Saint Omer
Saint Omer
2022
Paese
Francia
Genere
Drammatico
Durata
122 min.
Formato
Colore
Regista
Alice Diop
Attori
Kayije Kagame
Guslagie Malanda
Valérie Dréville
Aurélia Petit
Tribunale di Saint-Omer. La giovane scrittrice Rama (Kayije Kagame) assiste al processo a Laurence Coly (Guslagie Malanga), una donna accusata di aver ucciso la figlia di quindici mesi, abbandonata all’arrivo dell’alta marea su una spiaggia nel nord della Francia. Ma mentre il processo va avanti, le parole dell’accusata e le deposizioni dei testimoni sconvolgeranno le certezze di Rama, e metteranno in discussione anche la nostra capacità di giudizio.
Opera prima di finzione di Alice Diop, affermata documentarista francese di origine senegalese, vincitrice al Festival di Berlino del 2021 nella sezione Encounters con il documentario Nous, Saint-Omer è un esordio nella fiction di altissimo respiro, che utilizza i codici del cinema giudiziario per spogliargli di ogni orpello e affrontare con notevole complessità una molteplicità di temi: dalla condizione femminile odierna ai fantasmi di una maternità liquida e misteriosa, passando per le tragiche conseguenze del colonialismo occidentale in Africa e gli strascichi irrisolti e malamente assorbiti dell’immigrazione sulle esistenze umane (il tema dell’acqua tiene insieme l’utero materno, l’incubo delle traversate, il proposito osceno di cancellare le tracce della propria prole). Incorniciato tra due riferimenti cinematografici molto importanti come Hiroshima Mon Amour (1959) di Alain Resnais, proposto in un’aula accademica e sublimato dal punto di vista della sceneggiatrice e scrittrice Marguerite Duras, e Medea (1969) di Pier Paolo Pasolini con Maria Callas, il film di Diop è caratterizzato da un rigore impressionante eppure appassionante nel mettere in scena un processo fluviale che rifiuta molto spesso la nozione di controcampo all’interno del montaggio: le riprese delle lunghe deposizioni si soffermano con nettezza mai asettica e giudicante sui singoli punti di vista elaborati dalle parti in causa, facendo filtrare tra le pieghe più recondite e sotterranee della messa in scena una struggente dose di elegante empatia e profondità antropologica. Il punto di vista della protagonista Rama, che assiste al processo contro una madre infanticida di origini senegalesi per scrivere un moderno adattamento del mito di Medea, coincide col nostro sguardo: l’adesione della regista alle percezioni fisiche e razionali e alla quotidianità del personaggio, ma anche alle sue incertezze e fragilità sulla propria maternità sempre sul punto di incrinarsi, è la chiave di volta per un’opera formalmente impeccabile e mai schematica, di straordinaria grazie nell’immortalare dei ritratti femminili sulla carta lontanissimi ma accomunati da un’analoga precarietà. Fin dalle prime battute del processo sembra di assistere a una versione contemporanea degli antichi processi alle donne per stregoneria, con una messa in scena profondamente sensibile e ascetica nel rifuggire ogni scorciatoia per abbracciare la complessità di un caso difficilissimo da maneggiare con una lente e un approccio esclusivamente “occidentali”, specie se vessati da inqualificabili patenti di superiorità. Le stoccate al sensazionalismo più superficiale, ottuso e consolatorio dei media e della giustizia rispetto alla tragedia raccontata non mancano di certo, ma non ci sono risposte semplici e univoche in questo film densissimo di spunti di riflessione, a partire dall’imputata che si professa come un’assassina “a propria insaputa” e dal modo in cui ci si confronta da pari a pari, senza alcun intellettualismo ma con abbagliante nitore, con elementi filosofici, psicologici e culturali al contempo primitivi, ancestrali ed etnografici. Eccezionali le interpretazioni delle due attrici protagoniste, ma a stupire davvero è lo spessore epidermico delle immagini e dei tanti primi piani sempre a fior di lacrime, dai quali trapela un umanesimo che confligge magnificamente con la perizia tecnica mostrata e che nel finale trova anche una struggente via di fuga. In colonna sonora il brano Little Girl Blue di Nina Simone. Presentato in Concorso alla Mostra Cinema di Venezia 2022 dove ha vinto due premi importanti: Gran Premio della Giuria e miglior opera prima.
