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Squid Game: il gioco degli ultimi
Dopo aver raggiunto il record d’ascolti su Netflix e aver incrementato la vendita delle Vans del 7800%, Squid Game è sulla bocca di tutti. I numeri parlano da soli, ma forse dalla serie è giusto estrapolare un’analisi alla scoperta degli aspetti stilistici e contenutistici più interessanti che hanno contribuito al suo successo.

Seong Gi-hun (Lee Jung-jae), disoccupato e soffocato dai debiti, riceve una possibilità per far fronte alle difficoltà economiche: partecipare a un gioco con un premio in denaro di 456 milioni di won (circa 33 milioni di euro). No, non si tratta di certo di un quiz game come il Milionario, in cui comodamente seduti su una sedia rispondiamo a domande a risposta multipla. È un po’ più complesso. Bisogna sudare: acqua e sangue! Scritta e diretta da Hwang Dong-hyuk, prodotta da Siren Pictures Inc. e distribuita da Netflix, Squid Game è un survivor movie in cui 456 concorrenti si sfidano cercando di superare prove mortali basate sui giochi d’infanzia.


Uno, due, tre, stella!
Uno, due, tre, stella, è il primo macabro gioco che i partecipanti devono affrontare. Un passo dopo l’altro per arrivare al successo, tra le stelle di un mondo d’illusioni, in cui il denaro sembra essere l’unica via di fuga. Ma perché proprio giochi d’infanzia? Forse proprio perché l’infanzia è il periodo spensierato della nostra vita in cui “i giochi dei bambini hanno poche regole”. Ebbene sì, l’infanzia è il periodo della libertà, della spensieratezza, dell’incoscienza di una vita adulta noiosa e violenta. Questa maniacale perfezione di coloro che hanno escogitato Squid Game ha il grande intento di soffocare e intorpidire l’animo umano: rendendolo ancora più mercificato e materiale. Per chi entra dentro Squid Game il ricordo d’infanzia viene seppellito per sempre: i giochi d’infanzia d'ora in poi saranno ricollegati a questo momento macabro, violento e dissacrante. Questo aspetto somiglia molto a una logica dispotica e terrorista: perpetuare in eterno una sofferenza, una sodomia senza fine. Chissà se Hwang Dong-hyuk abbia voluto lanciare una frecciatina a vicini della Corea del Nord dove, per esempio, i prigionieri politici vengono internati nei campi di concentramento costringendo anche i familiari per tre generazioni future. 

Ma questo non importa più nella società di oggi, a cosa serve la memoria, quando il denaro risolve ogni disagio (forse). Il capitalismo è infatti il grande male che aleggia nell’aria, c’è ma non si vede, condiziona le nostre vite, ci consuma. Hwang Dong-hyuk scrisse la serie nel lontano 2008 proprio quando la grande crisi mondiale mise in ginocchio l’economia di molti Paesi. Nella serie distopica – nemmeno troppo lontana dalla realtà – la popolazione accumula debiti per potersi beni e servizi necessari. D’altronde, chi nella contemporaneità non ottiene un bene ancor prima di acquistarlo: smartphone a rate, leasing per le auto, mutui e l'elenco potrebbe andare avanti...


Conquistato (e non ancora acquistato) quel bene, ci illudiamo di esserne entrati in possesso quando, in realtà, diventiamo noi degli oggetti manovrabili dai potenti: “Voi siete come cavalli” viene detto al protagonista. L’umanità è sotto scacco, siamo letteralmente diventate pedine! Sono queste le provocazioni iniziali veicolate da una serie che seppur affronti temi già presenti nel cinema coreano (difficoltà economiche in Corea del Sud, l’incremento della disparità sociale, la disoccupazione), riesce a imporsi nel panorama contemporaneo come un ottimo prodotto ricco di spunti mai banali.  

Il cast è in perfetta simbiosi e in grado di creare forte empatia con lo spettatore, ma del resto tutto il comparto tecnico è degno di merito. Con una speciale menzione alla bellissima colonna sonora e alle scenografie di grande impatto. La musica extradiegetica è arricchita da suoni fortemente disturbanti e ansiogeni. Azzeccato l’utilizzo della musica classica (e jazz) in diffusione dagli altoparlanti, in particolar modo, quando i personaggi si accingono a percorrere le vorticose scale dai colori pastello, ispirate alla magnifica opera “Relativity” di MC Escher. Una musica elegante, raffinata e rilassante accostata all’iper-violenza è un eco ad Alex di Arancia meccanica che aggrediva le sue vittime sulle note di Beethoven. Il risultato è straniante, in grado di alimentare una percezione di follia. D’altronde, all’interno dei campi di concentramento nazista la riproduzione della musica dagli altoparlanti serviva come ulteriore mezzo di indebolimento psicofisico.


Il gruppo è la cosa più importante!
Come in tutti i giochi, come d’altronde nella vita, ognuno si circonda del proprio gruppo con cui fare squadra per cercare di sopravvivere più facilmente. Principalmente vediamo in opposizione due gruppi con due visioni distinte: il gruppo con un capo che propone iniziative violente e il gruppo con un leader, Cho Sang-woo (Park Hae-soo), - nonché amico d’infanzia del protagonista – che dà dimostrazione di estrema intelligenza, di coraggio e infonde fiducia ai suoi compagni.  

