifica una sequenza di suoni e colori, chiaro rimando al cinema stesso, è uno dei regali più belli che Steven Spielberg abbia mai concesso al suo pubblico. Per entrambi i registi, il cinema deve saper parlare la lingua dei bambini e nei bambini di ogni età deve suscitare un ritrovato, incontenibile impeto di stupore. Memorabili la sequenza del primo incontro con gli alieni e la scena in cui il personaggio di Richard Dreyfuss, lentamente e inesorabilmente regredito a uno stadio infantile e sconnesso dalla realtà che lo circonda, gioca con il purè. Tra contributi tecnici di prim’ordine, sono da segnalare la straordinaria fotografia di Vilmos Zsigmond, gli effetti speciali di Douglas Trumbull, le creature aliene di Carlo Rambaldi e la partitura di John Williams, con le cinque note più celebri della storia del cinema. Due Oscar per la miglior fotografia e i migliori effetti sonori. Esistono altre due diverse versioni del film: nel 1980 Spielberg mise mano a un’edizione speciale che aggiungeva alcune sequenze all’interno dell’astronave aliena, ma più corta di tre minuti; in occasione del venticinquennale, invece, il regista ha ripristinato il finale originale, aggiungendo numerose scene inedite.
Nato da un’idea di George Lucas ispirata ai serial televisivi per ragazzi degli anni ’40, alla saga di James Bond e all’Humphrey Bogart de Il tesoro della Sierra Madre (1948), I predatori dell’arca perduta è il film che segna il trionfale ingresso nell’immaginario cinematografico di milioni di spettatori del personaggio di Indiana Jones. Destinato a diventare uno dei fenomeni di celluloide più fortunati di tutti i tempi, inaugurò un vero e proprio marchio, figlio della fusione creativa delle menti di Lucas e Steven Spielberg, all’apice delle rispettive carriere. Le numerose sequenze memorabili (l’incipit in Perù, il duello impari tra l’arabo che volteggia una scimitarra e Jones che lo fredda con un colpo di pistola, l’inseguimento di un camion a cavallo) realizzate con impareggiabile maestria tecnica, location suggestive, personaggi affascinanti, ritmo mozzafiato, dosi ben calibrate di umorismo concorrono a rendere questo film una pietra miliare del genere, tra i titoli migliori diretti da Spielberg e tra i suoi preferiti. Indiana era il nome del cane di George Lucas, un enorme Alaskan Malamute, mentre il cognome Jones fu scelto da Spielberg e preferito al ben più ordinario Smith. Trionfo al box office e cinque Oscar conquistati: migliore scenografia, miglior montaggio, miglior sonoro, miglior montaggio sonoro e migliori effetti speciali.
Opera struggente e a dir poco sentita da Steven Spielberg (primogenito di genitori ebrei), Schindler’s List costituisce il punto più alto all’interno del percorso di impegno, morale e civile condotto dal cineasta statunitense. Il valore intrinseco di questo struggente e magnifico affresco sulla tragedia dell’Olocausto è enunciato per intero in una evocativa scelta di montaggio posta all’inizio del film: il fumo di una candela spenta, simbolo di un ricordo che oggi l’oblio del tempo rischia di cancellare, è accostato al fumo di un vagone a vapore nella Polonia del ’39. Altissimo esempio di un cinema che, senza mai smettere di essere arte, sa diventare preziosa testimonianza storica e ineludibile monito per gli spettatori di ogni tempo. Ineccepibile ogni contributo tecnico, dalle scenografie (Ewa Braun e Allan Starski) alla fotografia (Janusz Kaminski) e alla colonna sonora (John Williams). Nessun elemento di questa ricostruzione, tuttavia, sovrasta la potenza del racconto e anche nei momenti di maggiore emozione, Spielberg riesce a conservare un mirabile equilibrio espressivo. Toccante e intensa la prova di uno strepitoso Liam Neeson, sotto traccia ma non meno emozionante quella di Ben Kingsley (nei panni del contabile ebreo Itzhak Stern); anche l’interpretazione di Ralph Fiennes (nel ruolo del perfido nazista Amon Göth), benché sopra le righe e a tratti eccessiva, risulta funzionale e coerente all’interno della pellicola. La sceneggiatura di Steven Zaillan è ispirata al romanzo La lista di Schindler di Thomas Keneally. Sette premi Oscar (film, regia, sceneggiatura non originale, fotografia, montaggio, scenografia e colonna sonora) e tre Golden Globe conquistati (miglior film drammatico, miglior regia e miglior sceneggiatura).
