Cinema e teatro sono due forme d’arte fondamentali per la storia collettiva, due universi paralleli che si muovono all’unisono, entrambi specchio di qualsiasi realtà o contesto, segnati dall’evolversi del tempo e della cultura. Seppur indipendenti l’uno dall’altro, queste due forme artistiche hanno imparato a dialogare, sin dalle origini, dando vita, grazie a questo scambio continuo di stilemi, di paradigmi culturali, a opere che oggi potremmo definire d’impostazione teatrale o, parallelamente, a spettacoli d’impianto cinematografico. Nel primo caso, il teatro ha influenzato in modo specifico la creazione del cinema, la sua sperimentazione e la sua formazione: dal teatro ottico di Reynaud nel 1888 — uno stimolo puramente formale —, fino ai supporti logistici che hanno consentito al cinema di venire alla luce in uno spazio di aggregazione, come hanno dimostrato i fratelli Lumière nel 1895. Dunque, se il teatro è uno spettacolo destinato a mettere in moto delle dinamiche di carattere scopico, il cinema si è evoluto di conseguenza, utilizzando varie modalità di fruizione teatrale e dimostrando, nel corso di tutto il XX secolo, di essere un attento osservatore traendo ispirazione dalla narrazione teatrale: dal Kammerspiel degli anni Venti al palcoscenico delle nevrosi di Woody Allen, dalla claustrofobia dei thriller hitchcockiani come Nodo alla gola (1948) o La finestra sul cortile (1954) alle rappresentazioni della crisi della borghesia di Luis Bunuel. Nel cinema contemporaneo, dai primi anni 2000, queste rappresentazioni tendono a mettere in scena delle individualità frammentate, disgregate, costrette, in ambienti angusti, a fare i conti con sé stesse, oppure comunità o gruppi di persone che, proprio perché vincolati in un unico luogo in un unico tempo, si vedono impegnati a risolvere tensioni sentimentali o sociali.

Nel nuovo lungometraggio di Darren Aronofsky, The Whale (2022), il dramma da camera si risolve all’interno delle mura dell’abitazione di Charlie (Brendan Fraser), un insegnante affetto da una grave forma di obesità. L’opera di Aronofsky, regista da sempre attento a indagare le forme e le mutazioni del corpo umano, si fonda su di una struttura prettamente drammaturgica in cui gli eventi accadono, vista l’impossibilità di Charlie di spaziare al di fuori della propria casa, in un unico luogo, un unico palcoscenico in cui viene rappresentata la crisi di un uomo, ingabbiato fisicamente e psicologicamente, costretto a risolvere questa sua idiosincrasia sociale e famigliare, restaurando il legame spezzato con la figlia Ellie (Sadie Sink). In The Whale l’aspetto claustrofobico passa attraverso la malinconia negli occhi di Charlie, nel suo respiro affannoso, nel suo corpo spossato e in queste mura opprimenti, con le finestre che filtrano il grigiore esterno, il freddo e la pioggia che sembrano accentuare la fotografia cinerea degli interni, abile a consegnarci il ritratto di un uomo solo, (auto)costretto a restituirsi in forme quasi apocalittiche, deleterie e patetiche. Lo stesso aspetto claustrofobico, opprimente, passa attraverso le nevrosi di un altro uomo, la cui psicolabilità è definita dall’età, ovvero l’ottantenne Anthony (Anthony Hopkins), protagonista di The Father (2020), adattamento dell’omonima pièce teatrale di Florian Zeller. Il regista e drammaturgo francese, qui al suo esordio dietro la macchina da presa, dimostra di saper sfruttare al meglio il linguaggio cinematografico per mettere in scena un vero e proprio sogno (o incubo) a occhi aperti. A differenza del personaggio di Charlie, Anthony non è impossibilitato a lasciare il suo appartamento ma si rifiuta categoricamente di farlo, non volendo essere rinchiuso in una struttura per anziani. Le mura di casa sua, però, sembrano ormai non essergli più amiche, non ricondurlo più a quella sensazione di calore, di piacere domestico: ora, aggravato da una sempre più acuta demenza senile, si ritrova schiacciato, intrecciato in un tessuto sociale che non riconosce più, e che sembra a sua volta non riconoscerlo. Mentre i volti dei suoi cari si mescolano con quelli di estranei, Anthony si imbarca in un viaggio negli abissi più profondi della sua mente cercando di risolvere la matassa di pensieri che lo affligge, lo opprime e lo riconduce a sé stesso; un sé che, però, a questo punto del racconto, è totalmente disgregato, labile e frammentato. Lo stesso Zeller, forte del successo di critica e di pubblico, nel 2022 adatta un altro suo spettacolo teatrale mettendo nuovamente di fronte alla macchina da presa i caratteri del dramma da camera. Si tratta di The Son (2022) che, a differenza della sua opera prima, è un film che adotta una messinscena più contenuta, più convenzionale, rappresentando un dramma famigliare che sposta il focus dalla claustrofobia mentale al peso del senso di colpa del protagonista Peter (Hugh Jackman).

