La prima giornata del Torino Film Festival 2019 ha visto prendere il via il concorso TFF 37, dedicato come sempre a opere prime, seconde ed eccezionalmente anche terze.
Il primo film a passare è stato ALGUNAS BESTIAS del cileno Jorge Riquelme Serrano, disturbante opera prima che vede tre generazioni di una famiglia bloccate su una remota isoletta dopo la sparizione del loro aiutante e della sua barca. Si tratta di uno spaccato familiare ad alto tasso di tensioni latenti sempre sul punto di esplodere e freddezza raggelante, che il giovane cineasta evidenzia a chiare lettere fin dalle prime, glaciali inquadrature. Appare palese anche il debito col cinema del connazionale Pablo Larraín, a partire dalla fotografia e dalla grana nebbiosa delle immagini, e Algunas bestias somiglia a più riprese a una versione familiare de Il club, con a troneggiare sullo schermo, nel loro coacervo di durezza, impassibilità e vergogne indicibili, il patriarca e la matriarca interpretati rispettivamente da Alfredo Castro e Paulina García, entrambi prossimi a una dimensione da Macbeth shakespeariano. Il crescendo della sceneggiatura è indubbiamente agghiacciante ed è proprio Castro, in una sequenza carezzevole eppure spietata, nella quale il suo personaggio provvede a violentare sessualmente la nipote, a fornire una delle sue consuete interpretazioni ad alto tasso di pulsioni viscerali e ricadute morali dai tratti ombrosi, perfino mostrificati. Peccato però che il film, col passare dei minuti, non rinunci nemmeno a una buona dose di manierismo e a una pomposità sfacciata che fanno somigliare il tutto a un preordinato esercizio di stile, estremamente meccanico nella sua ostentata assenza di sconti e di pietas umana ma privo di evoluzioni catarchiche e risolutive all'interno dell'arco narrativo. Rilevante, in compenso, il tentativo di calare la vicenda in un contesto chirurgico e impietoso, pronto a fare i conti con la nozione di classe e con i suoi mutamenti odierni ed estremamente fluidi, dissezionati da dialoghi e picchi di scrittura tutt'altro che lasciati al caso.
Il film successivo del concorso, LE CHOC DU FUTUR, è invece un'iniezione di vitalità di segno nettamente diverso. A Parigi, nel 1978, Ana (interpretata da una meravigliosa Eva Jodorowsky) è frustrata dalla continua composizione di jingle pubblicitari e cerca di farsi strada nel mondo della discografia producendo electro music in totale autonoia, tra sintetizzatori e macchinari all'avanguardia, compresa una delle prime beatbox importate in Francia che le viene regalata da un amico. Si tratta di un film piccolissimo ma accarezzato da una magia irresistibile, tutto ambientato all'interno di uno studio domestico di produzione discografica, ed è l'opera prima di Marc Collin, co-fondatore dei Nouvelle Vague, che si pone in scia a Eden di Mia Hansen-Løve raccontando la musica elettronica da una prospettiva intima e romantica, minimale ed alto tasso di sospensione sentimentale e coinvolgimento epidermico. Un gioiello dall'atmosfera sintetica e fluttuante e un omaggio alla musica elettronica non solo francese, ai suoi loop scarnificati, all'ebbrezza delicata e tagliente che questo genere ha saputo portare con sé, duellando con le convenzioni dell'industria musicale e scomponendole e ricomponendole in barba a mode e tendenze imperanti.
Il film d'apertura era invece l'attesissimo JOJO RABBIT di Taika Waititi. Jojo (Roman Griffin Davis) ha dieci anni, vive a Vienna con la mamma (Scarlett Johansson) e ha un amico immaginario dispotico: Adolf Hitler (Taika Waititi). Nazista fanatico, col padre “al fronte” a boicottare il regime e la madre a casa a fare quello che può contro di esso, è integrato nella gioventù hitleriana. Tra un’esercitazione e un lancio di granata, Jojo scopre che la madre nasconde in casa Elsa (Thomasin McKenzie), una ragazzina ebrea che ama il disegno, le poesie di Rilke e il fidanzato partigiano, Nathan. L’attore, regista e comico neozelandese Taika Waititi s’insinua nel territorio sempre rischioso e scivoloso della satira sul nazismo realizzando una fiaba per ragazzi in cui la vicenda tragica dell’Olocausto viene riletta con piglio solare e divertito, tra momenti esplicitamente parodici e ricadute drammatiche complessivamente dosate, in cui le farfalle non si limitano ad abitare nelle viscere del piccolo Jojo, innamorato di una coetanea ebrea, ma provvedono anche a fare da apripista a orrori repentini e inaspettati. Waititi, anche interprete di un Hitler che fa il pieno di scatenato macchiettismo, dimostra una discreta ispirazione nel fare i conti con la leggerezza dell’affresco storico a misura di bambino, ma il film pecca di molte ingenuità narrative e di una dose non indifferente di momenti stucchevoli e telefonati, nei quali manca il coraggio per affondare la propria vena caustica nel cuore della Storia. Con queste premesse Jojo Rabbit rimane un gradevole esempio d’intrattenimento pensante, ma l’autore, avvezzo a un cinema esplosivo e ridanciano, non sembra avere spalle larghe a sufficienza per gettare il cuore oltre l’ostacolo del dramma della Shoah, pietra di paragone con cui rimane difficilissimo fare i conti. Tra le sequenze più ispirate spicca sicuramente il prologo dell’addestramento della gioventù hitleriana, con tanto di presa in giro forsennata del saluto “Heil Hitler!”, ma in generale appare piuttosto evidente il debito d’ispirazione con i costumi e l’aspetto visivo di Moonrise Kingdom di Wes Anderson, a tratti esplicitamente citato nelle traiettorie estetiche e narrative fin quasi a sconfinare nel calco e nella copia conforme. Tratto dal libro Caging Skies, di Christine Leunens.
