Al termine del workshop dedicato alla Nouvelle Vague, abbiamo chiesto ai partecipanti di redarre un elaborato sulla corrente in questione. Ecco i lavori dei corsisti.
Camilla Pez
À BOUT DE SOUFFLE
À bout de souffle (1960), film scritto e diretto da Jean-Luc Godard, è il manifesto della Nouvelle vague. Nei primi cinque minuti del film notiamo la poetica del regista: rifiuto delle regole del cinema classico e formazione di un nuovo metodo narrativo. Alcuni dei nuovi elementi introdotti da Godard, che costituiranno il linguaggio della Nouvelle Vague sono: l’interloquire dei personaggi con lo spettatore e il jump cut (taglio di una frazione di tempo all’interno di un’unica ripresa). Godard cita inoltre degli elementi di alcuni film gangster/polizieschi del cinema classico, per probabilmente richiamarli alla memoria dello spettatore ed accentuare così il contrasto con il nuovo stile della Nouvelle Vague. Il film si apre con una dedica alla Monogram Pictures, piccola casa di produzione degli anni ‘30. Segue il titolo che, occupando tutto lo schermo in un font maiuscolo e con grazie formate da angoli acuti, trasmette la drammaticità che caratterizzerà il film e cattura l’attenzione dello spettatore. Inizia il film e dopo pochi secondi vediamo il volto del protagonista Michel Poiccard, che, guardando oltre la camera, fa un gesto: passa il pollice sulle labbra, omaggio che Godard ha voluto fare ad Humphrey Bogart, attore simbolo dei film di gangster sopra citati. Attraverso il raccordo dello sguardo capiamo che Michel sta incrociando lo sguardo con una ragazza, i due stanno progettando di rubare un’auto. È da notare come Godard crei quasi un movimento unico tra due inquadrature, unendo due panoramiche entrambe da dx a sx che vanno alla stessa velocità e creando così un collegamento fluido tra la corsa della ragazza e l’azione di Michel. Dopo un’ellissi temporale passiamo alla fuga a bordo dell’auto rubata del nostro protagonista nelle campagne francesi. In questo momento ci viene mostrato il primo jump cut usato nel film: la rappresentazione per alcuni tratti di percorso viene tagliata per mostrare più velocemente l’avanzamento del tempo. Il sonoro però durante l’azione scorre lineare rendendo così possibile uno stacco meno netto tra le medesime inquadrature raffiguranti tempi diversi. Sempre durante la scena della fuga notiamo un altro degli elementi rivoluzionari della Nouvelle Vague, l’interlocuzione del personaggio con lo spettatore: il protagonista pone alcune domande allo spettatore in sala e poi “lo manda a quel paese”. Godard rompe così la quarta parete, distruggendo l’illusione e dichiarando violentemente la presenza della telecamera. Nella scena della fuga osserviamo anche l’aspetto giocoso con cui il regista vuole caratterizzare il suo rapporto con lo spettatore: Michel trova una pistola nel cruscotto dell’auto e finge di sparare a sé stesso nello specchietto e a una macchina simulando il rumore dello sparo, “bang”. L’azione del dialogo e quella della pistola vengono accompagnate da una melodia gioiosa sottolineando la dimensione di gioco. L’atmosfera viene poi distrutta quando Michel finge di sparare al sole e l’azione è accompagnata non più con una gioiosa melodia ma con un vero rumore di sparo, anticipo della sparatoria che avverrà poco dopo, riportando lo spettatore nella dimensione drammatica del film. Successivamente Michel per aver commesso un’infrazione stradale nella sua fuga verrà inseguito dalla polizia. La drammaticità dell’inseguimento è enfatizzata con due panoramiche messe in successione verso direzioni opposte: una parte da dx e una parte da sx. Il climax della sequenza è posto al momento dell’omicidio: Godard attraverso un montaggio che comprende l’uso del jump cut, la narrazione per dettagli, l’uso lineare del sonoro e la mancanza di colonna sonora racconta quello che sarà per la storia l’incidente scatenante. La sequenza si conclude con una rappresentazione di Michel che, accompagnato da una melodia drammatica, scappa nella campagna francese.
Elvira Del Guercio
ROHMER – TRUFFAUT
Nel flusso informe dell’ovvio e del quotidiano, l’uomo che amava le donne ha visto manifestarsi una passante ed è a questo eterno femmineo che Rohmer e Truffaut dedicano la loro apologia. In un amore consumatosi soltanto nel pomeriggio, Frédèric abbraccia idealmente e costantemente centinaia di donne, accostandovisi unicamente attraverso lo sguardo: e come per Tadzio e Gustav, si crea tra l’uomo e la donna “un isterico bisogno, inappagato, o innaturalmente represso di conoscenza”, perché, di questa miriade di passanti, ciò che affascina i due registi e i loro alter ego è la loro estraneità. Il fatto che la donna gli sia sconosciuta, la sua apparente diffidenza, afferma il protagonista di L’ homme qui aimait les femmes, spinge a una conoscenza sempre più puntuale e dettagliata prima corporea e poi spirituale, così da non lasciarsi sfuggire alcun particolare. In L’amour l’après-midi e L’ homme qui amait les femmes lo spleen parigino è vissuto quasi allo stesso modo, la noia e l’insoddisfazione esistenziale di Frédèric e Bertrand si traducono in una nevrastenica e perversa voglia d’erotismo, più che di amore. Ciò emerge in due distinte, ma speculari sequenze: i nostri due insoliti flâneur si aggirano per la città senza una meta, animati da un desiderio muliebre vissuto dall’uno in maniera più discreta, quasi avveduta e repressa rispetto all’audace Bertrand che si abbandona indistintamente a ogni genere di esperienza. Che sia proprio questo il modo in cui Rohmer e Truffaut vedono la donna? Che entrambi le amino “totalmente, teneramente e tragicamente” è un dato di fatto, diverso è, d’altra parte, il modo in cui il loro amore si dispiega. In queste due sequenze la donna è contemplata e analizzata nella sua interezza e ambiguità, tra un piacere nello stesso tempo vivifico e mortifero. Sia Frédèric che Bertrand vivono disillusi la loro passione: l’uno, legato indissolubilmente a una sola donna in cui vede racchiusa l’universale bellezza femminile e proprio per questo incapace al tradimento e l’altro, nel cui volto emaciato e scarno si legge un’essenza particolare. Bertrand ama tutte le donne, senza distinzioni. Ama l’idea che al suo fianco ci sia sempre una figura femminile, il cui amore, tuttavia, non viene mai vissuto in maniera totalizzante in virtù della sua stessa natura: dedito al soddisfacimento di ogni impulso, distaccato dalla compagine mondana, la donna è per lui un capro espiatorio attraverso cui redimersi temporaneamente dalla propria solitudine.