Ciò che accomuna fortemente questi tre film, oltre all’impianto teatrale, è il successo in termini di premi cinematografici. Oltre alle nomination (Oscar, Golden Globe, BAFTA) che premiano la struttura narrativa e la sceneggiatura, questi film, attraverso la rappresentazione di soggettività parcellizzate, segmentate, oppresse in ambienti angusti, offrono allo spettatore delle forti prove attoriali. Basti pensare all’Oscar al miglior attore per Anthony Hopkins, la candidatura allo spesso premio per Brendan Fraser nel 2023 e la nomination al Golden Globe per Hugh Jackman. Anche lo stesso Tom Hardy, protagonista assoluto del tour de force di Steven Knight Locke (2013), un concentrato di suspense claustrofobica e feroci suggestioni, è autore di una performance tanto difficile nella sua straordinaria essenzialità quanto maestosa (non a caso, anch’egli è stato lodato dalla critica specialistica). Qui il palcoscenico è mobile, anzi, è un’automo bile, con l’attore londinese, alla guida per più di novanta minuti, che si trova ad affrontare telefonicamente, con la macchina da presa fissa sul suo volto, una serie di problemi, professionali ed esistenziali, all’interno del proprio abitacolo.

Dopo questa prima categorizzazione, è importante porre l’accento su come, specialmente all’interno dei film di genere, queste dinamiche, queste tensioni narrative e teatrali, si possano risolvere all’interno di un gruppo, omogeneo o eterogeneo, forzati per qualche particolare motivo a convivere lo spazio scenico. Lo stesso Quentin Tarantino sembra aver attinto a piene mani al teatro - specialmente alla pièce Trappola per topi di Agatha Christie - per mettere in scena il suo ottavo film, The Hateful Eight (2015). Ambientato a distanza di pochi anni dalla conclusione della Guerra Civile americana, l’incipit del western innevato di Tarantino vede al centro una diligenza, con a bordo una fuorilegge condannata a morte, costretta, a causa di un’impervia bufera, a sostare all’emporio di Minnie. Queste quattro mura si dimostrano il palcoscenico perfetto per mettere in scena le tensioni psicologiche e sociali di questi “otto personaggi in cerca d’autore”, ognuno con la propria quest, con il proprio passato, tutti destinati, a un certo punto del racconto, a esplodere. Questi affascinanti stereotipi dei profili western, tanto cari allo stesso Tarantino, incarnano le peggiori tare degli esseri umani, le bestialità che prendono il sopravvento e guidano l’intero arco narrativo verso un incontrollabile massacro. Queste dinamiche, anche se non in forme così gore, è possibile ritrovarle in altri due drammi da camera o, ancora meglio, da “salotto”. In Carnage di Roman Polanski (2011) e in The Party di Sally Potter (2017), i tipi borghesi prendono il posto dei gangster con lo stivale e, attraverso le forme del grottesco, vengono smascherate tutte le ipocrisie, le falsità e i finti idoli su cui poggiano le certezze di questi piccoli gruppi sociali, perbenisti e (solo all’apparenza) civili. Nel capolavoro del regista polacco, adattamento della geniale pièce teatrale Il Dio del massacro di Yasmine Reza, due coppie di genitori decidono d’incontrarsi, in seguito a una rissa che ha visto coinvolti i rispettivi figli, per chiarire, attraverso un incontro formale, la vicenda. All’interno di un unico ambiente, le parole dei protagonisti diventano come macigni e, con il procedere del racconto, questo rapporto fra spazio, dialogo e paura, esplode in un climax cinico, spietato, che si conclude con una panoramica del salotto, ormai totalmente disordinato, in cui le due coppie, sedute e in silenzio, sono ormai straniate, disancorate da quelle che credevano essere le loro certezze. Similmente, nella british comedy della Potter, questi meccanismi, queste tensioni vengono introdotte nel momento in cui, durante i festeggiamenti per la promozione professionale di Janet (Kristin Scott Thomas), i partecipanti scoprono degli assurdi retroscena, dei drammi interni ed esterni al gruppo di amici, nonché delle sconcertanti confessioni personali, che fomenteranno un clima sempre più torbido, più teso, fino a trasformare il piacevole rinfresco iniziale in un amaro cocktail finale condito da bugie, intrighi e proiettili.

