“Cosa credevi? Che ce ne saremmo stati per sempre a giocare in cantina?”
È il 1985, nei cinema di Hawkins in programmazione ci sono Ritorno al futuro e Pee Wee’s Big Adventure, l’adolescenza si affaccia nelle vite dei protagonisti e tutto sembra pronto per festeggiare il 4 luglio. Sembra, perché il Mind Flayer è stato risvegliato da alcuni scienziati russi, in pieno clima di guerra fredda: naturalmente l’esperimento sfugge di mano e la sensazione di déjà-vu nella piccola città americana è sempre più forte.
I fratelli Duffer optano per un cambiamento rispetto al passato, portando la narrazione dall’autunno all’estate, la stagione in cui Stephen King ha ambientato quasi tutte le sue migliori storie, e la sensazione è che ci si potesse quindi trovare immersi in un romanzo kinghiano, come già accaduto in passato. Invece i creatori di Stranger Things si discostano dalle stagioni precedenti, o meglio, crescono assieme ai loro personaggi e si emancipano dalla continua e nostalgica ricerca del riferimento 80s per concentrarsi maggiormente su una trama capace di muoversi fluidamente tra l’horror e la fantascienza. Ovvio, le citazioni non mancano, tra poster nelle camere, canzoni o abbigliamento perticolare, ma sono easter eggs per lo spettatore che desidera divertirsi a trovarle, non uno specchietto per le allodole atto a nascondere una debolezza di intreccio, come capitato in alcuni episodi della seconda stagione.
Non cambia lo schema narrativo, con la trama che (dopo una partenza abbastanza lenta e a forte rischio banalità, rappresentando l’adolescenza dei protagonisti con qualche cliché di troppo) si snoda a più livelli e divide i protagonisti in diversi gruppi, dove ognuno è impegnato in una differente indagine, che si tratti di decifrare un messaggio in codice dell’esercito russo o di trovare l’origine del male a Hawkins, il tutto tra le vetrine di uno dei primi centri commerciali della cittadina, un luogo dove i ragazzi si trovano a fare shopping, a giocare o a lavorare. La colonna sonora che accompagna la narrazione, inoltre, è impeccabile, ed è prezioso l’ingresso di Maya Hawke nel cast, figlia d’arte che mostra di poter ambire ad un futuro roseo da attrice.
Va detto, comunque, che Stranger Things 3 non è esente da difetti: oltre alla difficoltà iniziale a carburare, la tematica del doppio che sembrava nascere dopo pochi episodi viene abbandonata in maniera sbrigativa, quando invece avrebbe costituito uno spunto molto interessante da sviluppare. Pur non arrivando al livello di scrittura e simbolismo della prima stagione (la migliore di tutte, senza dubbio), ci si trova comunque al cospetto di un prodotto in cui la cura di regia e fotografia è evidente e che dal terzo episodio in poi cresce rapidamente fino al termine dell’ottavo. E forse ultimo. Forse. Perché la sequenza after credits lascia intendere ben altro.