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Yasujirō Ozu, maestro di rigore che mirava all'essenziale

«I miei film possono sembrare tutti uguali, ma io cerco di creare qualcosa di nuovo ogni volta: come fa il pittore che dipinge la stessa rosa, sempre la stessa, e ogni volta arricchisce la propria visione»


Esistenza solitaria e temperamento schivo, indole facile all'ira, una passione smodata per l'alcool e per il cinema americano, che segnò la via da percorrere: Yasujirō Ozu è unanimemente considerato autore raffinato ed elegante (un'arte, la sua, "simile al Paradiso", parola di Wim Wenders), concentrato sull'essenziale, in modo perfettamente coerente con quella che fu la sua vita, fatta di una quotidianità rassicurante e di piccole cose, condotta sul filo dell'umiltà («I can make fried tofu, boiled tofu, stuffed tofu. Cutlets and other fancy stuff, that's for other directors»).





Perso in un vorticoso coup de foudre per la settima arte sin dall'infanzia (era solito tenere sul banco di scuola un'immagine di Pearl White, attrice americana del muto) e introdotto nell'ambiente dallo zio, inizia come operatore per poi passare dietro la macchina da presa («Come aiuto regista potevo bere quanto mi pareva e parlare tutto il tempo. Come regista mi sarebbe toccato lavorare di continuo e stare in piedi anche la notte»). Rigoroso, abitudinario e fin conservatore (lavorò con la stessa casa di produzione e la medesima troupe per tutta la vita), Ozu insegue la semplicità: pare che nei suoi film accadano ben poche cose, in realtà l'evoluzione è continua, rarefatta ma costante, impregnata di inevitabilità e avvolta da un'aura malinconica che rende perfettamente la forma mentis del suo artefice.





L'influenza dell'amato cinema americano, la sperimentazione di generi, il racconto di storie incentrate su differenza di classe e disoccupazione, umiliazione, voglia di riscatto, la costante ricerca di un equilibrio: Ozu, regista estremamente prolifico, inizia a dirigere film nel 1927 ma è dopo la Seconda guerra mondiale che il suo stile si affina diventando riconoscibile. Una forma austera, con una macchina da presa praticamente immobile, posizionata a terra (il cosiddetto Tatami shot), che lascia totale spazio di manovra alle sottili emozioni dei personaggi in scena, senza tragedie urlate o barocche scene madri. E i nuovi nuclei tematici diventano la famiglia, il rapporto genitori/figli, il contrasto tra la modernità e la tradizione, la perdita dei valori e quella dell'autorità.





Tra le molte straordinarie opere realizzate da Ozu, è d'obbligo citarne due: Viaggio a Tokyo (che 358 registi da tutto il mondo hanno indicato come il più bel film di tutti i tempi in un sondaggio lanciato dalla rivista Sight & Sound nel 2012) e Il gusto del sakè, ultimo film prima della morte avvenuta il 12 dicembre 1963, giorno del suo sessantesimo compleanno.

Considerato uno dei massimi capolavori della storia del cinema mondiale, Viaggio a Tokyo (ispirato a Cupo tramonto di Leo McCarey) è una pietra miliare assoluta e senza tempo, alle cui origini vi sono le ferite del Giappone post-bellico: che i due anziani coniugi protagonisti siano originari proprio dei dintorni di Hiroshima non è infatti un caso, analogamente alla dialettica, altrettanto voluta e cercata, tra vecchio e nuovo, tra passato e presente. Un elemento sottolineato in più occasioni, sia per quel che riguarda la mutazione dei costumi, sempre più distanti dalla compostezza della tradizione giapponese e sempre più prossimi a una colonizzazione invasiva da parte di modelli esteri (quanto sono disinvolti, i nipoti dei protagonisti, quando non sfacciati e maleducati), sia per quel riguarda lo studio del paesaggio, poetico e modernissimo. Un'opera che parla dello smarrimento della purezza originaria, del passaggio di testimone da una generazione integra e di sani principi a un'altra con molte meno certezze e molti più grattacapi, alle prese con una concorrenza spietata e un universo morale non più incantato, nel quale perfino il dolore per i lutti appare meccanico, artefatto e costruito. Il punto di vista del regista ad "altezza tatami", una prospettiva che gli spettatori di tutto il mondo hanno imparato ad associare indissolubilmente all'arte di Ozu, in questo caso è più necessario e decisivo che mai: siamo di fronte a una delle elegie per il buon tempo andato meno retoriche e più oneste mai intonate, una delle odi alla semplicità del quotidiano più ellittiche e struggenti di tutti i tempi, sul grande schermo e non solo.





1962, anno de Il gusto del sakè, sublime conclusione di una carriera indimenticabile. Senza partire da un'idea di pellicola testamentaria, l'ultima opera del maestro nipponico ha addosso tutta la sommessa vitalità del periodo aureo del suo cinema, da intendere come adesione totale e spassionata alla vita dei propri personaggi, fotografati come sempre nella loro essenza quotidiana, con un'onestà che mette i brividi e colpisce al cuore. Un luminoso ritratto intimista («Si è sempre soli, nella vita») che fa emergere la tridimensionalità delle psicologia degli individui che popolano l'universo dell'autore attraverso un corredo infinito di accenni, sussurri, pennellate fugaci ma pregnanti, istanti irripetibili votati sia alla commozione che al crepuscolare, ma senza l'ombra di una nostalgia studiata e fine a se stessa.


Ultimo tassello nel mosaico di un cineasta unico e immortale.
I'm all alone. Floating castles guard the Land of the Rising Sun...

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