Opera prima di finzione di Alice Diop, affermata documentarista francese di origine senegalese, vincitrice al Festival di Berlino del 2021 nella sezione Encounters con il documentario Nous, Saint-Omer è un esordio nella fiction di altissimo respiro, che utilizza i codici del cinema giudiziario per spogliargli di ogni orpello e affrontare con notevole complessità una molteplicità di temi: dalla condizione femminile odierna ai fantasmi di una maternità liquida e misteriosa, passando per le tragiche conseguenze del colonialismo occidentale in Africa e gli strascichi irrisolti e malamente assorbiti dell’immigrazione sulle esistenze umane (il tema dell’acqua tiene insieme l’utero materno, l’incubo delle traversate, il proposito osceno di cancellare le tracce della propria prole). Incorniciato tra due riferimenti cinematografici molto importanti come Hiroshima Mon Amour (1959) di Alain Resnais, proposto in un’aula accademica e sublimato dal punto di vista della sceneggiatrice e scrittrice Marguerite Duras, e Medea (1969) di Pier Paolo Pasolini con Maria Callas, il film di Diop è caratterizzato da un rigore impressionante eppure appassionante nel mettere in scena un processo fluviale che rifiuta molto spesso la nozione di controcampo all’interno del montaggio: le riprese delle lunghe deposizioni si soffermano con nettezza mai asettica e giudicante sui singoli punti di vista elaborati dalle parti in causa, facendo filtrare tra le pieghe più recondite e sotterranee della messa in scena una struggente dose di elegante empatia e profondità antropologica. Il punto di vista della protagonista Rama, che assiste al processo contro una madre infanticida di origini senegalesi per scrivere un moderno adattamento del mito di Medea, coincide col nostro sguardo: l’adesione della regista alle percezioni fisiche e razionali e alla quotidianità del personaggio, ma anche alle sue incertezze e fragilità sulla propria maternità sempre sul punto di incrinarsi, è la chiave di volta per un’opera formalmente impeccabile e mai schematica, di straordinaria grazie nell’immortalare dei ritratti femminili sulla carta lontanissimi ma accomunati da un’analoga precarietà. Fin dalle prime battute del processo sembra di assistere a una versione contemporanea degli antichi processi alle donne per stregoneria, con una messa in scena profondamente sensibile e ascetica nel rifuggire ogni scorciatoia per abbracciare la complessità di un caso difficilissimo da maneggiare con una lente e un approccio esclusivamente “occidentali”, specie se vessati da inqualificabili patenti di superiorità. Le stoccate al sensazionalismo più superficiale, ottuso e consolatorio dei media e della giustizia rispetto alla tragedia raccontata non mancano di certo, ma non ci sono risposte semplici e univoche in questo film densissimo di spunti di riflessione, a partire dall’imputata che si professa come un’assassina “a propria insaputa” e dal modo in cui ci si confronta da pari a pari, senza alcun intellettualismo ma con abbagliante nitore, con elementi filosofici, psicologici e culturali al contempo primitivi, ancestrali ed etnografici. Eccezionali le interpretazioni delle due attrici protagoniste, ma a stupire davvero è lo spessore epidermico delle immagini e dei tanti primi piani sempre a fior di lacrime, dai quali trapela un umanesimo che confligge magnificamente con la perizia tecnica mostrata e che nel finale trova anche una struggente via di fuga. In colonna sonora il brano Little Girl Blue di Nina Simone. Presentato in Concorso alla Mostra Cinema di Venezia 2022 dove ha vinto due premi importanti: Gran Premio della Giuria e miglior opera prima.
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