Il racconto degli anni di Diego Armando Maradona al Napoli, città e squadra in cui il leggendario “Pibe de Oro”, uno dei talenti più geniali e controversi di tutta la storia del calcio, ottenne grandi successi sportivi ma anche irrimediabili cadute nel baratro.
Il regista premio Oscar per Amy, Asif Kapadia si cimenta con un altro documentario di repertorio, dedicato questa volta a Maradona e nella fattispecie alla sua celebre e indimenticabile parentesi napoletana, iniziata quasi per caso dopo l’abbandono dal Barcellona e tramutatasi in uno dei rapporti d’amore più mitici e viscerali tra un campione e una piazza sportiva. Ricorrendo come d’abitudine a molto materiale d’archivio, il regista assembla una narrazione generosa e ricca d’immagini, che restituisce appieno il dualismo tra Diego, il ragazzo fuoriuscito dalla periferia di Buenos Aires e divenuto una stella dotata di un talento senza precedenti, e Maradona, la maschera pubblica vittima di eccessi, derive autodistruttive, scarsa capacità di trovare un equilibrio e di gestire al meglio un talento di proporzioni immani e perfino divine. Kapadia lo definisce il terzo capitolo di una trilogia ed effettivamente la continuità rispetto alle sue opere è evidente. Particolarmente apprezzabile è anche il fatto che si evitino le consuete interviste frontali, limitandosi a voci fuori campo con didascalie, per non staccare mai dalle immagini di Maradona e dar vita a un montaggio il più possibile fluido e potente. L’impatto dell’operazione, che si è avvalsa di molti materiali dell’archivio privato di Maradona, è incisivo, anche se l’insieme scomoda pochi interrogativi sulle derive più spinose dei suoi trascorsi, limitandosi a illustrarne le gesta con grande perizia e a evidenziare con notevole trasporto e molta compiacenza la natura immaginifica, prossima a quella dell’iconografia religiosa. Ma ovviamente c’è posto anche per tutti i momenti più indimenticabili del percorso sportivo e mediatico della stella argentina poi caduta nel vortice della cocaina, dalla festa scudetto nella città partenopea all’indimenticabile partita contro l’Inghilterra dei Mondiali di Messico ‘86, quando segnando un gol di mano senza farsi notare (l’auto-definita “Mano de Dios”) e realizzando tre minuti dopo il “gol del secolo” con mezza squadra britannica scartata e messa al tappeto, evidenziò in maniera plastica il dualismo interno al suo mito, contraddistinto da una contrapposizione evidente tra irruenza fuori dagli schemi e impressionante forza d’urto. Nel complesso è un prodotto che si vede volentieri, ma che non aggiunge poi chissà quanto sull’iconografia del campione argentino. Presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2019.