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The Son e il cinema dei padri assenti
Negli ultimi anni il cinema ha messo in scena, con diversi gradi di profondità e sfruttando diversi generi, innumerevoli dinamiche familiari: rapporti disfunzionali tra coniugi, rivalità tra fratelli, legami spezzati e/o ritrovati tra genitori e figli. Una tematica che sembra ricorrere piuttosto frequentemente nel cinema del nuovo millennio, forse come conseguenza dei divari generazionali sempre più accentuati e di una graduale sensibilizzazione verso il loro impatto psicologico sui più giovani, è proprio quella della distanza (fisica o emotiva, completa o parziale, reale o unilateralmente percepita) che i padri interpongono fra loro e i propri figli, vuoi per un nobile scopo come una missione spaziale o semplicemente a causa dell’imprevedibilità della vita o della fallibilità della natura umana.


Questo uno dei nuclei tematici attorno a cui ruota il nuovo film di Florian Zeller, The Son, la struggente storia di un figlio, anzi, di tre figli, le cui figure paterne non costituiscono esattamente un modello esemplare. Anthony non nutre alcun senso di colpa per l’impatto traumatico che il suo comportamento ha avuto su Peter in passato; Peter, invece, è sempre fuori per lavoro e troppo spesso irreperibile, tant’è che riesce a malapena a ritagliarsi del tempo da dedicare non solo al figlio adolescente (che ora più che mai ha bisogno del suo sostegno), ma anche a quello appena nato dall’unione con la sua nuova compagna. Peter si è ripromesso di non diventare mai come suo padre, eppure, nel venire a conoscenza delle difficoltà di Nicholas, si ritrova a ripetere lo stesso errore di Anthony: rinfacciare al figlio ciò che gli obblighi disattesi comporteranno per il suo futuro lavorativo, senza provare a comprendere fino in fondo le cause del suo malessere. Perciò, nonostante la distanza fisica tra lui e il ragazzo venga colmata dalla loro nuova convivenza, quella creata dall’incomunicabilità si rivela un ostacolo ancora più ingombrante.


Se The Son è frutto di una contemporaneità in cui inizia ad emergere la necessità di attribuire ad ogni individuo un valore che vada oltre i traguardi raggiunti, in Wildlife (2018) di Paul Dano la carriera realizza effettivamente il proprio potenziale distruttivo in un contesto come quello dell’America degli anni ‘60. Dopo aver perso il lavoro e il senso della propria esistenza, Jerry precipita in una profonda crisi depressiva che lo spingerà a lasciare (anche se momentaneamente) la moglie e il figlio per andare a domare un grosso incendio boschivo. Questa partenza improvvisa ha delle conseguenze che costringono il giovane Joe a maturare troppo in fretta: assisterà infatti a un doloroso e discutibile cambiamento nella madre, il quale lo spingerà a dover assumere il ruolo dell’“uomo di casa”, e all’inevitabile naufragio del matrimonio dei genitori.



Cambiando radicalmente scenario, la lontananza tra genitore e figlio in Interstellar (2014) di Christopher Nolan viene amplificata fino a ricoprire distanze misurabili in anni luce, pur mantendendo paradossalmente un tono più speranzoso da queso punto di vista. Quello di Cooper è un abbandono dettato da una questione di vita o di morte, ma non per questo meno doloroso per i figli Tom e Murph, che dovranno assistere alla sua partenza verso un cosmo che potrebbe reclamarlo per sempre, un “per sempre” che sulla Terra ha una durata diversa rispetto a dove è diretto Cooper. Tuttavia l’immenso affetto che li lega non viene ostacolato nemmeno dalle leggi della fisica e, anzi, Cooper cercherà di mettersi in contatto con Murph attraverso le diverse dimensioni temporali.