Opera prima del trentenne Terrence Malick, La rabbia giovane è un road movie insolito e personale, che relega in secondo piano l’azione e punta in modo deciso sull’introspezione psicologica. Kit e Holly sono due personaggi mossi da inquietudini di uguale intensità che si manifestano in maniera assai diversa: lei annota tutto sul suo diario con candore innocente, innamorata e estasiata dalle nuove esperienze di cui sembra cogliere solo i lati positivi; lui ha il grilletto facile, agisce e uccide senza pensare troppo alle conseguenze, segue i suoi impulsi anche quando la razionalità e la convenienza personale suggerirebbero di fare diversamente (come nel finale). In questo modo Malick descrive due anime che si muovono senza direzione, perse nell’immensità delle Badlands, affascinante emblema di una natura muta osservatrice che accentua il senso di tragedia incombente. L’uso espressivo di un paesaggio splendido ma deserto e minaccioso permette al regista texano di prendere le distanze dagli eventi, filmando in modo essenziale e funzionale uno psicodramma dove il malessere esistenziale trova sfogo in forme assurde e terrificanti (si veda l’impassibilità con cui Kit fredda le sue vittime o dà fuoco alla casa di Holly). Al contempo, attraverso l’uso copioso della voce fuori campo e puntellando il racconto di attimi di vita quotidiana apparentemente insignificanti, Malick riesce a farci empatizzare con questa coppia tenera e allucinata. Un melodramma cupo e imprevedibile, unico nel suo genere. Il regista, noto per la sua refrattarietà ad apparire in pubblico, compare in un piccolo cameo.
Come nel suo film d’esordio, Terrence Malick con I giorni del cielo racconta un’umanità fragile e crudele, sottolineandone in maniera più accentuata la tendenza alla violenza e alla prevaricazione. Inoltre il regista indaga l’altro lato del sentimento d’amore: puro e disinteressato nel primo film; strumento di manipolazione e veicolo di lancinanti gelosie e aspre rivalità in questa circostanza. Sul tutto aleggia un profondo senso di fatalismo e i personaggi si muovono insicuri e smarriti in un paesaggio bellissimo che esalta, per contrasto, la cieca e animalesca brutalità degli esseri umani. L’artificio della voce fuori campo, affidato al candore innocente della sorella di Bill, dà poi al tutto una dimensione da favola nera in cui il lieto fine non può che essere negato, mentre i dialoghi tradizionali sono limiti allo stretto necessario e a parlare sono principalmente le stupende immagini evocative e foriere di angosciante solitudine. Sontuosa la fotografia in 70 mm di Néstor Almendros e Haskell Wexler (premiata con l’Oscar) e notevole la colonna sonora di Ennio Morricone a cui è affiancato il suggestivo tema musicale tratto da Il carnevale degli animali di Camille Saint-Saëns. Premio per la miglior regia al Festival di Cannes.
Dopo quasi tre anni di post-produzione, Terrence Malick con The Tree of Life ha dato vita al suo progetto più ambizioso e prettamente filosofico. La Natura severa e brutale (incarnata dal padre di Jack) e la Grazia spirituale, sensibile e amorevole (di cui la madre di Jack è emblema) sono due elementi tra loro conflittuali eppure necessariamente complementari, ambedue parti integranti dell’esistenza di ciascun individuo e di ogni microcosmo sociale. Partendo da una vicenda privata (e vagamente autobiografica), Malick estende le proprie riflessioni, passando dal particolare all’universale: la storia familiare è lo spunto per raccontare la complessità e la semplicità del quotidiano, il Bene e il Male che si annidano in ciascun essere umano e la ineludibile coesistenza di bellezza e orrore, poesia e disperazione (la morte del fratello, l’amico annegato, le tensioni familiari). Una condizione esistenziale che si protrae fin dalle origini del mondo e che Malick indaga concedendosi digressioni che toccano l’infinito cosmologico, la comparsa delle prime forme di vita e l’immaginario ultraterreno. Fedele a uno sguardo cinematografico unico e personalissimo, oltre che refrattario a un tipo di narrazione lineare, il regista texano costruisce un’opera magniloquente, magmatica ed ermetica, in cui al dialogo viene preferito il monologo interiore e il racconto si snoda come un vero e proprio flusso di coscienza tra suggestioni, silenzi e sguardi pregni di significato e carica emozionale, a cui si aggiungono immagini evocative di abbacinante bellezza (grazie alla splendida fotografia di Emmanuel Lubezki). Un film ostico, alieno a qualsiasi moda o convenzione, un caleidoscopio emotivo e un’esperienza filmica e intellettuale difficoltosa ma proprio per questo estremamente gratificante. Palma d’oro al Festival di Cannes.