Maryam (Mila Al Zahrani) è un’ambiziosa dottoressa che fatica, in quanto donna, a farsi rispettare dai colleghi uomini. Per sovvertire i rigidi dettami patriarcali della società araba in cui è immersa, decide di candidarsi a sindaco della sua città in quel di Dubai.
Haifaa Al Mansour, prima regista donna della storia dell’Arabia Saudita, torna a Venezia e approda in Concorso dopo aver portato nella sezione Orizzonti il suo esordio La bicicletta verde (2012). Lo fa proponendo un’altra protagonista femminile dotata di grande forza e spiccata personalità, restia all’ottusità del microcosmo che la circonda e la ingloba. Il film, lodevole nelle intenzioni e di specchiata onesta tanto nelle premesse quanto negli esiti antropologici, sconta una certa rigidità in un andamento narrativo eccessivamente piatto e didascalico, avaro di scatti sotto il profilo strettamente cinematografico e minato nello sviluppo da una scrittura deficitaria. A emergere, tuttavia, è uno sguardo carico di più di un elemento di interesse sul versante della resilienza e della propositività femminile all’interno del mondo arabo e delle sue storture familiari e di genere, anche se non avrebbero certo guastato un maggior approfondimento delle dinamiche puramente tecnico-politiche della vicenda e un ulteriore scandaglio di spinte motrici e implicazioni psicologiche nel disegno dei personaggi, che invece non esulano da un evidente e acerbo bozzettismo. Da segnalare, ad ogni modo, la delicatezza con cui la regista incornicia i momenti musicali, tutti dotati di una tenue e soffusa carica epidermica, e la tenera ingenuità un po’ naïf con cui la protagonista osserva sul proprio telefono il rozzissimo contenuto video caricato su YouTube da un repubblicano americano, gettando un ponte non scontato e aperto a più di uno spunto di riflessione tra due angoli del mondo così distanti.