Ci vorrà poco per comprendere quanto l’egoismo individuale porti al repentino sgretolamento del gruppo, dal momento che Squid Game è anche una grande iperbole delle dinamiche che si innescano all’interno dei reality/game show: c’è un premio in denaro a cui tutti ambiscono, si creano delle alleanze ma in fondo la lotta è tutti contro tutti

Un altro “Grande Fratello”
Il celebre sociologo Zygmunt Bauman ne “La società sotto assedio” introduce un’interessante questione riguardo al boom di quei reality show, comunemente definiti “Grande Fratello”, rimarcando l’idea di un’ossessione voyeuristica contemporanea ancora più̀ forte rispetto a ieri. In primo luogo, chiarisce la genesi di questa definizione: “Questa espressione [Grande Fratello] è penosamente familiare alle generazioni cresciute all’ombra sinistra delle torrette di guardia del secolo dei campi di concentramento. Immortalata da Orwell, era sinonimo di un potere cinico e spietato che detta le regole che tutti gli altri devono seguire, prescrive come debbano essere seguite e annienta chiunque osi ribellarsi o non esegua alla lettera gli ordini ricevuti da chi è al potere. Il Grande Fratello di Orwell governava su un regno fatto di doppiezza e ambiguità. In tale regno la schiavitù significava libertà, il dolore cura, l’oppressione emancipazione”. Un “Grande Occhio” sovrano simile a quello di Sauron ne Il Signore degli anelli, in opposizione all’attuale concezione legata all’universo dei reality: “Il Grande Fratello è imparziale. Non puoi chiamarlo crudele e dunque non c’è alcun motivo per combatterlo. Ma se lo chiami “giusto”, in realtà ciò potrebbe voler dire soltanto indifferente”. 


In tal caso, quella di chi guarda è una posizione di potere, a discapito di colui che viene guardato: sono proprio lo spettatore, l’uomo con la maschera nera e i Vip che osservano le dinamiche del comportamento umano rinchiuso in un’ampolla di vetro. Effettivamente si percepisce la volontà della serie di presentare il fenomeno umano sotto un aspetto quasi scientifico, con un eco riconducibile alle teorie del naturalismo francese, per il quale l’uomo è il risultato di tre fattori: razza, ambiente e momento storico. Il determinismo storico prevede, inoltre, che l’uomo non abbia effettivamente libera scelta, in quanto condizionato da fattori esterni come l’ambiente sociale in cui vive, le malattie e i bisogni economici. La psicologia è ridotta a semplice fisiologia: i rapporti psicologici dell'uomo dipendono dalla sua condizione fisica. Infatti, il mood che si respira tra i labirintici luoghi all’interno della struttura è in apparenza di una piattezza emotiva alienante, incrementata da guardie apatiche vestite con una tuta rossa, con un elmetto a coprirne il volto: uomini vuoti, più prigionieri dei giocatori stessi, senza sfumature identificabili attraverso quelle geometriche forme (un quadrato, un triangolo e un cerchio stampate sulla visiera, corrispondenti al “gioco del calamaro” e ogni forma, oltretutto, rappresenta una gerarchia “militare” specifica). Anche se in fondo, tutti i complici responsabili di questo diabolico sistema hanno intenzioni meno complesse, banali, più improntate al mero intrattenimento. 


Nonostante l’eclatante dimostrazione dell’orrore umano, è comunque molto comodo restare a guardare, elargire giudizi, puntare il dito contro e colpevolizzare comportamenti rimanendo nell’indifferenza garantita dall’impossibilità di un contatto intimo con i giocatori. Per questo motivo, Squid Game gioca, in maniera egregia, con la dimensione visiva, facendo sentire un po’ in colpa anche lo spettatore curioso e ossessionato dall’atto del guardare una realtà così violenta senza intervenire.

L’emblema del voyerismo senza scrupoli è incarnato dalla curiosa comparsa dei cosiddetti Vip (Very Important Person): uomini spregevoli presumibilmente molto ricchi che assistono ai giochi con una certa brama di scommesse onerose. Interessante la scelta di chiamarli in questo modo, poiché è come se si volesse sottolineare come in realtà, solo i potenti e i ricchi possono considerarsi persone in quanto riescono a esprimere la propria esistenza attraverso l’avere. Tutto il resto è massa informe, sono solo numeri. Tutto il resto è soltanto materia senza spirito. Soltanto chi vincerà otterrà forse la possibilità di affermarsi come persona, attraverso l’avere, attraverso il denaro. Peccato che saranno i Vip a dare sfoggio della propria bestialità, non a caso indossano maschere di animali.

Una serie che in fondo parla di sé stessa: un’operazione meta-cinematografica che sottolinea quanto la violenza sia un elemento caratteristico, divertente e coinvolgente, per riscuotere un successo di pubblico.

A cura di Matteo Malaisi

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