Mettetevi il cuore in pace: gli indipendenti americani non giocano secondo le regole della Nouvelle Vague. Se due, per pigrizia e casualità, finiscono nello stesso letto, non c’è da aspettarsi infuocate peripezie sotto le coperte, né tableaux vivants di voyeurismo bollente e scatenato. Agli spaesati protagonisti d’oltreoceano, la vita scivola addosso; la conquista più grande, il riconoscimento stesso della propria esistenza. Così è per Eleonore (Eleonore Hendricks) in The Pleasure of Being Robbed (2008), esordio dei fratelli Joshua e Benjamin Safdie alla regia, disponibile sullo streaming della Library di MUBI. Per arrivare a Diamanti grezzi (2019), prodotto e distribuito da Netflix, il viaggio parte da lontano; ma sempre a New York, grande mela della fertilità narrativa del duo, fa capo.
Ci si arriva a ritroso, a The Pleasure of Being Robbed, che rischia di passare inosservato tra le pieghe della contemporanea produzione indipendente statunitense. Pellicola acerba, il breve spaccato sulla quotidianità della cleptomane Eleonore manca di tratti autoriali forti, e di chiara riconoscibilità artistica. Arrivandoci con in mente i più recenti lavori dei fratelli, Good Time (2017) e Diamanti grezzi (2019), The Pleasure of Being Robbed rischia, quasi, di annoiare: niente fotografia di Sean Price Williams (gotha dell’immagine indie degli anni Duemila), niente imprevedibili rivolgimenti di trama, né doppiogiochismi eclettici. Ci si chiede se non si sia forse sbagliato a fare i conti.
Sfogliare retrospettivamente i veli di questo film-embrione significa, però, osservare con interessato distacco la nascita di una riflessione fattasi poi sistemica, e sistematica. Pur a ritmi narrativi relativamente rilassati, The Pleasure of Being Robbed lascia intravedere una frenesia di fondo: camera a mano, stacchi fulminei, protagonisti molteplicemente al margine della società. New York non riposa mai; azioni e reazioni umane le tengono dietro. Eppure non è il suo ecosistema complesso che interessa i Safdie. Non intrighi tra gioiellieri, sport, e trafficanti d’armi; non traffici sotto il naso dell’ordine organizzato, o meglio, non ancora. Al loro posto, trasformismo camaleontico e naïveté: come la semplicità di un incontro casuale con un vecchio amico (Josh, interpretato dal regista Joshua Safdie) e un viaggio fino a Boston con una macchina rubata per passare una notte di casta fratellanza (o almeno, così afferra la camera).
Lentezza stupefatta, e individualista. Contro le folle confuse del viavai metropolitano, i Safdie recuperano la lezione delle prime ondate di indipendenti americani, quelle che, nei Sessanta prima e negli Ottanta poi, avevano espresso germogli quali John Cassavetes, Jim Jarmusch, e Gus Van Sant. Una filmografia del non-luogo, dove il Paese più estraneo è proprio quello in cui si è nati. Ma se il girovagare di Eleonore finisce, a vuoto, sul punto di partenza, il percorso dei Safdie vola invece in avanti. E tra colori, nostalgia, e disincantato ritratto del presente i fratelli vengono infine raggruppati a pieno titolo nella fascia degli auteur di, forse, una terza ondata indie per la East Coast. Vi dicono nulla le vibrazioni al neon di Harmony Korine?
Elisa Teneggi
Ci si arriva a ritroso, a The Pleasure of Being Robbed, che rischia di passare inosservato tra le pieghe della contemporanea produzione indipendente statunitense. Pellicola acerba, il breve spaccato sulla quotidianità della cleptomane Eleonore manca di tratti autoriali forti, e di chiara riconoscibilità artistica. Arrivandoci con in mente i più recenti lavori dei fratelli, Good Time (2017) e Diamanti grezzi (2019), The Pleasure of Being Robbed rischia, quasi, di annoiare: niente fotografia di Sean Price Williams (gotha dell’immagine indie degli anni Duemila), niente imprevedibili rivolgimenti di trama, né doppiogiochismi eclettici. Ci si chiede se non si sia forse sbagliato a fare i conti.
Sfogliare retrospettivamente i veli di questo film-embrione significa, però, osservare con interessato distacco la nascita di una riflessione fattasi poi sistemica, e sistematica. Pur a ritmi narrativi relativamente rilassati, The Pleasure of Being Robbed lascia intravedere una frenesia di fondo: camera a mano, stacchi fulminei, protagonisti molteplicemente al margine della società. New York non riposa mai; azioni e reazioni umane le tengono dietro. Eppure non è il suo ecosistema complesso che interessa i Safdie. Non intrighi tra gioiellieri, sport, e trafficanti d’armi; non traffici sotto il naso dell’ordine organizzato, o meglio, non ancora. Al loro posto, trasformismo camaleontico e naïveté: come la semplicità di un incontro casuale con un vecchio amico (Josh, interpretato dal regista Joshua Safdie) e un viaggio fino a Boston con una macchina rubata per passare una notte di casta fratellanza (o almeno, così afferra la camera).
Lentezza stupefatta, e individualista. Contro le folle confuse del viavai metropolitano, i Safdie recuperano la lezione delle prime ondate di indipendenti americani, quelle che, nei Sessanta prima e negli Ottanta poi, avevano espresso germogli quali John Cassavetes, Jim Jarmusch, e Gus Van Sant. Una filmografia del non-luogo, dove il Paese più estraneo è proprio quello in cui si è nati. Ma se il girovagare di Eleonore finisce, a vuoto, sul punto di partenza, il percorso dei Safdie vola invece in avanti. E tra colori, nostalgia, e disincantato ritratto del presente i fratelli vengono infine raggruppati a pieno titolo nella fascia degli auteur di, forse, una terza ondata indie per la East Coast. Vi dicono nulla le vibrazioni al neon di Harmony Korine?
Elisa Teneggi