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The Social Network: la solitudine di Mark Zuckerberg raccontata da David Fincher

Ripley, Tyler Durden, Lisbeth Salander, Nick Dunne: la galleria di "personaggi soli" firmata da David Fincher nel 2010 si arricchiva di un elemento illustre, all’epoca all’apice della fama e della popolarità, nientemeno che Mark Zuckerberg. L’inventore di Facebook nelle mani di Fincher e di Aaron Sorkin (che dà una vera e propria lezione di sceneggiatura) in The Social Network viene tratteggiato in maniera gelida e distaccata, senza alcun impatto emotivo (suo e nostro), un personaggio ambiguo capace di attirare e respingere, nello stesso tempo. Vittima (di Sean) o carnefice (di Saverin)? La risposta è lasciata al giudizio di chi osserva.
Fincher, come di consueto, sceglie la via della perfezione formale, della ricerca estetica e tecnica, azzerando quasi totalmente l’impatto emozionale e il coinvolgimento dello spettatore nei riguardi dei protagonisti, raccontando in un biopic atipico l’origine del social network che ha, di fatto, rivoluzionato il mondo del web e delle relazioni virtuali: tanto geniale, quanto crudele nelle scelte da compiere per arrivarci. 

«È sufficiente un po' di logica per arrivare al succo della questione. Se voi foste gli inventori di Facebook, avreste inventato Facebook»


 
Spietato, il regista non dà spazio alla redenzione, per nessuno: per i gemelli Winklevoss, incapaci di accettare di arrivare secondi, per l’inventore di Napster Sean Parker (notevole Justin Timberlake), ma soprattutto per Zuckerberg, a tratti spaesato e in balia degli eventi, anche se solo apparentemente. In tal senso è esplicita la prima sequenza in cui la personalità di Mark viene presentata senza filtri mentre dialoga con la sua ragazza (Rooney Mara): arrogante, borioso, completamente incapace di empatia e di tatto. Sarà così sempre, anche nei dialoghi con il suo socio e migliore amico (?) Eduardo Saverin (Andrew Garfield), che sembra essere dipinto come l’unica vera vittima di tutta la vicenda: illuso, maltrattato, usato, fatto fuori. Ma il delitto è quantomai imperfetto, il mandante è fallace e perso nei suoi vizi: la parte diabolica sulla spalla di Zuckerberg si dimostra ciò che è, ma il protagonista lo capisce fino in fondo troppo tardi per rendersi davvero conto di quanto stia accadendo in maniera così rapida. Forse troppo rapida. Incontrollabile. 

«Non sappiamo ancora di che si tratta, non sappiamo cosa sia, non sappiamo cosa può essere, non sappiamo cosa... diventerà, sappiamo solo che è fico! E questo è un valore inestimabile a cui non rinuncio».



La colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross, inoltre, è quantomai valore aggiunto in quest’opera dal ritmo incalzante, un meccanismo perfetto di scrittura e montaggio (premiata infatti con tre statuette nelle rispettive categorie) in cui resta indelebile nella memoria la sequenza della gara di canottaggio sulle note di In the Hall of the Mountain King. Scorre tutto velocemente, non c’è tregua in questa vicenda romanzata e intrigante, tra incontri con gli avvocati e racconto degli eventi, in uno scambio serrato di flashback e narrazione presente, in cui non c’è tempo per le emozioni, ma solo per gli affari. Forse.

F5.

Maximal Interjector
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