A Complete Unknown non è un biopic nel senso classico del termine. È un ritratto frammentato e profondo, che ci trascina in un momento cruciale della vita di Bob Dylan. Non è il racconto di una carriera completa, ma un’esplorazione di quel breve e intenso periodo in cui un giovane di 20 anni, di nome Robert (Allen) Zimmerman, reinventa sé stesso e il panorama musicale. Dylan non diventa semplicemente famoso: diventa un simbolo, un’anomalia creativa che sfida ogni aspettativa. Il film abbandona la narrazione lineare e sceglie di concentrarsi su un periodo specifico. Sceglie di concentrarsi sul conflitto tra passato e futuro, tra radici e sperimentazione. E lo fa mettendo in scena un protagonista che, prima ancora di essere consacrato, ha già chiara la sua identità. Dylan non è mai stato Zimmerman: fin dall’inizio si muove con la consapevolezza di chi è, e di chi vuole diventare. E proprio in questo punto di svolta, tra il folk e l’ignoto, tra il Greenwich Village e il mondo, il film trova la sua essenza. È la storia di un distacco necessario, di una trasformazione inevitabile, narrata con intensità e delicatezza.
Il film si distingue subito per la sua struttura. Non siamo di fronte al classico biopic che segue linearmente la vita di un artista, dal giorno della nascita alla consacrazione come leggenda, passando per successi, cadute e rinascite. No, qui James Mangold sceglie di restringere l’obiettivo e concentrare la narrazione su un momento unico e irripetibile: l’ascesa di Dylan, dal 1961 al 1965, un periodo di trasformazione tanto personale quanto artistica. È in questi anni che si consuma il passaggio da un giovane di provincia, con una chitarra in mano, a un artista consapevole del proprio potenziale, pronto a sovvertire ogni aspettativa. Il film ci accoglie nel Greenwich Village, nel cuore pulsante di una New York che sta cambiando pelle. Siamo nel 1961, e Bob Dylan è ancora uno sconosciuto. Ma, sin dalla sua prima apparizione sullo schermo, percepiamo una certezza granitica nel suo atteggiamento. Non ha ancora inciso nulla, il suo nome non è su nessun manifesto, solo nei piccoli locali dove si esibisce con voce e chitarra, ma il nostro protagonista si muove come qualcuno che sa esattamente chi vuole essere. E lui ha scelto di essere Bob Dylan, cognome che è molto più di una scelta estetica. È un tributo a Dylan Thomas, certo, ma anche una dichiarazione di intenti. Zimmerman, il nome di famiglia, appartiene al passato. Dylan è una nuova identità, un progetto preciso di sé stesso, un biglietto di sola andata verso un futuro che ancora non conosce, ma che intuisce essere straordinario.
Quello che colpisce in questa prima fase del film è il ritratto di un Dylan affamato. Affamato non di successo, ma di storie, di suoni, di significati. Lo vediamo aggirarsi nei locali del Village, con la curiosità febbrile di chi vuole divorare il mondo. Impara ascoltando, osservando, immergendosi in una cultura musicale che attinge dal folk, dal blues, dalle radici più profonde dell’America rurale. È un giovane che sembra muoversi con un orecchio nel passato, raccogliendo la tradizione, ma con gli occhi costantemente rivolti al futuro. Nel film assistiamo alla sua rapidissima ascesa. Dylan diventa la voce del folk americano, un cantautore che riesce a trasformare le storie della gente comune in inni generazionali. Ogni canzone è un manifesto: parla di lotte sociali, di libertà, di giustizia. E mentre il pubblico e la critica lo consacrano come il portavoce di una generazione, Dylan inizia a sentirsi in trappola. Il regista ci mostra questa tensione in modo sottile, attraverso sguardi, silenzi, e piccoli gesti che tradiscono la sua irrequietezza. Perché se da un lato Dylan si nutre della tradizione folk, dall’altro inizia a percepirla come una gabbia.
La parte centrale del film è dominata dal conflitto interiore di Dylan. Come artista, ha raggiunto il successo, ma quel successo non gli basta più. Non vuole essere il simbolo di un movimento o un profeta della controcultura. Vuole essere sé stesso, ma sé stesso sta cambiando. Il film esplora questo momento con una sensibilità unica, mostrando Dylan mentre inizia a distaccarsi da tutto ciò che lo ha definito fino a quel momento: il folk, le radici, i miti che lo avevano ispirato. Si avverte l’urgenza di andare oltre, di sperimentare, di rompere con il passato. E il regista non si limita a raccontare questa trasformazione: ce la fa vivere. La colonna sonora si evolve, passando dai toni semplici e puri del folk a suoni più complessi, stratificati, che anticipano la rivoluzione elettrica di Dylan. La fotografia cambia, diventando più dinamica, quasi frenetica, a simboleggiare l’energia creativa che inizia a ribollire dentro di lui.
Il momento più potente del film arriva nel finale, quando Dylan visita ancora una volta Woody Guthrie in ospedale. Guthrie, il grande cantautore folk che era stato il suo primo eroe, è un uomo malato e fragile, un’ombra del gigante che era stato. È una scena carica di emozione, in cui Dylan si confronta con il simbolo del passato che lo aveva ispirato. Il regista costruisce questo momento con delicatezza, senza eccessi melodrammatici, ma con una profondità che lascia il segno. Guthrie rappresenta tutto ciò che Dylan sta per lasciarsi alle spalle: il folk puro, le radici, la tradizione. In quella stanza d’ospedale, Dylan sembra salutare non solo Guthrie, ma anche una parte di sé stesso. È come un rito di passaggio: un ultimo omaggio al passato, prima di immergersi completamente nel futuro.
A Complete Unknown ruota intorno a un tema fondamentale: il distacco dal passato. Dylan abbandona il nome di famiglia, Zimmerman, per reinventarsi. Abbandona la tradizione folk, pur avendone assorbito ogni lezione, per spingersi verso nuovi territori musicali. Ma non è una rottura violenta: è un addio rispettoso, pieno di gratitudine, ma anche di necessità. Ed è proprio questo a renderlo così potente. Il finale non chiude nulla: rappresenta l’inizio di un’altra storia. Dylan è pronto a voltare pagina, a iniziare un nuovo capitolo, lasciandosi alle spalle tutto ciò che lo ha definito fino a quel momento. È un momento di transizione che racchiude tutta l’essenza del film: un viaggio non verso la consacrazione, ma verso l’incessante ricerca di sé stessi. Perché, alla fine, la vera arte non può essere statica. Deve evolvere, trasformarsi, rompere gli schemi.
Carmen Apadula