Beyond the Wall
Shab, Dakheli, Divar.
2022
Paese
Iran
Genere
Drammatico
Durata
126 min.
Formato
Colore
Regista
Vahid Jalilvand
Attori
Navid Mohammadzadeh
Dayana Habibi
Amir Aghaee
Saeed Dakh
Danial Kheirikhah
Ali (Navid Mohammadzadeh), un uomo cieco, sta cercando di togliersi la vita quando viene interrotto dal custode del palazzo in cui vive. Viene informato del fatto che la polizia sta cercando una donna in fuga che sembra essersi nascosta nell’edificio. Poco per volta, Ali scopre che la fuggitiva, Leila (Dayana Habibi), si trova nel suo appartamento. La donna ha partecipato a una protesta operaia sfociata nel caos, ed è sconvolta per la scomparsa del figlio di quattro anni, avvenuta quando lei è stata allontanata a bordo di un furgone della polizia…
L’iraniano Vahid Jalilvand, regista approdato alla finzione dopo una robusta e prolifica trafila nel cinema documentario, costruisce intorno a due personaggi asserragliati una messa in scena che ha sempre in bocca il sapore acre del più duro e insostenibile dei tour de force, mirando a restituire il clima di asserragliato dell’Iran contemporaneo e della sua caotica e insostenibile situazione politica. La messa in scena regge però l’urto solo in parte: dopo una prima parte a dir poco evocativa e carica di dolore fisico, mistero e tensione, in cui appare chiaro l’intento della regia di giocare anche visivamente su abbacinanti riverberi di luce (e di speranza) in un mare di pesta oscurità, il film dimostra un fiato abbastanza corto e tira a più riprese il freno a mano, incapace di lavorare sulla reclusione con idee originali di scrittura e regia e non legittimando appieno un respiro da lungometraggio (anche le figure di contorno, dal medico a quelle più inquisitorie, faticano a incidere nell’economia della narrazione). Le riprese di telecamere a circuito chiuso vanno spesso a braccetto con soluzioni di montaggio a dir poco frenetiche e convulse, specie nelle aperture che riguardano dei tragici e pirotecnici incidenti consumati nelle strade, ma l’approccio eccessivamente dinamitardo rischia a più riprese di risultare controproducente e appesantire non poco la visione con dei tratti oltremodo insistiti, tra guerriglie urbane e furgoni dati alle fiamme in sequenze comunque di pregevole fattura tecnica. Assolutamente ragguardevole è in compenso il lavoro sul sonoro, che non si limita a un sound design di martellante potenza, ma investe anche la percezione di se stessi da parte dei personaggi e il meccanismo intrinseco della rielaborazione dei loro traumi: due solitudini che s’incontrano coltivando una vicinanza fatalmente impossibile e tentando affannosamente di saturare le proprie reciproche ferite in uno scenario di macerie da “thriller dell’anima”, che non nasconde nemmeno la dimensione epistolare ma fatica molto a sganciarsi in chiave trascendentale dalla prigione della corporeità, pur provandoci molto. Destano invece qualche perplessità in più la costante compresenza di rigore e sensazionalismo e il montaggio che ricorre a qualche forzatura di troppo nel legare a effetto tra loro dei momenti di concitazione temporalmente molto separati. Presentato in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2022.
L’iraniano Vahid Jalilvand, regista approdato alla finzione dopo una robusta e prolifica trafila nel cinema documentario, costruisce intorno a due personaggi asserragliati una messa in scena che ha sempre in bocca il sapore acre del più duro e insostenibile dei tour de force, mirando a restituire il clima di asserragliato dell’Iran contemporaneo e della sua caotica e insostenibile situazione politica. La messa in scena regge però l’urto solo in parte: dopo una prima parte a dir poco evocativa e carica di dolore fisico, mistero e tensione, in cui appare chiaro l’intento della regia di giocare anche visivamente su abbacinanti riverberi di luce (e di speranza) in un mare di pesta oscurità, il film dimostra un fiato abbastanza corto e tira a più riprese il freno a mano, incapace di lavorare sulla reclusione con idee originali di scrittura e regia e non legittimando appieno un respiro da lungometraggio (anche le figure di contorno, dal medico a quelle più inquisitorie, faticano a incidere nell’economia della narrazione). Le riprese di telecamere a circuito chiuso vanno spesso a braccetto con soluzioni di montaggio a dir poco frenetiche e convulse, specie nelle aperture che riguardano dei tragici e pirotecnici incidenti consumati nelle strade, ma l’approccio eccessivamente dinamitardo rischia a più riprese di risultare controproducente e appesantire non poco la visione con dei tratti oltremodo insistiti, tra guerriglie urbane e furgoni dati alle fiamme in sequenze comunque di pregevole fattura tecnica. Assolutamente ragguardevole è in compenso il lavoro sul sonoro, che non si limita a un sound design di martellante potenza, ma investe anche la percezione di se stessi da parte dei personaggi e il meccanismo intrinseco della rielaborazione dei loro traumi: due solitudini che s’incontrano coltivando una vicinanza fatalmente impossibile e tentando affannosamente di saturare le proprie reciproche ferite in uno scenario di macerie da “thriller dell’anima”, che non nasconde nemmeno la dimensione epistolare ma fatica molto a sganciarsi in chiave trascendentale dalla prigione della corporeità, pur provandoci molto. Destano invece qualche perplessità in più la costante compresenza di rigore e sensazionalismo e il montaggio che ricorre a qualche forzatura di troppo nel legare a effetto tra loro dei momenti di concitazione temporalmente molto separati. Presentato in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2022.
Iscriviti
o
Accedi
per commentare