È un ritorno più che convincente quello di Lav Diaz al Lido: con When the Waves Are Gone, presentato Fuori Concorso alla 79ª Mostra d’Arte Cinematografica, il maestro filippino è tornato ad affrontare il dilagare della violenza e della corruzione nel suo Paese attraverso la controversa parabola di due investigatori.
Regista tra i più rappresentativi del cinema d'essai contemporaneo ed abituale frequentatore dei festival internazionali, Diaz ha legato il suo nome a una cifra autoriale senza compromessi, realizzando opere di difficile fruizione curate in ogni dettaglio ricoprendo al contempo il ruolo di montatore, direttore della fotografia, sceneggiatore e produttore. Celebre per uno stile minimale e contemplativo fatto di lunghissimi piani-sequenza, ama girare bianco e nero. L'esordio avviene nel 1998, ma è negli anni Duemila che arriva alla piena maturità artistica, con opere come Heremias. Primo libro (2006), Death in the Land of Encantos (2007) e Melancholia (2008). Nel 2014 vince il Pardo d'oro al Festival di Locarno con From What Is Before, meravigliosa summa di tutta la sua poetica, mentre nel 2016 trionfa proprio a Venezia con The Woman Who Left.
When the Waves Are Gone si concentra su due personaggi complementari Hermes (John Lloyd Cru) e Primo (Ronnie Lazaro), ovvero rispettivamente il più grande investigatore filippino e il suo mentore corrotto incarcerato per colpa dell'allievo. Un noir atipico quello di Diaz che torna a girare in pellicola e fa della cura estetica il vettore fondamentale per comprendere l'intera operazione. Ecco, di seguito, la nostra intervista:
Com’è nata l’idea di questo film?
Dalle circostanze. Il film inizialmente doveva essere di dieci ore ed era pensato in tre parti: ho girato il primo blocco prima della pandemia e mi ero concentrato soprattutto sull’eruzione di un vulcano. La pandemia ha bloccato le riprese e ha drasticamente accorciato i mesi in cui poterle effettuare nuovamente, quindi ho deciso di riscrivere il film e con esso la storia dei personaggi. Abbiamo girato in diversi momenti, volevo avere la massima libertà possibile quando i due protagonisti si cercano nella parte centrale. Quello che non è nel film tornerà nei miei prossimi lavori, dopotutto considero ogni mio film come il capitolo di un’unica grande storia.
La prima scena si apre con una citazione di Hercule Poirot, come mai l’hai scelta?
Ho cercato su Google: "Qual è il più grande investigatore al mondo?" Ho scoperto che per lo più la risposta è "Hercule Poirot". Naturalmente il mio film non ha nulla a che vedere con Agatha Christie, ma mi piaceva l'idea di partire con una riflessione su casi irrisolti, difficili. È solo una suggestione.
Come hai lavorato sulla costruzione dei personaggi di Hermes e Primo?
Sono partito dalla mia storia personale: il mio primo lavoro infatti è stato il giornalista e mi venne affidato come primissimo articolo un caso di corruzione. Mi sono dovuto informare tantissimo in quel periodo e mi sono subito reso conto come il sistema della polizia sia davvero molto complesso. Una situazione molto difficile da comprendere dall'esterno. Devo dire però che la parte più dura del lavoro di pre-produzione per questo film è stata la scelta delle location in cui girare. Voglio sempre avere ben chiaro dove mi recherò: non giro mai in studio. Ho viaggiato molto nella parte meridionale delle Filippine e sono stato lì per più di due mesi da novembre 2020 a gennaio 2021. Quando ho trovato i luoghi perfetti in cui far interagire i due protagonisti abbiamo deciso di iniziare le riprese. Sulla sceneggiatura infatti lavoro per bozze, non scrivo mai un testo rigido, mi piace improvvisare sul set e soprattutto condividere alcune scelte con gli attori.
Come era stato per Melancholia e From What Is Before, il tema centrale è la corruzione dove il trauma personale dei due protagonisti si lega al trauma della Nazione (mi riferisco naturalmente alla di dittatura di Marcos).
