40 anni di Toro Scatenato: espiazione e prigionia di uno sconfitto
19/12/2020

40 anni fa faceva il suo esordio nelle sale statunitensi una delle vette assolute del cinema scorsesiano: Toro Scatenato. Due prove attoriali superlative, quella di Robert De Niro (nei panni del boxer Jake LaMotta) e di Joe Pesci (fratello/manager del pugile); il primo si guadagnò l’Oscar come miglior attore protagonista, un perfetto esempio del metodo Actors Studio: la totale immedesimazione nel personaggio arriva a includere la deformazione e il martoriamento del corpo – ingrassato di oltre trenta chili – tanto da essere ancora oggi considerata una delle migliori performance di sempre. Il film si aggiudicò un’ulteriore statuetta al Miglior montaggio, premiando lo splendido lavoro di una delle fedeli del regista: Thelma Schoonmaker. Due statuette vinte su otto candidature sembrano veramente poche per un film che ha lasciato un segno indelebile nella storia della settima arte ma, d'altronde si sa, non sempre c’è giustizia nei meccanismi dell’Accademy (specialmente quando si parla di Martin Scorsese).

La parabola sportiva/esistenziale di LaMotta disgrega i confini del film pugilistico, perché all'autore interessa principalmente esplorare la personalità brutale e l'autolesionismo del protagonista e ritrarre l'affresco sociale di un mondo corrotto e violento (la boxe e i suoi legami con la malavita). Jake LaMotta è uno dei tanti sconfitti di cui il cinema di Scorsese si è fatto portavoce: personalità ferina, mascolinità violenta e bestiale, una corda in tensione, costantemente sul punto di spezzarsi.




La bestialità insita nel boxer è frutto di una profonda insicurezza, di un’endemica incapacità di adattarsi ed essere parte integrante della società che lo circonda; uno dei tanti outsider raccontati dalla macchina da presa di Martin Scorsese. Il regista scava in profondità nella psiche di un personaggio su cui incombe il perenne spettro dell’inadeguatezza: l’unico posto in cui Jake riesce a sentirsi a suo agio è proprio il ring, luogo in cui la sua vera essenza può essere finalmente liberata. L’autolesionismo di Jake riesce ad allontanare tutte le persone verso cui era legato da sentimenti sinceri: il fratello Joey (personaggio tutt’altro che positivo) e la moglie Vickie. Gli spettri dell’insicurezza del boxer assumono il volto degli amanti della moglie: sarà forse l’ossessione di LaMotta e la sua profonda paura di essere tradito a spingere Vickie proprio in questa direzione.


 

Indimenticabile una delle scene madri del film, quella in cui LaMotta cerca di espiare le sue colpe nell’unico modo che conosce: attraverso il sacrificio violento del proprio corpo. Durante l’incontro per il titolo mondiale, Jake LaMotta si crocifigge sulle corde del ring, immolando il proprio corpo agli sferzanti colpi dell’avversario; l’hitchcockiano effetto vertigo della macchina da presa e l’assordante silenzio (quest’ultimo giocherà un ruolo fondamentale anche nel momento della crocifissione de L’ultima tentazione di Cristo) sottolineano l’importanza quasi mistica di questo momento. Un sacrificio, quello del boxer, però incompleto. Jake perde infatti il titolo ma la sua caduta morale è tutt’altro che arrestata: “Neanche stavolta mi hai buttato giù”, queste le parole che scaglia contro l’avversario con aria di scherno.

Jake non riuscirà mai a vedersi per quel che in realtà è, limite, questo, che gli impedirà una vera e propria espiazione. Altra scena molto simbolica è quella dell’incarcerazione del pugile: LaMotta continua a giustificarsi, cerca scuse per evitare di assumersi le responsabilità delle sue azioni. Il climax viene raggiunto nella splendida scena in cui il pugile sferra una serie a ripetizioni di ganci destri e sinistri contro le pareti della cella. La domanda “Perché? Perché?”, che rimbalza tra le claustrofobiche pareti, rappresenta la vera prigione di Jake LaMotta.

Simone Manciulli

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