La farfalla sul mirino
Koroshi no rakuin
1967
Paese
Giappone
Generi
Noir, Azione
Durata
91 min.
Formato
Bianco e Nero
Regista
Seijun Suzuki
Attori
Jô Shishido
Kōji Nanbara
Isao Tamagawa
Anne Mari
Mariko Ogawa
Maschilista, inflessibile e con un'ossessione feticistica per l'odore del riso bollito, Gorō Hanada (Jō Shishido) occupa il terzo posto nella classifica dei migliori sicari giapponesi. Dopo aver fallito un incarico a causa di una farfalla che si è posata sul mirino del suo fucile, Goro viene inserito in una lista nera e condannato a morte dai suoi stessi colleghi: prima della fine arriverà a scontrarsi con il misterioso killer numero 1 di cui nessuno conosce l'identità.
Autentico titolo di culto, apertamente citato e omaggiato da registi quali Takeshi Kitano, Jim Jarmusch e Quentin Tarantino, il quarantesimo film di Seijun Suzuki è anche quello che ne ha determinato il licenziamento da parte della Nikkatsu – con l'accusa di fare film incomprensibili e di nessun riscontro economico – e l'allontanamento forzato dal cinema per i dieci anni successivi. Con questa pellicola scritta a sedici mani, girata in meno di un mese e montata in appena un giorno, Suzuki spinge la sua cifra stilistica verso un punto di non ritorno, riuscendo nell'ardua impresa di filmare un vero e proprio sogno a occhi aperti. Puro inno alla libertà del cinema – ma anche alla creatività dell'azione, violenta o sessuale che sia, come testimoniano le fantasiose sequenze di erotismo e omicidi – il film si appropria sfacciatamente di cliché e stilemi dello yakuza-eiga (i film sulla mafia giapponese), del noir francese e di quello americano (il sicario infallibile, la misoginia, il duello all'ultimo sangue, la femme fatale) per rielaborarli in chiave parodica e surreale attraverso un'estetica che pesca a piene mani dalla pop art e fa il verso agli sperimentalismi della coeva nuberu bagu (la New Wave Giapponese degli anni Sessanta). È così che, nel giro di pochi minuti, l'intera impalcatura narrativa va in frantumi sotto i colpi di un montaggio febbrile e delirante, che annulla la logica consequenzialità tra le singole scene ed esalta un gesto filmico di pura improvvisazione creativa (un vero e proprio paradosso considerando il lavoro di ben otto sceneggiatori in fase di scrittura). Allo spettatore inevitabilmente disorientato non resta che seguire le tracce di un iconico Jō Shishido, più bidimensionale che mai, fino ad abbandonarsi completamente a una pellicola magnetica e vertiginosa che va a configurarsi come uno dei più cristallini atti di ribellione del cinema giapponese anni Sessanta. Vedere per credere.
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