La corruzione è nella natura dell’uomo ed è nella natura della mia Nazione. Sin da quando sono arrivati i colonizzatori, il nostro Paese ha sofferto a più riprese violenze e angherie dall’alto. Il film in questo senso racconta le conseguenze di ciò, concentrandosi maggiormente sullo scontro interno. La violenza invece non è parte di noi, ma credo sia fortemente correlata all’ignoranza che è forse il vero male oggi delle Filippine e non solo. La megalomania dell’uomo forte: questo mi spaventa. Quello che è accaduto e sta accadendo lo vedo quasi come una schizofrenia, una follia di massa.
La danza può essere interpretata come una strada per sopravvivere?
Quando stavo girando ho notato per strada che moltissime persone ballavano la zumba. Mi sembrava molto strano perché nonostante i protocolli sanitari estremamente rigidi, la gente ballava dalla mattina alla sera sempre e comunque. Credo sia una forma naturale di autodifesa rispetto alla sensazione di impotenza che abbiamo provato tutti. Li ho osservati ballare tutte le mattine e ho deciso di metterlo nel film. Non ho messo però una colonna sonora ad accompagnarli: la danza sgorga dal ritmo delle loro anime, è qualcosa che viene da dentro e doveva essere profondamente spontaneo. Un ritmo ancestrale. Quest'idea mi riporta alla tribalità: il ritmo ci collega alla natura. Una volta si credeva facessimo tutti parte di un unico movimento ritmico.
Sei ritornato a girare in pellicola: come hai lavorato con il direttore della fotografia Larry Manda?
Intanto è stato molto difficile realizzarlo perché nelle Filippine non abbiamo più nemmeno un laboratorio per poter lavorare la pellicola e così ci siamo visti costretti a mandare tutto in Romania e aspettare che il materiale tornasse indietro. In questo modo non potevi vedere quello che avevi girato per settimane. Il cinema è davvero un mezzo espressivo che ti chiede tanto, ma forse sta qui la sua bellezza. Girando in pellicola ho provato una sensazione diversa, mi ha riportato alle origini del cinema quando si procedeva anche per tentativi.
Nel film c'è tantissima luce: come si lega questo alla riflessione sulla religione che viene portata avanti in maniera esplicita?
Credo che ogni religione sia pericolosa, può portare alla morte. Sono salvatori ma anche assassini di anime. La religione è molto potente, gioca un ruolo fondamentale nel mio Paese e il personaggio di Primo si perde nella fede quando crede di ritrovarsi. Il cinema ha il potere di restituire quello che non vediamo, quello che non sentiamo. Sono le piccole cose a cui non facciamo attenzione che fanno davvero la differenza e che cerco di far entrare nei miei film. È incredibilmente bello perché i movimenti, le luci sono tutto: se fai attenzione a quello che ti circonda, se davvero riesci ad immergerti nella realtà attorno a te, ecco in quel momento le azioni assumono un significato diverso, più profondo.
Non c’è redenzione per i due protagonisti?
C’è in un certo senso, ma è molto dura. In certi casi è necessario sacrificarsi.
Hai mai pensato di muoverti su altri generi?
Certo! Credo che tutti generi siano importanti e in tal senso questo film cerca di essere molto di più che un noir. È possibile mescolare tutto, dall’horror alla fantascienza. Il cinema ti permette di andare ovunque e sono convinto che si debba ancora esplorare moltissimo. Nel futuro vorrei toccare prima o poi tutti i generi: primo fra tutti l’horror, anche se in una certa misura tutti i miei film raccontano dell’orrore, ma anche commedia e già questo film ha tanti momenti pensati per generare ilarità.
Quali progetti hai in serbo per il prossimo futuro? Vedremo mai un altro musical?
Ho appena finito un lavoro per la televisione. Tratta di violenza ed è diviso in dieci episodi: in realtà ho girato un film di dieci ore e l’ho tagliato in dieci parti. L’ho proposto così com'era e a loro è andato bene. Sul musical certo che sì: ne ho appena realizzato uno, girato in Spagna sulla moglie di Magellano, Beatriz Barbosa. Sono stati scritti fiumi di inchiostro su di lui e nemmeno tre righe su di lei.
