L'imperatore di Roma
1988
Paese
Italia
Genere
Drammatico
Durata
84 min.
Formato
Bianco e Nero
Regista
Nico D'Alessandria
Attore
Gerardo Sperandini
Calvario quotidiano del tossicodipendente Gerry (Gerardo Sperandini), tra miserie, temporanei internamenti e camminate infinite sotto il sole cocente. Unica fuga: vegliare sulla Città Eterna, grazie anche ai resti monumentali dell'impero che fu, eloquente contraltare all'abisso di un'umanità completamente devitalizzata.
Titolo chiave del cinema indipendente italiano, girato con un budget irrisorio e costruito sul vero Gerardo Sperandini che fa la parte praticamente di sé stesso, il film si avvale di un bel bianco e nero e di inquadrature ricercathe per farci entrare nella vita di un ultimo, che affronta con fiera "dignità" la mancanza della dignità stessa, imposta da un'umanità e una civiltà completamente svuotate di senso. C'è molto neorealismo, ma l'aria che si respira è dolorosamente post-punk, e il lirismo pasoliniano è ancora più straziante dei modelli di riferimento per la percepibile consapevolezza di un requiem già finito: un mondo marginale già morto e esistente oramai sottoforma di fantasmi in carne e ossa, dei quali il mondo circostante sembra voler dimenticare l'esistenza organica. I limiti, allo stesso tempo, sono evidenti e il film gira molto a vuoto, vittima di eccessive ridondanze. Nonostante questo e una netta diffolcà a tenere la durata di un lungometraggio, il film rimane uno dei cardini del cinema dei derelitti: se Gerry ha smesso di lottare nel senso vero della parola, non per questo ha smesso di sognare. L'utopia a cui da voce tra sé e sé( non ci saranno più infami, le donne saranno felici ecc..), suggestionato tanto dalle bellezze immortali di Roma quanto dai palazzoni di periferia abbandonati, è tanto più straziante per come mostra lucidamente la follia come qualcosa di palpabile e relativamente inevitabile (in quanto unica utopia), oltre che per come cozza con la realtà desolata mostrata per tutto il film. Molto aderenti le musiche progressive rock dei Tan Zero, non a caso gruppo-meteora: altro segnale di un film concepito in un preciso zeitgeist, e di cui si percepisce in ogni scena la fiera consapevolezza del rifiuto/abbandono della società tanto di un tipo di cinema, quanto della stessa realtà mostrata.
Titolo chiave del cinema indipendente italiano, girato con un budget irrisorio e costruito sul vero Gerardo Sperandini che fa la parte praticamente di sé stesso, il film si avvale di un bel bianco e nero e di inquadrature ricercathe per farci entrare nella vita di un ultimo, che affronta con fiera "dignità" la mancanza della dignità stessa, imposta da un'umanità e una civiltà completamente svuotate di senso. C'è molto neorealismo, ma l'aria che si respira è dolorosamente post-punk, e il lirismo pasoliniano è ancora più straziante dei modelli di riferimento per la percepibile consapevolezza di un requiem già finito: un mondo marginale già morto e esistente oramai sottoforma di fantasmi in carne e ossa, dei quali il mondo circostante sembra voler dimenticare l'esistenza organica. I limiti, allo stesso tempo, sono evidenti e il film gira molto a vuoto, vittima di eccessive ridondanze. Nonostante questo e una netta diffolcà a tenere la durata di un lungometraggio, il film rimane uno dei cardini del cinema dei derelitti: se Gerry ha smesso di lottare nel senso vero della parola, non per questo ha smesso di sognare. L'utopia a cui da voce tra sé e sé( non ci saranno più infami, le donne saranno felici ecc..), suggestionato tanto dalle bellezze immortali di Roma quanto dai palazzoni di periferia abbandonati, è tanto più straziante per come mostra lucidamente la follia come qualcosa di palpabile e relativamente inevitabile (in quanto unica utopia), oltre che per come cozza con la realtà desolata mostrata per tutto il film. Molto aderenti le musiche progressive rock dei Tan Zero, non a caso gruppo-meteora: altro segnale di un film concepito in un preciso zeitgeist, e di cui si percepisce in ogni scena la fiera consapevolezza del rifiuto/abbandono della società tanto di un tipo di cinema, quanto della stessa realtà mostrata.
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