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Succession 4: l'epica saga drammatica volge al termine
Succession è un’opera audiovisiva maestosa e magniloquente, un compendio di epica, dramma scespiriano, commedia sagace, docufiction politica e infine grande intrattenimento. La conclusione di questa saga quindi, diventata a tutti gli effetti un’epopea televisiva senza precedenti, non può che sconvolgere una volta per tutte il panorama mediatico. Sarà considerata uno spartiacque? Ci sarà un prima e un dopo Succession? Solo il tempo potrà confermarlo con certezza, sicuramente il suo impatto lascerà un solco molto profondo.

Giunta alla sua quarta stagione, dopo aver trionfato con la precedente al palmares degli Emmy e dei Golden Globes 2022, HBO e i suoi creatori hanno deciso di scrivere il capitolo finale della famiglia Roy. Scelta assolutamente non banale, ma infine completamente logica. Perché la sua vetta di successo corrisponde anche ad un punto di non ritorno, dove lo show, per mantenere alta la qualità, non può rischiare di ripetersi, ma soprattutto di venire meno ad una delle sue numerose carte vincenti, il realismo e la verosimiglianza, un patto stretto con il suo pubblico sin dalla sua prima messa in onda. 

Succession è questo, un ibrido a metà tra documentario e dramma elisabettiano, tra racconto iperrealista e tragedia greca. Al centro di tutto c’è sempre e infine la famiglia, quel luogo di legami obbligati, quel nucleo instabile di relazioni dove le più forti emozioni e i sentimenti più viscerali possono rivoluzionare completamente la scacchiera, cambiare improvvisamente le carte in tavola. Certo, si tratta di un gioco di troni, sin dall’inizio il fulcro dello show è la successione al comando, scoprire su quale capo peserà la corona, ma a fungere veramente da motore sono sempre i rapporti familiari, in grado di sconvolgere gli eventi, fondare nuove alleanze, distruggerle, imboccare vie non ancora tracciate. 

La terza stagione era terminata con due fronti ben distinti: i tre fratelli, Kendall, Roman e Siobhan finalmente alleati e schierati contro il padre Logan. Il terzo litigante è il tecnocrate simil-Musk Lukas Matsson, pronto a conquistare l’impero della Waystar RoyCo. e portare il vecchio colosso delle news verso un futuro più social. Nel frattempo sono in arrivo anche le nuove elezioni per la casa bianca: sarà il repubblicano Mencken, appoggiato da Roman o il democratico Jimenez, sostenuto da Shiv, a sedere nello studio ovale?

Molta carne al fuoco dunque, ma se le puntate ad alto tasso adrenalinico e ricche di colpi di scena non mancano, i creatori preferiscono dare maggior peso agli episodi umani, di confronto e scontro (o di riconciliazione) tra i tre protagonisti, ed è proprio in questo frangente che emerge il lato più profondo. Lo studio psicologico dei personaggi, reso da una scrittura mai così articolata in una serie, raggiunge vette di complessità tali da indurre una naturale e viscerale empatia tra lo spettatore e questi antieroi. Non c’è manipolazione, bensì costruzione. Il dramma cresce, le emozioni vengono represse, poi rilasciate, oppure interiorizzate. 

Ma c’è anche un attentissimo studio della società contemporanea. Succession è l’opera post-post-moderna per eccellenza che riesce a leggere e restituire una visione spaventosamente aderente alla realtà degli ultimi cinque anni. È impressionante come lo show sia stato influenzato dagli eventi ma allo stesso tempo li abbia previsti o percorsi in contemporanea, studiando le tensioni politiche e sociali che ci circondano (vedi i recenti scandali dei Murdoch, ma anche le ultime controversie di Elon Musk e infine le prossime elezioni presidenziali degli Stati Uniti). 

La scrittura poi viene definitivamente valorizzata dalle vibranti interpretazioni del cast. Un cast che abbiamo imparato a conoscere (pochi di loro erano già vere star) e ad amare, attori che non si svestiranno facilmente di questi panni che ormai li identificano totalmente. Jeremy Strong aveva già disegnato l’arco forse più emotivamente drammatico nei panni di Kendall, ma anche Sarah Snook in quelli di Shiv e soprattutto Kieran Culkin in quelli di Roman plasmano una versione definitiva e profondamente sfaccettata dei loro alter-ego. Per non citare ovviamente Brian Cox che vive già nell’immaginario comune come il patriarca, Tycoon e villain Logan Roy. Anche se la vera nemesi di questa quarta stagione è il geniale quanto instabile Matsson, uno strepitoso Alexander Skarsgård. 

Si, non è facile abbandonare questi protagonisti spietati, viziati, odiosi, pericolosi, ma profondamente, ineluttabilmente umani. È la legge di Succession: un alto intrattenimento che non fa sconti. Una continua tensione tra epicità, frutto della fantasia e dell’ingegno del talentuoso scrittore e showrunner Jesse Armstrong, e momenti fortemente ancorati alla realtà, frutto di studio antropologico e analisi psicologica. Ne è paradigma l’uso della pellicola per le riprese quasi completamente realizzate con macchina a mano. Una macchina da presa onnipresente, sorretta da qualcuno che potrebbe essere all’interno della scena e filmare tutto col proprio cellulare. Ma allo stesso tempo un utilizzo tradizionale della pellicola contro il digitale, ancorato ad un’idea classica di cinema ad ampio respiro, epico. Tutto ciò non è dichiaratamente messo in mostra, ma si percepisce in ogni puntata, in ogni singolo frame, dove il diavolo è nei dettagli. 

I solenni archi e le note di piano di Nicholas Britell, mixati con beat di 808, suoneranno per l’ultima volta una delle sigle più iconiche di sempre. Succession, la saga televisiva più importante degli ultimi anni, termina, come i legami, come l’amore, come la vita. 

Si, Succession è uno spartiacque, ci sarà un prima e un dopo. Non resta quindi che riavvolgere il nastro e ammirare ancora una volta gli infiniti dettagli tessuti da questa tela, ripercorrere questo perfetto bilanciamento tra tragedia e commedia, tra gravitas e levitas che ha del miracoloso, una serie televisiva che è già un classico moderno.


Cesare Bisantis
Maximal Interjector
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