A cura di Andrea Valmori
Regista tra i più rappresentativi del cinema d'essai contemporaneo ed abituale frequentatore dei festival internazionali, Diaz ha legato il suo nome a una cifra autoriale senza compromessi, realizzando opere di difficile fruizione curate in ogni dettaglio ricoprendo al contempo il ruolo di montatore, direttore della fotografia, sceneggiatore e produttore. Celebre per uno stile minimale e contemplativo fatto di lunghissimi piani-sequenza, ama girare bianco e nero. L'esordio avviene nel 1998, ma è negli anni Duemila che arriva alla piena maturità artistica, con opere come Heremias. Primo libro (2006), Death in the Land of Encantos (2007) e Melancholia (2008). Nel 2014 vince il Pardo d'oro al Festival di Locarno con From What Is Before, meravigliosa summa di tutta la sua poetica, mentre nel 2016 trionfa proprio a Venezia con The Woman Who Left.
When the Waves Are Gone si concentra su due personaggi complementari Hermes (John Lloyd Cru) e Primo (Ronnie Lazaro), ovvero rispettivamente il più grande investigatore filippino e il suo mentore corrotto incarcerato per colpa dell'allievo. Un noir atipico quello di Diaz che torna a girare in pellicola e fa della cura estetica il vettore fondamentale per comprendere l'intera operazione. Ecco, di seguito, la nostra intervista:
Com’è nata l’idea di questo film?
Dalle circostanze. Il film inizialmente doveva essere di dieci ore ed era pensato in tre parti: ho girato il primo blocco prima della pandemia e mi ero concentrato soprattutto sull’eruzione di un vulcano. La pandemia ha bloccato le riprese e ha drasticamente accorciato i mesi in cui poterle effettuare nuovamente, quindi ho deciso di riscrivere il film e con esso la storia dei personaggi. Abbiamo girato in diversi momenti, volevo avere la massima libertà possibile quando i due protagonisti si cercano nella parte centrale. Quello che non è nel film tornerà nei miei prossimi lavori, dopotutto considero ogni mio film come il capitolo di un’unica grande storia.
La prima scena si apre con una citazione di Hercule Poirot, come mai l’hai scelta?
Ho cercato su Google: "Qual è il più grande investigatore al mondo?" Ho scoperto che per lo più la risposta è "Hercule Poirot". Naturalmente il mio film non ha nulla a che vedere con Agatha Christie, ma mi piaceva l'idea di partire con una riflessione su casi irrisolti, difficili. È solo una suggestione.
Come hai lavorato sulla costruzione dei personaggi di Hermes e Primo?
Sono partito dalla mia storia personale: il mio primo lavoro infatti è stato il giornalista e mi venne affidato come primissimo articolo un caso di corruzione. Mi sono dovuto informare tantissimo in quel periodo e mi sono subito reso conto come il sistema della polizia sia davvero molto complesso. Una situazione molto difficile da comprendere dall'esterno. Devo dire però che la parte più dura del lavoro di pre-produzione per questo film è stata la scelta delle location in cui girare. Voglio sempre avere ben chiaro dove mi recherò: non giro mai in studio. Ho viaggiato molto nella parte meridionale delle Filippine e sono stato lì per più di due mesi da novembre 2020 a gennaio 2021. Quando ho trovato i luoghi perfetti in cui far interagire i due protagonisti abbiamo deciso di iniziare le riprese. Sulla sceneggiatura infatti lavoro per bozze, non scrivo mai un testo rigido, mi piace improvvisare sul set e soprattutto condividere alcune scelte con gli attori.
Come era stato per Melancholia e From What Is Before, il tema centrale è la corruzione dove il trauma personale dei due protagonisti si lega al trauma della Nazione (mi riferisco naturalmente alla di dittatura di Marcos).