Menzione finale della giornata per THE BAREFOOT EMPEROR della coppia di cineasti belgi Jessica Woodworth e Peter Brosens. Al centro della storia c'è Nicolas III Re del Belgio, che ferito a Sarajevo mentre tentava il rientro in patria si sveglia in un sanatorio su un'isola croata, un tempo residenza estiva di Tito, gestito da uno strano medico con tendenze sovraniste. Nel frattempo, all'esterno, l'Unione Europea sta crollando e c'è chi sogna l'impero. Sequel di King of the Belgians, diretto dai medesimi registi tre anni fa (da noi è uscito nelle sale col titolo Un re allo sbando), è un satira politica meno fluida e graffiante del film precedente, inutilmente fosca e arzigogolata. Evidente è la volontà di ironizzare con caustico livore sulle derive destrorse e cocentemente attuali del Vecchio Continente, ma il tentativo di fondere la sensibilità di Straub e Huillet con una sulfurea black comedy fiamminga produce uno stallo soporifero e di difficile risoluzione, inerte e con poche frecce al suo arco in grado di andare a segno. Nel cast, col pilota automatico, sono impegnati anche Geraldine Chaplin e l'immancabile, inarrestabile Udo Kier, che fa il pieno, come di consueto, di grottesco a briglia sciolta e tensioni sulfuree e fuori controllo.
Davide Stanzione
Il primo film a passare è stato ALGUNAS BESTIAS del cileno Jorge Riquelme Serrano, disturbante opera prima che vede tre generazioni di una famiglia bloccate su una remota isoletta dopo la sparizione del loro aiutante e della sua barca. Si tratta di uno spaccato familiare ad alto tasso di tensioni latenti sempre sul punto di esplodere e freddezza raggelante, che il giovane cineasta evidenzia a chiare lettere fin dalle prime, glaciali inquadrature. Appare palese anche il debito col cinema del connazionale Pablo Larraín, a partire dalla fotografia e dalla grana nebbiosa delle immagini, e Algunas bestias somiglia a più riprese a una versione familiare de Il club, con a troneggiare sullo schermo, nel loro coacervo di durezza, impassibilità e vergogne indicibili, il patriarca e la matriarca interpretati rispettivamente da Alfredo Castro e Paulina García, entrambi prossimi a una dimensione da Macbeth shakespeariano. Il crescendo della sceneggiatura è indubbiamente agghiacciante ed è proprio Castro, in una sequenza carezzevole eppure spietata, nella quale il suo personaggio provvede a violentare sessualmente la nipote, a fornire una delle sue consuete interpretazioni ad alto tasso di pulsioni viscerali e ricadute morali dai tratti ombrosi, perfino mostrificati. Peccato però che il film, col passare dei minuti, non rinunci nemmeno a una buona dose di manierismo e a una pomposità sfacciata che fanno somigliare il tutto a un preordinato esercizio di stile, estremamente meccanico nella sua ostentata assenza di sconti e di pietas umana ma privo di evoluzioni catarchiche e risolutive all'interno dell'arco narrativo. Rilevante, in compenso, il tentativo di calare la vicenda in un contesto chirurgico e impietoso, pronto a fare i conti con la nozione di classe e con i suoi mutamenti odierni ed estremamente fluidi, dissezionati da dialoghi e picchi di scrittura tutt'altro che lasciati al caso.