Nel nuovo lungometraggio di Darren Aronofsky, The Whale (2022), il dramma da camera si risolve all’interno delle mura dell’abitazione di Charlie (Brendan Fraser), un insegnante affetto da una grave forma di obesità. L’opera di Aronofsky, regista da sempre attento a indagare le forme e le mutazioni del corpo umano, si fonda su di una struttura prettamente drammaturgica in cui gli eventi accadono, vista l’impossibilità di Charlie di spaziare al di fuori della propria casa, in un unico luogo, un unico palcoscenico in cui viene rappresentata la crisi di un uomo, ingabbiato fisicamente e psicologicamente, costretto a risolvere questa sua idiosincrasia sociale e famigliare, restaurando il legame spezzato con la figlia Ellie (Sadie Sink). In The Whale l’aspetto claustrofobico passa attraverso la malinconia negli occhi di Charlie, nel suo respiro affannoso, nel suo corpo spossato e in queste mura opprimenti, con le finestre che filtrano il grigiore esterno, il freddo e la pioggia che sembrano accentuare la fotografia cinerea degli interni, abile a consegnarci il ritratto di un uomo solo, (auto)costretto a restituirsi in forme quasi apocalittiche, deleterie e patetiche. Lo stesso aspetto claustrofobico, opprimente, passa attraverso le nevrosi di un altro uomo, la cui psicolabilità è definita dall’età, ovvero l’ottantenne Anthony (Anthony Hopkins), protagonista di The Father (2020), adattamento dell’omonima pièce teatrale di Florian Zeller. Il regista e drammaturgo francese, qui al suo esordio dietro la macchina da presa, dimostra di saper sfruttare al meglio il linguaggio cinematografico per mettere in scena un vero e proprio sogno (o incubo) a occhi aperti. A differenza del personaggio di Charlie, Anthony non è impossibilitato a lasciare il suo appartamento ma si rifiuta categoricamente di farlo, non volendo essere rinchiuso in una struttura per anziani. Le mura di casa sua, però, sembrano ormai non essergli più amiche, non ricondurlo più a quella sensazione di calore, di piacere domestico: ora, aggravato da una sempre più acuta demenza senile, si ritrova schiacciato, intrecciato in un tessuto sociale che non riconosce più, e che sembra a sua volta non riconoscerlo. Mentre i volti dei suoi cari si mescolano con quelli di estranei, Anthony si imbarca in un viaggio negli abissi più profondi della sua mente cercando di risolvere la matassa di pensieri che lo affligge, lo opprime e lo riconduce a sé stesso; un sé che, però, a questo punto del racconto, è totalmente disgregato, labile e frammentato. Lo stesso Zeller, forte del successo di critica e di pubblico, nel 2022 adatta un altro suo spettacolo teatrale mettendo nuovamente di fronte alla macchina da presa i caratteri del dramma da camera. Si tratta di The Son (2022) che, a differenza della sua opera prima, è un film che adotta una messinscena più contenuta, più convenzionale, rappresentando un dramma famigliare che sposta il focus dalla claustrofobia mentale al peso del senso di colpa del protagonista Peter (Hugh Jackman).