La corruzione è nella natura dell’uomo ed è nella natura della mia Nazione. Sin da quando sono arrivati i colonizzatori, il nostro Paese ha sofferto a più riprese violenze e angherie dall’alto. Il film in questo senso racconta le conseguenze di ciò, concentrandosi maggiormente sullo scontro interno. La violenza invece non è parte di noi, ma credo sia fortemente correlata all’ignoranza che è forse il vero male oggi delle Filippine e non solo. La megalomania dell’uomo forte: questo mi spaventa. Quello che è accaduto e sta accadendo lo vedo quasi come una schizofrenia, una follia di massa.
La danza può essere interpretata come una strada per sopravvivere?
Quando stavo girando ho notato per strada che moltissime persone ballavano la zumba. Mi sembrava molto strano perché nonostante i protocolli sanitari estremamente rigidi, la gente ballava dalla mattina alla sera sempre e comunque. Credo sia una forma naturale di autodifesa rispetto alla sensazione di impotenza che abbiamo provato tutti. Li ho osservati ballare tutte le mattine e ho deciso di metterlo nel film. Non ho messo però una colonna sonora ad accompagnarli: la danza sgorga dal ritmo delle loro anime, è qualcosa che viene da dentro e doveva essere profondamente spontaneo. Un ritmo ancestrale. Quest'idea mi riporta alla tribalità: il ritmo ci collega alla natura. Una volta si credeva facessimo tutti parte di un unico movimento ritmico.
Sei ritornato a girare in pellicola: come hai lavorato con il direttore della fotografia Larry Manda?
Intanto è stato molto difficile realizzarlo perché nelle Filippine non abbiamo più nemmeno un laboratorio per poter lavorare la pellicola e così ci siamo visti costretti a mandare tutto in Romania e aspettare che il materiale tornasse indietro. In questo modo non potevi vedere quello che avevi girato per settimane. Il cinema è davvero un mezzo espressivo che ti chiede tanto, ma forse sta qui la sua bellezza. Girando in pellicola ho provato una sensazione diversa, mi ha riportato alle origini del cinema quando si procedeva anche per tentativi.
Nel film c'è tantissima luce: come si lega questo alla riflessione sulla religione che viene portata avanti in maniera esplicita?
Credo che ogni religione sia pericolosa, può portare alla morte. Sono salvatori ma anche assassini di anime. La religione è molto potente, gioca un ruolo fondamentale nel mio Paese e il personaggio di Primo si perde nella fede quando crede di ritrovarsi. Il cinema ha il potere di restituire quello che non vediamo, quello che non sentiamo. Sono le piccole cose a cui non facciamo attenzione che fanno davvero la differenza e che cerco di far entrare nei miei film. È incredibilmente bello perché i movimenti, le luci sono tutto: se fai attenzione a quello che ti circonda, se davvero riesci ad immergerti nella realtà attorno a te, ecco in quel momento le azioni assumono un significato diverso, più profondo.
Non c’è redenzione per i due protagonisti?
C’è in un certo senso, ma è molto dura. In certi casi è necessario sacrificarsi.
Hai mai pensato di muoverti su altri generi?
Certo! Credo che tutti generi siano importanti e in tal senso questo film cerca di essere molto di più che un noir. È possibile mescolare tutto, dall’horror alla fantascienza. Il cinema ti permette di andare ovunque e sono convinto che si debba ancora esplorare moltissimo. Nel futuro vorrei toccare prima o poi tutti i generi: primo fra tutti l’horror, anche se in una certa misura tutti i miei film raccontano dell’orrore, ma anche commedia e già questo film ha tanti momenti pensati per generare ilarità.
Quali progetti hai in serbo per il prossimo futuro? Vedremo mai un altro musical?
Ho appena finito un lavoro per la televisione. Tratta di violenza ed è diviso in dieci episodi: in realtà ho girato un film di dieci ore e l’ho tagliato in dieci parti. L’ho proposto così com'era e a loro è andato bene. Sul musical certo che sì: ne ho appena realizzato uno, girato in Spagna sulla moglie di Magellano, Beatriz Barbosa. Sono stati scritti fiumi di inchiostro su di lui e nemmeno tre righe su di lei.
A cura di Andrea Valmori