Il film successivo del concorso, LE CHOC DU FUTUR, è invece un'iniezione di vitalità di segno nettamente diverso. A Parigi, nel 1978, Ana (interpretata da una meravigliosa Eva Jodorowsky) è frustrata dalla continua composizione di jingle pubblicitari e cerca di farsi strada nel mondo della discografia producendo electro music in totale autonoia, tra sintetizzatori e macchinari all'avanguardia, compresa una delle prime beatbox importate in Francia che le viene regalata da un amico. Si tratta di un film piccolissimo ma accarezzato da una magia irresistibile, tutto ambientato all'interno di uno studio domestico di produzione discografica, ed è l'opera prima di Marc Collin, co-fondatore dei Nouvelle Vague, che si pone in scia a Eden di Mia Hansen-Løve raccontando la musica elettronica da una prospettiva intima e romantica, minimale ed alto tasso di sospensione sentimentale e coinvolgimento epidermico. Un gioiello dall'atmosfera sintetica e fluttuante e un omaggio alla musica elettronica non solo francese, ai suoi loop scarnificati, all'ebbrezza delicata e tagliente che questo genere ha saputo portare con sé, duellando con le convenzioni dell'industria musicale e scomponendole e ricomponendole in barba a mode e tendenze imperanti.
Il film d'apertura era invece l'attesissimo JOJO RABBIT di Taika Waititi. Jojo (Roman Griffin Davis) ha dieci anni, vive a Vienna con la mamma (Scarlett Johansson) e ha un amico immaginario dispotico: Adolf Hitler (Taika Waititi). Nazista fanatico, col padre “al fronte” a boicottare il regime e la madre a casa a fare quello che può contro di esso, è integrato nella gioventù hitleriana. Tra un’esercitazione e un lancio di granata, Jojo scopre che la madre nasconde in casa Elsa (Thomasin McKenzie), una ragazzina ebrea che ama il disegno, le poesie di Rilke e il fidanzato partigiano, Nathan. L’attore, regista e comico neozelandese Taika Waititi s’insinua nel territorio sempre rischioso e scivoloso della satira sul nazismo realizzando una fiaba per ragazzi in cui la vicenda tragica dell’Olocausto viene riletta con piglio solare e divertito, tra momenti esplicitamente parodici e ricadute drammatiche complessivamente dosate, in cui le farfalle non si limitano ad abitare nelle viscere del piccolo Jojo, innamorato di una coetanea ebrea, ma provvedono anche a fare da apripista a orrori repentini e inaspettati. Waititi, anche interprete di un Hitler che fa il pieno di scatenato macchiettismo, dimostra una discreta ispirazione nel fare i conti con la leggerezza dell’affresco storico a misura di bambino, ma il film pecca di molte ingenuità narrative e di una dose non indifferente di momenti stucchevoli e telefonati, nei quali manca il coraggio per affondare la propria vena caustica nel cuore della Storia. Con queste premesse Jojo Rabbit rimane un gradevole esempio d’intrattenimento pensante, ma l’autore, avvezzo a un cinema esplosivo e ridanciano, non sembra avere spalle larghe a sufficienza per gettare il cuore oltre l’ostacolo del dramma della Shoah, pietra di paragone con cui rimane difficilissimo fare i conti. Tra le sequenze più ispirate spicca sicuramente il prologo dell’addestramento della gioventù hitleriana, con tanto di presa in giro forsennata del saluto “Heil Hitler!”, ma in generale appare piuttosto evidente il debito d’ispirazione con i costumi e l’aspetto visivo di Moonrise Kingdom di Wes Anderson, a tratti esplicitamente citato nelle traiettorie estetiche e narrative fin quasi a sconfinare nel calco e nella copia conforme. Tratto dal libro Caging Skies, di Christine Leunens.
Menzione finale della giornata per THE BAREFOOT EMPEROR della coppia di cineasti belgi Jessica Woodworth e Peter Brosens. Al centro della storia c'è Nicolas III Re del Belgio, che ferito a Sarajevo mentre tentava il rientro in patria si sveglia in un sanatorio su un'isola croata, un tempo residenza estiva di Tito, gestito da uno strano medico con tendenze sovraniste. Nel frattempo, all'esterno, l'Unione Europea sta crollando e c'è chi sogna l'impero. Sequel di King of the Belgians, diretto dai medesimi registi tre anni fa (da noi è uscito nelle sale col titolo Un re allo sbando), è un satira politica meno fluida e graffiante del film precedente, inutilmente fosca e arzigogolata. Evidente è la volontà di ironizzare con caustico livore sulle derive destrorse e cocentemente attuali del Vecchio Continente, ma il tentativo di fondere la sensibilità di Straub e Huillet con una sulfurea black comedy fiamminga produce uno stallo soporifero e di difficile risoluzione, inerte e con poche frecce al suo arco in grado di andare a segno. Nel cast, col pilota automatico, sono impegnati anche Geraldine Chaplin e l'immancabile, inarrestabile Udo Kier, che fa il pieno, come di consueto, di grottesco a briglia sciolta e tensioni sulfuree e fuori controllo.
Davide Stanzione