Ciò che accomuna fortemente questi tre film, oltre all’impianto teatrale, è il successo in termini di premi cinematografici. Oltre alle nomination (Oscar, Golden Globe, BAFTA) che premiano la struttura narrativa e la sceneggiatura, questi film, attraverso la rappresentazione di soggettività parcellizzate, segmentate, oppresse in ambienti angusti, offrono allo spettatore delle forti prove attoriali. Basti pensare all’Oscar al miglior attore per Anthony Hopkins, la candidatura allo spesso premio per Brendan Fraser nel 2023 e la nomination al Golden Globe per Hugh Jackman. Anche lo stesso Tom Hardy, protagonista assoluto del tour de force di Steven Knight Locke (2013), un concentrato di suspense claustrofobica e feroci suggestioni, è autore di una performance tanto difficile nella sua straordinaria essenzialità quanto maestosa (non a caso, anch’egli è stato lodato dalla critica specialistica). Qui il palcoscenico è mobile, anzi, è un’automo bile, con l’attore londinese, alla guida per più di novanta minuti, che si trova ad affrontare telefonicamente, con la macchina da presa fissa sul suo volto, una serie di problemi, professionali ed esistenziali, all’interno del proprio abitacolo.
Dopo questa prima categorizzazione, è importante porre l’accento su come, specialmente all’interno dei film di genere, queste dinamiche, queste tensioni narrative e teatrali, si possano risolvere all’interno di un gruppo, omogeneo o eterogeneo, forzati per qualche particolare motivo a convivere lo spazio scenico. Lo stesso Quentin Tarantino sembra aver attinto a piene mani al teatro - specialmente alla pièce Trappola per topi di Agatha Christie - per mettere in scena il suo ottavo film, The Hateful Eight (2015). Ambientato a distanza di pochi anni dalla conclusione della Guerra Civile americana, l’incipit del western innevato di Tarantino vede al centro una diligenza, con a bordo una fuorilegge condannata a morte, costretta, a causa di un’impervia bufera, a sostare all’emporio di Minnie. Queste quattro mura si dimostrano il palcoscenico perfetto per mettere in scena le tensioni psicologiche e sociali di questi “otto personaggi in cerca d’autore”, ognuno con la propria quest, con il proprio passato, tutti destinati, a un certo punto del racconto, a esplodere. Questi affascinanti stereotipi dei profili western, tanto cari allo stesso Tarantino, incarnano le peggiori tare degli esseri umani, le bestialità che prendono il sopravvento e guidano l’intero arco narrativo verso un incontrollabile massacro. Queste dinamiche, anche se non in forme così gore, è possibile ritrovarle in altri due drammi da camera o, ancora meglio, da “salotto”. In Carnage di Roman Polanski (2011) e in The Party di Sally Potter (2017), i tipi borghesi prendono il posto dei gangster con lo stivale e, attraverso le forme del grottesco, vengono smascherate tutte le ipocrisie, le falsità e i finti idoli su cui poggiano le certezze di questi piccoli gruppi sociali, perbenisti e (solo all’apparenza) civili. Nel capolavoro del regista polacco, adattamento della geniale pièce teatrale Il Dio del massacro di Yasmine Reza, due coppie di genitori decidono d’incontrarsi, in seguito a una rissa che ha visto coinvolti i rispettivi figli, per chiarire, attraverso un incontro formale, la vicenda. All’interno di un unico ambiente, le parole dei protagonisti diventano come macigni e, con il procedere del racconto, questo rapporto fra spazio, dialogo e paura, esplode in un climax cinico, spietato, che si conclude con una panoramica del salotto, ormai totalmente disordinato, in cui le due coppie, sedute e in silenzio, sono ormai straniate, disancorate da quelle che credevano essere le loro certezze. Similmente, nella british comedy della Potter, questi meccanismi, queste tensioni vengono introdotte nel momento in cui, durante i festeggiamenti per la promozione professionale di Janet (Kristin Scott Thomas), i partecipanti scoprono degli assurdi retroscena, dei drammi interni ed esterni al gruppo di amici, nonché delle sconcertanti confessioni personali, che fomenteranno un clima sempre più torbido, più teso, fino a trasformare il piacevole rinfresco iniziale in un amaro cocktail finale condito da bugie, intrighi e proiettili.